Padrona delle notizie sulla scuola in questa settimana la presentazione del Rapporto Invalsi 2021, in diretta streaming dal CNR di Roma a conclusione di un anno scolastico molto particolare, ancora profondamente influenzato dalla persistenza della pandemia. Si tratta delle prime prove standardizzate rivolte a tutti gli studenti dopo la sospensione delle rilevazioni nel 2020. Rappresentano la prima misurazione su larga scala degli effetti sugli apprendimenti di base conseguiti (Italiano, Matematica e Inglese), dopo lunghi periodi di interruzione delle lezioni in presenza a causa dell'elevato numero dei contagi. Nonostante le difficoltà organizzative dovute alla pandemia, la partecipazione delle scuole è stata elevata in entrambi i cicli scolastici (oltre il 98% nella scuola primaria, il 93% nella scuola secondaria di primo grado e l'82% nella scuola secondaria di secondo grado). Le prove hanno coinvolto oltre 1.100.000 allievi della scuola primaria (classe II e classe V), circa 530.000 studenti della scuola secondaria di primo grado (classe III) e circa 475.000 studenti dell'ultima classe della scuola secondaria di secondo grado. Sono state svolte oltre 3.820.000 prove CBT (computer based testing) nell'arco di quasi tre mesi, da marzo a maggio nelle scuole secondarie di primo e secondo grado. Quest'anno non erano previste le prove per gli studenti delle classi II della scuola secondaria di secondo grado. Emergono alcune indicazioni che lasciano intravedere aspetti che nel ciclo secondario contribuiscono a determinare esiti diversi sul territorio nazionale e tra le scuole. In entrambi i cicli in tutte le materie le perdite maggiori di apprendimento si registrano tra gli allievi che provengono da contesti socio-economico-culturali più sfavorevoli. I divari territoriali si ampliano maggiormente passando dalle regioni del Centro-nord a quelle del Mezzogiorno. E su quest’ultimo giudizio si è scatenata la polemica sui media, tra favorevoli e contrari alle prove Invalsi, tra considerazioni strumentali e riflessioni autentiche.
La posizione della FLC CGIL è stata espressa in un articolo a firma del segretario generale Francesco Sinopoli, pubblicato da questa stessa rivista, a cui rinviamo. Per ragioni di spazio cito tre commenti autorevoli sui quotidiani, che rappresentano tre modi differenti e contrastanti di giudicare il Rapporto Invalsi, e il ruolo stesso dell’Istituto.
Il primo commento è del pedagogista Daniele Novara, che su Avvenire di venerdì 16 luglio scrive: “non sono mai stato un amante delle Prove Invalsi, di questa idea che il funzionamento della scuola possa essere verificato attraverso le risposte esatte. Paradossalmente i dati, resi noti in questi giorni, hanno finito per confermare che la Dad non è nemmeno riuscita a salvare la scuola tradizionale presidiata proprio dalle crocette sulle risposte giuste. Emerge un gran disagio nei nostri ragazzi che a scuola si sentono come degli ospiti o persone di passaggio, lì parcheggiate senza capirne bene il motivo. Da tempo denuncio che la scuola italiana ha un arretramento pedagogico significativo rispetto agli altri Paesi europei, abbarbicata com’è nel mito della lezione frontale e di un giudizio ancora veicolato da numeri utilizzati con la precisione di Guglielmo Tell”. Inoltre, aggiunge Daniele Novara, “Il permanere di un focus assolutistico sulle materie crea una demotivazione fortissima, un calo di interesse negli alunni e tanta dispersione scolastica. La Dad si è quindi inserita in un quadro già compromesso. Meravigliarsene sarebbe fuori luogo. Resta invece lo stupore di come il Ministero non riesca a dare una svolta nel formare insegnanti in ottica pedagogica, a porre le basi per una scuola dove si apprende, non semplicemente dove si ripetono nozioni e contenuti. Un presidio pedagogico in ogni scuola e una formazione adeguata sarebbero il minimo necessario. Il disagio dei nostri ragazzi ha pure una ragione più profonda localizzata nella gestione degli adolescenti italiani da parte dei genitori”. Ed ecco la considerazione più squisitamente educativa di Novara, che apre a ulteriori e più forti riflessioni sulla generazione dei millennial: “Da sempre propongo, in adolescenza, la convergenza educativa sul padre e sul paterno. Di fronte a genitori più o meno disperati ribadisco che la mamma, ovvero la figura che ha gestito tutta l’infanzia, può essere avvertita dai figli quasi come una zavorra. Il rischio è che vogliano alzare l’asticella della provocazione in maniera esagerata pur di scrollarsi di dosso questo peso. Non ci sono colpevoli: l’allontanamento va gestito, non contrastato. Il padre diventa quindi una figura di negoziazione e di regolazione di questo allontanamento, che può essere guidato attraverso tecniche specifiche – come ad esempio quella del paletto per cui si mette un limite dentro cui comunque l’adolescente ha una libertà di scelta”. L’invito di Daniele Novara è dunque quello di non rifarsi ai meri dati numerici e alle percentuali per entrare nelle esistenze di una generazione a disagio, ma di ripensare i modelli di riferimento.
Il secondo commento è molto più duro e radicale. L’autore è Lino Patruno, storico giornalista de La Gazzetta del Mezzogiorno. Il titolo dell’articolo è già una sfida: “Basta Invalsi e chiedete scusa alla scuola del Mezzogiorno. Ma quando la finiremo con questa commedia dell’Invalsi?”. Si capisce già tutto il contenuto. L’incipit dell’articolo è tanto radicale quanto potente: “Ogni anno i Savonarola scendono nelle scuole ed emettono la sentenza. Un disastro. Anzi questa volta ancora peggio, perché c’è la didattica a distanza da mettere sotto accusa. Uno studente su due alla maturità ne sapeva quanto alla terza media. Italiano, matematica e inglese sotto il minimo della decenza. E, ovvio come il solleone d’estate, Sud peggio di tutti. A cominciare da Puglia e Campania, le regioni nelle quali i ragazzi sono stati di più a casa con la Dad. Addirittura il 16 per cento ha abbandonato prima della maturità e del diploma: si chiama dispersione. Insomma, scuola ancora bocciata. Siccome non è la prima volta che avviene, e non è la prima volta che è il Sud a fare la figura peggiore in un Paese che non ne fa una granché migliore, allora uno si aspetta una conclusione. Interveniamo perché la situazione migliori. Interveniamo perché i censori dell’Invalsi non si debbano sempre tirare i capelli per la situazione, poverini. Interveniamo perché la scuola non si debba sempre coprire la testa di cenere. Invece niente, assolutamente niente. La scuola italiana continua a essere la meno finanziata d’Europa. I professori italiani continuano a essere i peggio pagati d’Europa. Il Sud continua a essere la vergogna di un’Italia che non è che nelle altre regioni vinca l’Europeo come Chiellini e compagni. L’anno prossimo, altro giro, altra corsa. Appunto: commedia all’italiana. Con un afflato di onestà intellettuale, così, fra le righe, l’inesorabile rapporto rileva che le cose vanno peggio nelle famiglie in condizioni economiche disagiate. Ma guarda, non sarà soprattutto al Sud? E non sarà che dal Sud mantenuto come l’area più vasta e popolosa di ritardato di sviluppo in Europa, si pretenda che partorisca studenti fenomeno?”. E ancora, un bambino del sud “avrà meno asili nido, meno scuole per l’infanzia, meno tempo prolungato, meno mense, meno scuolabus, meno biblioteche, meno aiuti in casa, meno lezioni private, più classi numerose a Vibo Valentia che a Brescia. E perché? Perché al Sud così è con uno Stato dai figli e figliastri. Che dà a chi più ha e toglie a chi meno ha. Ma all’Invalsi non interessa. L’Invalsi scende e colpisce. Poi se la veda lo Stato, che non se la vede. E poi questa volta la Dad. Con gli ineffabili presidi che sparano su quei cattivoni dei governatori delle Regioni (a cominciare da Puglia e Campania) che non hanno voluto far andare i ragazzi a scuola. Mentre un’altra metà di presidi dicevano che con quei livelli di virus sarebbe stata una follia far andare i ragazzi a scuola. Anzi addirittura in Puglia sono nate un’associazione di famiglie anti-Dad e una di famiglie pro-Dad. Curva Sud e Curva Nord. Di fronte alle quali un governatore che fa? Trasforma la Dad in Did, didattica integrata a distanza, cioè chi vuole va in aula, che non vuole resta a casa. Una non-decisione? E allora vai a mettere d’accordo la Curva Sud e la Curva Nord. Con l’altro piccolo particolare che riguarda il bambino sfortunato per essere nato al Sud: meno computer in casa. Ma questo non interessa l’Invalsi né tantomeno il virus, che fa di testa sua”. Ed ecco la conclusione di Lino Patruno: “ma l’essenziale è che ciascuno faccia la sua parte. L’Invalsi condanna. L’opinione pubblica si scandalizza. I giornali stigmatizzano. Il ministro si impegna (forse). I ragazzi senza competenze. Il Sud è il solito Sud (per il quale da vent’anni non si calcola il livello minimo di diritti così lo Stato può continuare a tenerli sotto quel minimo). Con un’unica certezza: arrivederci al rapporto dell’anno prossimo”.
Più compassata la riflessione di Andrea Gavosto. In un intervento comparso sul quotidiano La Repubblica, il direttore della Fondazione Agnelli scrive: “siamo di fronte ad una emergenza educativa senza precedenti: la ferita rischia di segnare a vita questa generazione per molti anni, se non per la vita”. Gavosto rintraccia due punti su cui bisogna riflettere in merito alla questione: il primo punto è la didattica a distanza che “è stato un sostituto modesto della didattica in presenza: non a caso le superiori, che hanno utilizzato l’online” più delle scuole medie e primarie, “hanno sofferto maggiormente”. “Nel lockdown della primavera del 2020 - spiega Gavosto - la Dad non aveva alternative; ma nei mesi successivi il governo ha invece trascurato le altre strade, adottate nel resto d’Europa, per garantire l’insegnamento in presenza, con sufficiente sicurezza”. È chiaro che visti gli sviluppi della situazione epidemiologica con l’avanzare della variante Delta, il pensiero va a settembre, quando “la Dad non potrà essere l’unica soluzione”, aggiunge Gavosto. Tuttavia secondo il direttore della Fondazione Agnelli il problema non è la Dad in sé. Ma come è stata utilizzata: “I docenti si sono limitati a riproporre online il metodo d’insegnamento tradizionale: lezione frontale, compiti e verifiche. La didattica digitale può essere efficace a condizione che gli studenti non siano soggetti passivi davanti ad un video”. E ancora: “La pandemia semmai - prosegue Gavosto - ha messo ancora più in luce che le competenze didattiche di troppi docenti si fermano a un’unica modalità - la vecchia - e sono perciò inadeguate. La sola conoscenza della materia non basta più: al centro va messa la capacità di insegnare”. Ecco perché secondo Gavosto “formazione e aggiornamento all’innovazione didattica devono diventare un obbligo per tutti con continue verifiche della qualità raggiunta”. Se non abbiamo capito male, l’origine di tutti i mali per il direttore della Fondazione Agnelli restano la scuola pubblica e i suoi docenti, incapaci di formarsi e di capire come si insegna.
Pino Salerno