L’estate del 2023 resterà nella nostra memoria (speriamo davvero sia la sola) come una stagione di violenza e di morti.
Non sono stati terremoti e alluvioni a mietere vittime nel nostro paese, ma la matta bestialità degli umani. Al primo posto per gravità e frequenza c’è sicuramente la ferocia che si è accanita sulle donne: compagne, ex compagne, ragazze indifese o addirittura bambine, una violenza crescente che va dalle botte quotidiane come cifra della relazione allo stupro di gruppo e al femminicidio.
Ci sono poi accoltellamenti e sparatorie fra giovanissimi in risposta a “sgarri” di nessuna importanza e i numerosi e cruenti incidenti stradali quasi tutti frutto di comportamenti lucidamente spericolati. Questi gli eventi ascrivibili alla delinquenza comune, ma in questa allarmante panoramica non vanno tralasciati i morti sul lavoro (559 in sette mesi!), solo raramente risultato di tragiche fatalità, quasi sempre conseguenza di mancata prevenzione e applicazione delle norme di tutela, con il solo scopo di incrementare il lucro.
Si tratta di una situazione complessa che è difficile affrontare senza incorrere in generalizzazioni o in banali istanze forcaiole.
Di fronte a questi eventi e alla difficoltà di capire ci si interroga sulle cause, si cercano risposte nelle analisi sociopolitiche sulla relazione uomo-donna, sulla crisi della genitorialità, sulla sempre crescente pervasività dei social, sulla troppo poca o poco adeguata scuola. Lo stato d’animo prevalente che generano situazioni come quella che stiamo vivendo è di una sempre maggiore (e qualunquistica) sfiducia nelle istituzioni e desiderio di provvedimenti più severi.
Si tratta naturalmente di una visione miope, ma bisogna tenere presente il forte peso dell’aspetto emotivo: le semplificazioni non sono sempre frutto di inadeguate capacità di analisi, ma più spesso dell’insicurezza e delle paure che la violenza stessa genera.
La strumentalizzazione politica nei momenti di disorientamento è poi una tentazione irrinunciabile e ad analisi sommarie seguono talvolta – sta accadendo in questa stagione politica – provvedimenti demagogici e inutili quando non dannosi.
Bisogna dire che l’analisi delle cause di questi avvenimenti è complessa, si tratta di eventi che si consumano in situazioni e ambienti spesso lontani e diversi, ma con una incidenza che fa pensare a un fenomeno sistemico. Insicurezze, fragilità, contesti di appartenenza deprivati e violenti, desiderio di potere, cambiamenti culturali che producono – soprattutto per quanto riguarda la violenza di genere – sentimenti di frustrazione e di inferiorità, sono argomenti convincenti ma non esaustivi. L’analisi di tipo psicologico non dà da sola risposte soddisfacenti ed è invece necessario anche esaminare i contesti sociali e culturali nei quali il malessere si nutre e cresce.
L’aumento della violenza certamente affonda le sue radici nel disagio. La precarietà economica, la massiccia presenza della cultura malavitosa, la povertà educativa sono i fattori più ricorrenti quando si cerca di analizzare le dinamiche di un comportamento violento. C’è poi da dire che accanto ai caratteri comuni, hanno un peso determinante le specificità dei singoli contesti.
La ricetta più facile è certamente quella che dà risposte – o presunte tali – immediate, quelle che placano le paure, come i divieti, le restrizioni, gli inasprimenti delle pene, la presenza massiccia delle forze dell’ordine. E non manca chi a sostegno delle decisioni forti arriva a tirare in ballo i tempi andati e a giurare che nel ventennio “si dormiva con le porte aperte”, ignaro della situazione reale della criminalità in quegli anni, per niente rassicurante, come hanno rivelato gli archivi della polizia.
Affermazioni urlate ogni volta come “basta violenza!” o “da ora in poi non ci saranno più zone franche” è un approccio che rassicura sul momento chi è spaventato e soddisfa il bisogno di affidarsi e di fidarsi, ma non ha maggiore contenuto di realtà del “bloccheremo l’arrivo di tutti i migranti irregolari”.
La via del contrasto alla violenza ha molte specificità, ma necessita di una visione di insieme fatta di analisi corrette e di strategie politiche e sociali adeguate, di interventi immediati sì, ma soprattutto di una progettualità globale di lunga durata.
La violenza sulle donne
Negli ultimi anni le nostre piazze si sono riempite di panchine rosse con o senza i nomi delle donne uccise che volevano ricordare e i décolleté rosa sono diventati simboli del femminicidio durante le manifestazioni
L’aumento allarmante della violenza sulle donne scaturisce in buona misura dal profondo cambiamento della consapevolezza di sé e dei propri diritti che ha caratterizzato negli ultimi decenni il sentire delle donne e che in certi casi produce senso di frustrazione e rabbia nei loro compagni. La strada è spesso buona fonte di conoscenza, dove si possono cogliere frammenti di quella realtà quotidiana che non sempre affiora nei questionari delle nostre indagini, si possono percepire i segnali di cambiamento come quelli delle mentalità dure a morire. Come il commento ascoltato dal vivo nella fila davanti a un ambulatorio di una donna del popolo che ha commentato i recenti episodi di stupro affermando a voce alta «se mi va esco nuda di notte e nessuno mi deve toccare!» o – altrettanto autentica e illuminante – la frase di un uomo dall’apparente estrazione culturale medio-alta che di fronte alla venditrice di frutta, asiatica vestita quasi di un burqa, rivolto all’amico ha sussurrato: «Ah, queste almeno non danno fastidio!». Solo una facezia certo, ma non priva di un leggero retrogusto di rammarico.
Il problema sembra dunque essere sociale e culturale e si nutre quasi sempre di convincimenti antichi e inveterati e di resistenza al cambiamento.
Una recente ricerca sulla violenza sulle donne condotta da Action Aid e Ipsos su un campione di 800 adolescenti fra i 14 e i 19 anni ha presentato un risultato sconcertante: un intervistato su cinque ha affermato che «la vittima sicuramente se l’è cercata con un abbigliamento o un atteggiamento provocante» e che in molti casi lo stupro si poteva evitare. L’immagine che viene fuori è quella di giovani assatanati e senza cervello, incapaci di resistere a una scollatura profonda o a una coscia nuda e che concepiscono il soddisfacimento di una pulsione come un atto violento e non condiviso dall’altra. Davanti a questi rozzi cavernicoli sfilerebbero dunque sfrontate ragazzine che indossano abiti succinti per tentarli e provare l’ebbrezza di un rapporto sessuale – meglio se plurimo – violento e disgustoso.
È evidente che queste posizioni, oltre che rozze e volgari, sono il tentativo estremo di costruire attenuanti a un crimine, attenuanti, ahimè, spesso concesse.
L’emergenza minori
Un altro dato allarmante è la violenza giovanile, anzi, ormai siamo sempre più costretti a parlare di violenza minorile vista l’età dei ragazzi che sempre più spesso si rendono protagonisti di aggressioni e di omicidi.
Nel caso della violenza giovanile l’analisi è più complessa e variegata perché il fenomeno si differenzia in questo caso anche per realtà geografiche, come spiega efficacemente Isaia Sales, autore del saggio Teneri assassini[1],in una recente intervista a La stampa. «Quella minorile qui è violenza di classe, a differenza di altre realtà d’Italia dove esiste anche una violenza da noia o delle baby gang straniere. A Napoli c’è una parte di città che quando incontra l’altra cerca di sovrastarla […] oggi i mestieri illegali offrono un reddito superiore a molti lavori leciti sicché i ceti colti e benestanti non sono più un modello da imitare. Il sottoproletario non vuol assomigliare al professore del quinto piano, non prova più invidia per lui ma disprezzo. Oggi il vero figlio di papà è il figlio del boss».
E anche le tanto invocate sanzioni non rappresentano più un deterrente per questi ragazzi, che spesso portano come motivo di orgoglio l’esperienza fatta nel carcere minorile.
La violenza minorile più di ogni altra forma di comportamento violento, dimostra che la via della repressione è inefficace se non si lavora seriamente alla prevenzione e alla cura con lo strumento dell’educazione. La scuola torna prepotentemente protagonista, dunque, con le sue luci e le sue ombre. In molti casi, soprattutto nelle aree più deprivate e governate dalla criminalità, la scuola è fragile e inadeguata, nelle strutture come nelle competenze, che non si costruiscono e non si inventano con la buona volontà. È necessario rivedere politiche e investimenti, trovare risorse adeguate per l’edilizia scolastica ma anche e soprattutto per il reclutamento e la formazione degli insegnanti, che deve includere oltre a solide competenze disciplinari competenze psicopedagogiche e metodologiche, soprattutto quando il suo compito va ben al di là dell’istruzione.
Ma questo problema richiede ben altri approfondimenti.
[1] Isaia Sales, Teneri assassini, Marotta e Cafiero, Napoli, 2021.