Cultura

31 gennaio 2023

Mamma, raccontami. Le storie di violenza (di genere) di cui nessuno parla

Quando un fatto di cronaca come quello accaduto alla neomamma e al suo bambino al Pertini di Roma finisce su tutti i giornali, succede che se ne parla per giorni, si rimane sbigottiti, dispiaciuti, ammutoliti. Si dicono tante parole. Forse anche troppe parole. Poi all’improvviso quelle voci si affievoliscono, giorno dopo giorno, finchè non si sentono più. Quella storia, quelle storie, si dimenticano. Quel dispiacere va a finire in fondo alla lista delle cose di cui più o meno ci importa. Quella rabbia si spegne. Finchè non accade di nuovo.

Sono una giovane donna. Vivo in una grande città, in cui tutto è frenetico, frettoloso, faticoso, a volte frustrante. Quando ho deciso, insieme al mio compagno di vita, di diventare madre l’ho fatto con quella dolce inconsapevolezza di chi si butta a capofitto in un nuovo progetto, pensando di saperne, in fondo, qualcosa. Pensavo di essermi preparata adeguatamente. Ho fatto il corso preparto, ho scelto la struttura in cui avrei partorito, mi sono affidata a chi, questo, lo fa di mestiere. Mi sono presto scontrata con quello che pensavo di sapere e mi sono resa conto che diventare madre in un mondo frenetico, frettoloso, faticoso può essere molto frustrante.  Dico questo perché, e lo dico per provocazione ma nemmeno troppo, il mondo che ruota attorno all’essere madre, prettamente femminile per definizione e gestito prettamente da personale femminile è, invece, fondamentalmente di stampo maschile. E che quella che fino ad oggi abbiamo sempre chiamato violenza ostetrica può effettivamente rientrare nell’ambito della violenza di genere. Di Violenza, con la V maiuscola, sulle donne.

E ve lo dimostro.

Ve lo dimostra Francesca, che ha partorito durante la seconda ondata di Covid, lasciata completamente sola per tutte le sue diciotto ore di travaglio, che ha chiesto di poter portare suo figlio al nido per riposare qualche ora e ha ricevuto come risposta che no, lei doveva solo allattare e non era previsto che si riposasse. Francesca, lasciata per giorni con la camicia da notte con cui aveva partorito sporca di sangue, perché da sola non riusciva nemmeno ad andare al bagno, figuriamoci cambiarsi. E le ostetriche erano troppo impegnate per farlo. Francesca che tornata a casa ha sofferto di depressione post partum.

Ve lo dimostra Stefania, che ha partorito con contrazioni indotte, ravvicinate e dolorose, alle quali il personale medico non credeva, pensando esagerasse. “Quando ho iniziato a perdere sangue l'ostetrico mi ha strillato di non aver rimesso gli slip ed un assorbente. Non ce la facevo da sola. Mi ha accompagnato in bagno e me lo ha passato in malo modo”, mi racconta. Non le hanno creduto nemmeno quando ha rotto le acque. Come se si potesse mentire su una cosa del genere. Stefania ha partorito di tutta fretta perché il bambino era in sofferenza, ma a lei nessuno diceva nulla. Anzi, la guardavano male se sobbalzava durante i punti, quando era rimasta da sola, senza il suo bambino e senza il suo compagno.  "Adesso puoi dire alle tue amiche che si può partorire anche senza epidurale!", le ha detto l’ostetrico il giorno dopo. Probabilmente con quell’ironia con cui tutti si approcciano a questo tipo di battute, senza saperne assolutamente nulla.

Ve lo dimostra Manuela, che ha partorito due figli in due diverse città e ha avuto ben due esperienze di violenza. Insultata, durante il primo parto, dal ginecologo che più volte quella notte l’ha intimata di “chiudere la bocca” perché secondo lui urlava troppo. Ginecologo che il giorno dopo, durante le visite, si è premurato di passare a trovarla per dirle unicamente che la notte prima aveva rischiato di sentirsi male e che il suo atteggiamento avrebbe potuto compromettere la nascita del bambino. “Ho partorito di notte - mi dice - ero stanca. Provavo un misto di felicità e paura. La prima notte col bambino da sola anche io mi sono addormentata mentre allattavo ed è stato solo grazie ad una donna che era lì ad assistere la figlia, e che mi ha svegliata, che al bambino non è successo nulla.” Manuela che per il parto del suo secondo figlio ha scelto un punto nascita di eccellenza del quadrante Est della città in cui vive e che si è ritrovata, dopo un lungo travaglio trascorso senza nessun aiuto da parte del personale medico, a partorire un bimbo esanime, che non piangeva, che respirava a malapena, che le è stato portato via senza spiegarle nulla. Mentre lei, per cambio turno, veniva abbandonata su una barella nel corridoio, di nuovo sola, di nuovo senza avere notizie del suo bambino”.

A queste donne e a molte altre donne ogni giorno viene fatta violenza in quanto donne. Ve lo immaginate come sarebbe diverso tutto il sistema se a partorire fossero gli uomini? Pensate che ad un uomo che sta provando il dolore fisico più pesante che esista qualcuno urlerebbe di chiudere la bocca? Che ad un uomo ci si possa rivolgere con ironia o derisione durante o dopo un evento del genere? Che ad un uomo qualcuno direbbe che non può riposare, non può mangiare, non può andare al bagno perché deve avere come unico scopo quello di allattare? Io credo di no.

E viene fatta su di loro violenza in quanto donne perché si pensa che “è questo quello che le donne fanno”. E devono fare. Come se fosse un passaggio dovuto dell’essere donna. Ed esclusivo affar suo. Al contrario di una comune persona che viene ricoverata in ospedale la neomamma non viene trattata come una paziente. Eppure è questo quello che è. Ha subito un intervento, ha bisogno di assistenza, di cure. Eppure tutti hanno solo una gran premura che sappia da subito cosa significhi essere madre, che da subito si prenda cura del suo bambino, che da subito sappia allattarlo nel modo giusto, che da subito sappia cambiarlo, che da subito sacrifichi il suo sonno, tutti i suoi bisogni per lui. Nessuno pensa che quella donna ha bisogno d’aiuto. E di tempo. E quando lo chiede, l’aiuto, è una cattiva mamma. Ed è una cattiva mamma se non fa rooming in, cosleeping, allattamento a richiesta, babywearing, insomma se non risponde positivamente a tutta la sfilza di devi che il sistema le impone in quanto donna. Perché la violenza fa presto ad uscire dai reparti ospedalieri e ad accompagnare tutto il percorso genitoriale della mamma.

Sapete quante volte mi hanno apostrofato con le parole “hai voluto la bicicletta? Ora pedali”. E a questa frase, detta da un uomo o da quella che pensavo essere un’amica che mamma non è, rispondo con un mezzo sorriso beffardo. Perché io, Francesca, Stefania, Manuela abbiamo imparato a pedalare da sole, di certo senza rotelle, di certo senza nessuno che ci tenesse il sellino. E siamo diventate mamme, brave mamme, nonostante il sistema, che di certo ha fatto di tutto per mettersi davanti al nostro sentiero. Nonostante la violenza che ci è stata fatta in quanto donne. E con questa forza, che nessun altro al mondo ha, altro che bicicletta. Possiamo portare un TIR.

“Questa notizia fa molto male, scrive mamma Carola. Forse perché quella mamma potevo essere io. Il momento in cui sono diventata madre doveva essere il momento più bello della mia vita e invece lo ricordo come uno dei più difficili in cui ho dovuto lottare per guadagnarmi il lieto fine della mia storia”. Quella mamma potevo essere io. Potevi essere tu. Proviamo a pensarci e a non ricordarlo solo quando un fatto come questo accade. Proviamo a pensare a questo sistema che non solo non tutela le donne, al contrario fa loro violenza. E probabilmente la nostra percezione nei loro confronti cambierà. Non giudiciamo, non deridiamo, non facciamo ironia gratuita. Mostriamo empatia. E forse qualcosa potrà cambiare.

L'autore

Elisa Spadaro