Attualità

05 settembre 2022

Autonomia differenziata non s'ha da fare, ed ecco perché

Dal 2018, quando in articulo mortis il governo Gentiloni avviò un processo di attribuzione di maggiore autonomia alle Regioni che la richiedevano (Emilia Romagna, Lombardia e Veneto), ai sensi dell’art 116 comma 3 della Costituzione, il dibattito pubblico è dominato in modo ricorrente dal tema della cosiddetta “autonomia differenziata”. Un termine “spurio“, inventato, entrato nel lessico politico, come spuri e inventati sono “governatore” della Regione, “federalismo”.

Un dibattito ideologico, cioè a razionalità rovesciata, dove le parole – di pura fantasia, come appunto governatore, federalismo, autonomia differenziata – tentano di imporre una realtà che nella Costituzione italiana non esiste, non ha fondamento

I cosiddetti governatori, più correttamente presidenti, delle tre regioni summenzionate, arruolando costituzionalisti in pensione o di riserva, pensandosi come potenti figure “di stato” si muovono, credendoci davvero, come se fossero in uno stato federale. In modo particolare quelli del Veneto e della Lombardia, dopo la cocente sconfitta della loro pars politica che tentò negli anni novanta del secolo scorso la secessione e nel 2006 una riforma costituzionale che fu bocciata dai cittadini, hanno dovuto prendere atto che nel 2001 la Riforma del Titolo V, approvata da un referendum confermativo, ha loro tolto il giocattolo “federalista” circoscrivendo la materia autonomistica dentro una cornice di decentramento ispirata all’art. 5 della Costituzione.

L'Italia non è uno stato federale

La riforma del Titolo V è piena di pecche e solo la Corte Costituzionale ha potuto arginare la conflittualità permanente che si è innescata da allora fra Stato e Regioni senza però venire a capo delle contraddizioni derivate dall’equiparazione fra Stato ed Enti locali messi sullo stesso piano come articolazioni della Repubblica. Solo a noi profani evidentemente sfugge la differenza fra Repubblica e Stato e non certo ai raffinati “governatori” con la loro corte di costituzionalisti regionali. In ogni caso le Regioni hanno cannibalizzato gli Enti locali, e la costituzione “materializzatasi” dal 2001 a oggi, contraddicendo la sua stessa lettera (il potere di intervenire appartiene all’ente più vicino al cittadino e l’ente superiore interviene solo di riserva), ha creato uno spaventoso contropotere regionale che coarta i poteri periferici e contrasta il potere centrale, agendo “come se” fossimo in uno stato “federale”. E non si può tacere del fatto che i venti centri di potere regionali hanno già dato ampia prova di clientelismo e di spreco con un estremo affaticamento dei lavori delle corti di giustizia in ogni capoluogo regionale.

Riavutosi dalle batoste subite, passato un po’ di tempo, lo schieramento una volta secessionistico è tornato alla carica mandando avanti i dirigenti veneto e lombardo (non può farlo direttamente il loro capo nazionale che da Partito per il Nord si è convertito a Partito per gli italiani). Trovando essi, tuttavia, un insperato appoggio, sul piano politico ideologico geografico, da parte del “governatore” dell’Emilia Romagna.

La confusione regna sovrana

Differenze di approccio fra i tre, ma comunanza di vedute su un fatto: noi siamo i migliori, lo Stato non funziona quanto noi, dateci poteri di intervento sulle materie che la Costituzione prevede possano essere ulteriormente attribuiti alle Regioni. Il danno che provoca il cosiddetto governatore della Regione Emilia Romagna è di gran lunga superiore a quello che egli pensa di evitare riducendo le richieste di ulteriore autonomia. La confusione che egli getta nella parte non-di-destra è enorme perché mescola i campi, aggroviglia gli schieramenti, inibisce l’iniziativa dei contrari alla disgregazione insita in una impropria interpretazione dell’autonomia differenziata, lavora con gli avversari fingendo di dire cose diverse ma assecondandone le derive territorialiste e frammentatrici.

Lo sconcerto nello schieramento non-di-destra è enorme perché il presidente emiliano- romagnolo avalla una interpretazione totalmente errata del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione e trascina il suo stesso partito di appartenenza su di un terreno che è dell’avversario.

L’art. 116 terzo comma della Costituzione ha un solo senso: nelle materie richiamate si possono attribuire forme e condizioni “particolari” di autonomia su richiesta. Le forme e le condizioni debbono essere, appunto, “particolari”. E allora la domanda è: dove stanno le particolarità che rendono fattibile la richiesta delle tre regioni in una delle 23 materie possibili?

Ha qualche particolarità l’Emilia Romagna, che so? sulla questione dell’istruzione o della viabilità o dell’energia? Lo dimostri e se ne può parlare…Il Veneto ha qualche particolarità regionale, che so? sui porti, sull’agricoltura, sul turismo? Lo dimostri e se ne può parlare… E la Lombardia ha qualche particolarità, che so? sulle acque lacustri, sull’ambiente, sulla produzione industriale? Lo dimostri e se ne può parlare.

Insomma, possono essere praticate attribuzioni di ulteriori specifiche materie solo se esse sono fondate su situazioni peculiari della Regione richiedente perché quest’ultima mostra e dimostra una diversità da tutte le altre regioni su quella materia.

Questo dice la costituzione vigente, che va solo correttamente applicata.

Perché è del tutto evidente che i diritti non sono regionalizzabili: i diritti civili e sociali sono del cittadino e non del territorio e vanno assicurati «prescindendo dai confini territoriali dei governi locali» (art. 120 Cost.).

I diritti dei cittadini non dipendono dal territorio di appartenenza

In effetti occorrerebbe, oggi, combattere una battaglia politica che dovrebbe avere un solo obiettivo: di autonomia non si parli più per un certo lasso di tempo. Quel lasso di tempo necessario a mettere preliminarmente le cose a posto sul piano della creazione delle condizioni che garantiscano al cittadino italiano, ovunque egli risieda, i diritti civili e sociali.

Un lasso di tempo che riconduca allo stato le sue capacità di assicurare istruzione, sanità, previdenza, assistenza, mobilità in ogni angolo del Paese determinando i livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali. Cosa che richiede tempo perché vanno trovate le risorse e vanno storicamente individuati tali livelli con il coinvolgimento di tutte le soggettività istituzionali e sociali (ad esempio per l’istruzione, le scuole le università, i docenti, il personale, gli enti locali ecc.).

Un lasso di tempo necessario per passare preliminarmente dalle tappe imprescindibili dell’individuazione dei fabbisogni standard e relativi costi abbandonando alle ortiche la spesa storica.

E nei diritti sociali da garantire su tutto il territorio nazionale (istruzione, sanità ecc.) occorre prima raggiungere la perequazione territoriale sicché, se qualche regione poi vuole investire su questo o quel comparto in aggiunta a quanto assicura il LEP e a scapito di un altro comparto che ritiene secondario, lo possa fare liberamente.

Ora la lotta deve essere, da un lato, di interdizione di qualsivoglia iniziativa volta a differenziare fra territori e, dall’altro, di perseguimento della perequazione strutturale territoriale in materia di servizi e di diritti. Applicando gli articoli 119 e 120 della Costituzione che impongono questi obiettivi.

Per quanto suggestivo possa essere lo slogan, in materia di lotta di contrasto all’autonomia differenziata, che è quello della denuncia della “secessione dei ricchi”, esso ha in sé un difetto: che i ricchi esistono anche nelle regioni del sud che non sarebbero coinvolgibili in questa lotta. Che è una lotta di classe che si deve combattere per uno stato sociale egualitario.

Il senso di un'autonomia rispettosa delle persone e dei territori

Si deve cambiare la Costituzione per chiudere la partita? Che la supremazia dello Stato, per superare ogni equivoco interpretativo, debba essere riportata in Costituzione non v’ha dubbio; ma ciò va fatto in modo chirurgico, delicato, non invasivo perché la Costituzione nel suo impianto autonomistico va conservata. Infatti, il nucleo forte di ogni lotta oggi è: no a qualsiasi forma di autonomia se, va ribadito, non sono stati definiti i LEP, se non si è superata la spesa storica e non si sono individuati i fabbisogni e costi standard, se non si è realizzata la perequazione strutturale delle infrastrutture. In una parola se non si è applicata la Costituzione nel campo dei diritti civili e sociali. Il diritto all’istruzione ad esempio è statale e intangibile: se ne facciano una ragione tutti quelli che immaginano un'Italia come la fattoria degli animali di orwelliana memoria.

Diciamolo con chiarezza: la Costituzione italiana possiede una dimensione sociale che il pensiero liberista in economia mal digerisce. Un pensiero, questo, dominante tutto lo schieramento dei partiti al Governo e non. E allora non valgono a nulla le raccomandazioni, ad esempio della Commissione Caravita istituita dall’attuale Ministra per le Autonomie, a non procedere se non sono stati preliminarmente determinati i LEP, a escludere l’istruzione, a stare attenti alla questione dei costi, a superare la spesa storica. E a nulla valgono gli altolà di questo o quell’intellettuale, di questo o quel giornale, di questo o quell'amministratore del Sud Italia. Anche l’autonomia differenziata, per come la si interpreta e per come la si vuole applicare, fa parte di quella deriva di classe, di classe dominante, che dei diritti sociali non vuole sentire parlare.

Forse nel 2018, quando il problema venne alla luce per iniziativa leghista con l’accodamento tardivo ma strumentale dell’Emilia Romagna, il dibattito poteva avere un senso: vediamo quel che si propone e discutiamone. Oggi non vi sono più le condizioni perché tale tema rimanga in agenda. Non vi sono più le condizioni strutturali nemmeno per parlarne; basti elencare: pandemia, inflazione, guerra dentro i confini del cosiddetto “Occidente”, Unione Europea incatenata e senz’anima, povertà in aumento, stato sociale al collasso (sanità e istruzione sono lì a dircelo tutti i giorni). perché si metta una pietra sopra, per lungo tempo, a questa interpretazione fasulla e classista dell’art. 116 comma 3 della Costituzione.

Vista, dunque, la situazione politica, vista la situazione economica, vista la situazione istituzionale, la scelta oggi deve essere una sola: chi parla di autonomia differenziata in questa situazione va contrastato, chiunque egli sia, Bonaccini come Zaia, Elly Schlein come Salvini, Meloni come Grillo, Letta come Speranza, Boccia come Gelmini.

Essi sono tutti contro la caratura sociale della nostra Costituzione e le loro posizioni politiche sulla cosiddetta autonomia differenziata vanno denunciate per quello che sono: giochetti di bassa politica fatti sulla pelle del Sud e del cittadino che lavora. E come tali vanno denunciati e respinti.

L'autore

Armando Catalano