Articolo33 e Pepeverde
Scegli l'abbonamento adatto a te
Scopri di più

Le notizie della settimana

dal 06 al 12 settembre 2021

La settimana dell'istruzione sulla stampa

La palma di notizia della settimana la conquista sicuramente l’Istat che a proposito di benessere e di qualità della vita scopre nuove cifre drammatiche che riguardano i giovani, le donne, e il Mezzogiorno. L'emergenza sanitaria seguita alla pandemia da Covid-19 ha avuto ripercussioni rilevanti sul mercato del lavoro, in particolare sulle componenti più vulnerabili (giovani, donne e stranieri) che già partivano da condizioni occupazionali più difficili. Il tasso di occupazione della popolazione in età compresa tra 20 e 64 anni in media in Italia è sceso al 62,6% (era 63,5% nel 2019). Nonostante il calo abbia riguardato maggiormente il Nord del Paese, più colpito nella prima ondata pandemica del 2020, lo svantaggio del Mezzogiorno rimane elevatissimo, con un tasso di occupazione del 48%, rispetto al 71,5% del Nord e al 67,4% del Centro rileva l'ISTAT nell'aggiornamento annuale del sistema di indicatori del benessere equo e sostenibile dei territori. I cali di occupazione più ingenti si osservano sia per alcune province del Mezzogiorno, come Sassari, dove il tasso di occupazione per le persone di 20-64 anni passa da 59,7% del 2019 a 53,6% (-6,1%), Vibo Valentia (-4,5%) e Siracusa (-4,1%), sia tra le province del Nord, tra cui Cremona (-4,5%) e Vicenza (-4%). Tra le donne cali consistenti si rilevano anche nelle province di Benevento, Rovigo e Belluno. Nel 2020 le prime quattro province con i valori più elevati del tasso di occupazione sono nel Nord-est. La migliore in assoluto risulta Bolzano (77,2%), seguita da Bologna (76,6%), Forlì-Cesena (75,3%) e Trieste (75,1%). Quinta è Firenze (74,3%). All'opposto, tutte le province del Mezzogiorno si collocano nella coda della graduatoria nazionale. Le più penalizzate sono Crotone (35,6%) Vibo Valentia (40,0%), Caltanissetta (41,2%), Napoli (41,4%) e Foggia (42,6%). Tra il 2010 e il 2020 il tasso di occupazione è aumentato nella maggioranza delle province. Ciononostante è cresciuto anche il gap tra i territori, specialmente per gli uomini. La distanza tra la provincia con il tasso di occupazione maschile più basso e quella con il tasso più elevato passa da 27,8 punti percentuali nel 2010 a 36,4% nel 2020. Per le donne il divario territoriale, già molto ampio nel 2010 (44,2 punti percentuali di differenza tra la provincia con il tasso di occupazione femminile più alto e quella con il tasso più basso) aumenta ulteriormente nel 2020, arrivando a 48,4 punti percentuali.

Dopo alcuni anni di diminuzione, la percentuale di giovani che non lavorano e non studiano (Neet) torna a salire, raggiungendo nel 2020 il 23,3% in media-Italia (+1,1 punti percentuali rispetto al 2019). Il trend è accentuato al Nord (16,8%; +2,3 punti) e al Centro (19,9%; +1,8 punti). Il Mezzogiorno, che registra invece una contrazione modesta (-0,4 punti), resta comunque su livelli doppi rispetto al Nord, con circa un giovane di 15-29 anni su tre che non è inserito in un percorso di istruzione o formazione né è occupato (32,6%) rileva l'ISTAT ancora nell'aggiornamento annuale del sistema di indicatori del benessere equo e sostenibile dei territori. La distribuzione tra le province mostra una evidente divaricazione tra l'area del Nord-est e la Sicilia, dove la quota di Neet tocca il 40% a Messina, Catania e Caltanissetta. Tuttavia, la provincia con il valore più alto del tasso è, anche nel 2020, quella di Crotone (48%), che marca una distanza notevole da Pordenone (10,7%), Ferrara (11,1%) e Sondrio (11,9%), le province più virtuose. In generale, tra il 2010 e il 2020 l'incidenza dei Neet aumenta per quasi i due terzi delle province. Tra quelle che invece presentano una dinamica nettamente positiva si segnalano Pordenone (17,9% nel 2010; -7 punti percentuali) e Brescia (14,7% nel 2020 da 21,6%). Nel Mezzogiorno le evoluzioni positive più marcate emergono per Matera (24,5%, -8 punti percentuali rispetto al 2010) e Brindisi (28,9% da 36,8%).

Scuola. La settimana si apre il 2 settembre con la conferenza stampa a palazzo Chigi, con Draghi, Speranza, Gelmini, Giovannini e Bianchi. E le modalità per la ripartenza in presenza di tutte le scuole non potevano non essere al centro delle dichiarazioni, tanto del presidente del Consiglio quanto dei singoli ministri. La conferenza stampa è stata poi riportata su tutti i quotidiani del giorno successivo, scegliendo come titolo e notizia da lanciare uniformemente: “Bianchi, no mascherina in classi di vaccinati”. In realtà, si tratta di una scelta del governo abbastanza controversa, che ha poi suscitato alcune reazioni critiche e un vistoso passo indietro nei giorni seguenti. Il ministro della Salute, Roberto Speranza, ribadendo che la riapertura in presenza "è priorità assoluta", lancia una sorta di appello, ripreso dai quotidiani: "Spero che presto avremo un numero alto di classi in cui tutti saranno vaccinati, ciò consentirà di allentare le misure e togliere le mascherine". E i numeri sembrano dare ragione al governo, visto che proprio il premier, Mario Draghi, comunica: "Il 91,5% degli insegnanti ha almeno una dose di vaccino". Non solo, perché stando alle stime del ministro dell'Istruzione, Patrizio Bianchi, anche i ragazzi vaccinati "aumentano sempre di più, soprattutto tra i 16 e i 19 anni. Siamo arrivati a questa fase lavorando moltissimo e puntando sulle persone. Abbiamo fatto un lavoro lungo e silenzioso, la nostra scuola è viva e può svolgere il suo ruolo fondamentale". E per questo "abbiamo avviato i concorsi per i prossimi due anni e abbiamo preso l'impegno di far partire concorsi regolari ogni anno", oltre ad aver assunto "8.700 unità di personale Ata e inserito 59mila insegnanti", oltre ai "13mila di sostegno nelle scuole". Sullo sfondo di questo scenario, resta accesa la discussione sull'uso dei tamponi salivari. Il sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri, continua a non ritenere utile l'obbligo vaccinale per gli studenti, ma auspica l'utilizzo dei test antigenici "per uno screening a campione". Posizione che raccoglie il plauso del leghista Rossano Sasso: "Dobbiamo vincere le ultime timidezze delle autorità sanitarie", avverte il sottosegretario all'Istruzione, perché "c'è un passo ulteriore da compiere, allargare la platea degli studenti da testare. I 110mila ragazzi al mese previsti dal programma sulle cosiddette scuole sentinella non è un numero che riteniamo sufficiente". La scuola, dunque, resta centrale, per la politica e ovviamente sui media.

Intanto, il 4 settembre Tuttoscuola lancia l'allarme sulle classi pollaio, che viene ripreso e rilanciato in particolare da Repubblica con un articolo di Corrado Zunino. Quasi 400mila studenti coinvolti da Nord a Sud in 14mila aule. Il ministro Bianchi ha chiesto un'attenta analisi dei dati a livello territoriale da cui emerge che queste classi sono concentrate nelle grandi città e, in particolare, negli istituti di secondo grado, affermazione poi confermata durante l’audizione in commissione Cultura della Camera dei deputati. Tra le riforme del Pnrr, fra l'altro, c'è anche quella relativa proprio alla riduzione del numero di studenti per aula. A destare preoccupazione è dunque la fotografia scattata dal dossier 'Classi pollaio, ora basta' di Tuttoscuola, che traccia la mappa aggiornata del fenomeno. "Sono circa 382mila gli alunni e quasi 25mila i loro insegnanti che nell'anno della pandemia sono stati assegnati nelle 13.761 classi" da 27 a 40 alunni "dei diversi ordini di scuola. Si parla da anni di questa piaga, ma alla vigilia del terzo anno scolastico colpito dal Covid - che avrebbe dovuto far aumentare il grado di urgenza anche per i profili di sicurezza - non è cambiato nulla. E ora che non è più obbligatorio il metro di distanziamento in classe il problema esplode", denuncia la testata specializzata. Sono stati i licei scientifici ad avere il maggior numero di 'classi pollaio': 3.899 oltre il limite, pari al 13% del totale. Quasi una su otto. Seguono i licei classici (il 9,4% delle 12.275 classi funzionanti e 1.206 con più di 26 ragazzi). Negli istituti tecnici, ancora, le aule che ospitano non meno di 27 studenti erano l'anno scorso 2.919, pari al 7,1% delle 41.007 classi di questo settore, quasi appaiati dagli ex istituti magistrali con il 6,9%. Nelle scuole professionali, invece, si vede un numero relativamente ridotto di 'classi pollaio' (955), cioè 3,9% delle 24.311 in giro per l'Italia.

Pino Salerno