Politiche educative

11 ottobre 2021

Marco e Simone, dalla scuola alla GKN

Mio fratello mi aveva detto che alla GKN di Campi Bisenzio, la fabbrica tristemente famosa per la sua chiusura improvvisa con licenziamento di tutti i dipendenti, aveva incontrato due ex studenti del mio professionale che mi conoscevano perché erano venuti in vicepresidenza molte volte (troppe, hanno detto..). Quando ci sono stato anch’io li ho cercati per salutarli e ho chiesto loro se avevano voglia di raccontare la loro esperienza di scuola e poi di lavoro. Hanno accettato volentieri, mi hanno proposto di tornare la settimana dopo insieme a mio fratello, molto incuriositi di riparlare di scuola con dei professori a tanti anni di distanza dalla loro esperienza.

Simone è trentacinquenne, più giovane di Marco che di anni ne ha quarantuno, sono entrati nel mondo del lavoro molto giovani, Marco con la licenza media e Simone con la qualifica del Cfp del Comune di Firenze.

Entrambi giudicano i propri percorsi di scuola sul disastroso andante, ed è difficile non essere d’accordo: Simone ha fatto per tre volte la prima meccanica; finalmente promosso in seconda è nuovamente bocciato. Aveva deciso di smettere ma alla fine lo convinsi a provare almeno il passaggio al secondo anno del formazione professionale, grazie all’accordo che avevo trovato perché al Centro regionale riconoscessero la promozione in seconda sufficiente per il passaggio diretto al loro ultimo anno. Quindi Simone è uscito con la qualifica ma ad un’età in cui si dovrebbe uscire con la maturità.

Marco invece nel mio professionale ha fatto un solo anno bocciando e passando subito al percorso regionale, senza però completarlo per vicende familiari che si sono sovrapposte.

Entrambi si sono definiti “capre”, non fatti per la scuola, e giudicano di conseguenza le bocciature meritate. Come dire che dal loro travagliato tragitto scolastico non fanno derivare un giudizio negativo sulla scuola ma su sé stessi.

Abbiamo chiesto se la loro non voglia di studiare potesse dipendere in qualche misura dal “come” era chiesto loro di farlo e il discorso si è fatto molto interessante.

Marco ha detto che a scuola non aveva un obiettivo, si sentiva solo coinvolto in un prolungamento della scuola media. Ogni giorno di scuola era all'insegna del passato, non di un futuro desiderabile.

Nel centro di formazione dove è andato dopo la bocciatura un obiettivo l’aveva: uscire con il titolo che permette di rilasciare certificazioni. Inoltre in quel contesto l’impegno di studio era concentrato su poche materie, non come nel professionale dove ogni due o tre mesi c’è da fare i conti, tra scritto orale pratico e grafico, con diciassette diverse valutazioni. Ma soprattutto si aveva la sensazione di star imparando davvero qualcosa; “si capiva come funziona il lavoro” dice Marco, che è qualcosa di più di acquisire gli strumenti e e le tecniche, qualcosa che rimanda a una immersione reale nel contesto di lavoro, che è cosa ben diversa dall’ascoltare spiegazioni e fare esercizi alla lavagna.

Un’altra cosa interessante che ha detto Marco è stato che dal lavoro, nel suo caso quello di fabbro, ha dovuto ristudiare matematica perché per costruire scale elicoidali c’è bisogno di calcolarle con precisione. Immagino che lo abbia fatto senza particolare entusiasmo, ma almeno ha trovato un senso in quella fatica che invece la scuola chiede senza motivare.

Simone ha una memoria di professionale molto più forte, non tanto perché uscito da meno tempo quanto perché ci ha trascorso ben quattro anni, tutti passati nel biennio. Come dire che ha attraversato la scuola con un moto circolare quasi uniforme, e si sa che quando si gira in tondo non si va avanti ma si vedono molte più cose di quando si va su una linea retta.

Il racconto di scuola di Simone è tutto una memoria dei suoi professori. Parla solo di loro, come se essi fossero l’unico residuo solido che si è sedimentato in lui.

Li ha descritti con precisone, cogliendo a fondo i caratteri di ciascuno, mostrando disprezzo per quelli che lo meritavano e parlando bene di quelli che lo meritavano; a conferma che i nostri allievi spesso studiano poco le materie che insegniamo ma molto noi che le insegniamo.

Quando Simone ha fatto il colloquio per la GKN gli hanno chiesto se sapeva cos’era un semiasse e se aveva mai smontato un giunto. Del semiasse aveva la conoscenza generica che abbiamo tutti, ma nonostante avesse alle spalle un biennio professionale per motorista si è reso conto che non aveva mia visto un giunto, né tantomeno smontato. C’è molto su cui riflettere per chi si occupa di istruzione professionale.

Nessuna altra domanda per Simone al colloquio: assunto in cinque minuti; “domani mattina qui a lavoro” è stata la chiusura. Si parla tanto di un mondo del lavoro che oggi mette il sapere al lavoro, ma c’è tanto lavoro che non chiede sapere. Cerca ragazzi poco formati perché li vuole formare da sé, a immagine e somiglianza dei sudditi che cerca.

Simone è entrato alla GKN come interinale e poi licenziato come tutti gli altri. Solo attraverso la causa che hanno aperto e vinta sono rientrati. Evidentemente un percorso collettivo che gli ha insegnato molto.

Mi hanno accompagnato in un giro intorno alla fabbrica, la “loro” fabbrica che tengono in letargo ma non morta. Controllano lo smaltimento delle acque inquinanti, tengono in macchinari in condizioni pronte all’uso. Perfino tagliano l’erba.

La scuola che vuol preparare davvero ad affrontare le competizioni che si incontreranno nella vita dovrebbe essere collaborativa e non competitiva, ma in questo caso è avvenuto l’opposto: la collaborazione e solidarietà di gruppo i miei ex studenti l’hanno scoperta in fabbrica, mentre la competizione e la selezione l’hanno conosciuti a scuola. Una selezione che li ha tagliati fuori e lasciato in loro la certezza di non essere né capaci e né meritevoli.

C’era un’altra scuola possibile o davvero Marco e Simone non erano “fatti per la scuola”?

Marco ci ha detto che gli interessa la storia alternativa, ha letto un sacco di libri sulle ipotesi di contatti con mondi paralleli; abbiamo discusso delle linee di Natzca e del perché la scuola ignora i vicoli ciechi e le ipotesi che sfuggono a una ricostruzione lineare.

Simone invece mentre parlava dei suoi professori ci ha detto che ogni volta che in televisione ridanno Novecento lui lo guarda perché il mio amico Girolamo, che era il suo prof di italiano, ha letto in classe tutto il libro di Baricco. Non un brano preso da una antologia, ma l’intero libro e ad alta voce. Simone ha detto che gli ha trasmesso il gusto della lettura e lui non l’ha più perso.

Un’altra scuola possibile c’è, ma a Marco e Simone è toccata questa; non sono loro che non sono fatti per la scuola ma è la scuola che non è pensata per loro. È fatta ancora per quelli che imparerebbero anche senza scuola.

Li abbiamo fatti sentire “palle perse”, e loro ci hanno creduto. Sono usciti fragili e probabilmente disposti ad adattarsi a tutto. Una merce preziosa, mai passata di moda per il mondo del lavoro, almeno per una gran parte di esso.

Ma qualche volta - succede sempre più raramente ma succede ancora - la merce nello stoccaggio di contamina e cambia natura. Marco e Simone hanno sperimentato un lavoro dove si entra tutti insieme e si lavora spalla a spalla; corpi solidi, non liquidi, non isolati nello spazio vuoto dello smartwork. Una comunità con una coscienza collettiva cementata ancora di più dopo l’arroganza e l’ingiustizia subite.

La fabbrica con la sua socialità da classe operaia ha dato loro un’identità forte, con la consapevolezza dei doveri ma anche dei diritti e della necessità per difenderli di acquisirne coscienza collettiva.

Assumendo la responsabilità dell'intera fabbrica, dalla depurazione delle acque al taglio dell'erba, i prototipi di sudditi usciti da scuola sono diventati cittadini.

Cittadini senza un lavoro forse, ma sovrani.

L'autore

Giuseppe Bagni