Attualità

01 settembre 2022

Carlo Buttaroni, Tecné: perché i poveri non votano e le ragioni della crisi della sinistra

A poche settimane dal voto legislativo del 25 settembre abbiamo intervistato uno specialista dei flussi elettorali e sondaggista: Carlo Buttaroni, sociologo, presidente di Tecné. Nelle nostre discussioni politiche, non solo in Cgil, facciamo spesso riferimento all’abbandono progressivo della partecipazione al voto soprattutto di chi abita nelle periferie e dei poveri. Buttaroni e Tecné hanno prodotto alcune rilevazioni ed elaborato studi per comprendere questo fenomeno. Quali sono dunque le cause vere, sociali e culturali, di questo allontanamento dalle urne di chi ha meno da sperare nella politica?

In realtà noi abbiamo sempre avuto una lettura socio-economica del comportamento elettorale. È sempre stata una lente attraverso cui leggere la realtà che ci troviamo dinanzi e abbiamo cercato di capire come si muovevano gli elettori. Una lente che ha assunto sempre più importanza a mano a mano che è diventato meno fondamentale il voto ideologico, con la fine dei partiti di massa e di quei nuclei forti del sapere che hanno caratterizzato il Novecento, sia dal punto di vista filosofico che da quello politico. Il voto “economico”, come adesso lo definiamo, ha preso forma e maturazione perché sono finite le ideologie, ma soprattutto perché viviamo in una società molto al limite, stressata. Basti pensare che mentre negli ultimi dieci anni è diventata meno importante nel palinsesto sociale la cultura, è ora molto più centrale l’aspetto del vissuto quotidiano, delle difficoltà economiche, in Italia in modo particolare. L’Italia è l’unico Paese tra i grandi in Europa in cui i redditi sono calati del 3% mentre in Germania sono cresciuti del 30% e perfino la Grecia è cresciuta. Ciò ha determinato un peggioramento del rapporto con la politica, divenuta sempre più ricerca alle risposte di natura economica piuttosto che un’idea di società da costruire.

Quali sono i paradigmi sociali che spiegano queste tendenze del nuovo millennio, di distanziamento dalla politica e dalla partecipazione al voto?

I processi sociali hanno velocità lente, inevitabilmente. Tuttavia, hanno momenti di accelerazione, soprattutto perché avvengono fatti decisivi che ne determinano lo svolgimento. La crisi del 2008 è stata una delle crisi più pesanti che abbiamo vissuto dal dopoguerra in poi. Decisamente più impattante sulla vita quotidiana delle persone rispetto all’ultimo decennio del Novecento. Anche se non fu una crisi economica vera, ma lo divenne per le scelte sbagliate di politica economica, perché nacque come crisi finanziaria e si trasferì nell’economia reale per effetto delle politiche economiche che andarono nella direzione di scaricare “a terra” la crisi, introducendola nella vita delle persone. In realtà, si tratta di un processo più lungo, che ha avuto inizio negli anni Novanta del Novecento. Tre variabili agiscono assieme: una è la perdita del potere d’acquisto dei salari, che ha influito tantissimo nel distacco di molti dalla politica, la seconda è la fine delle ideologie che ha dato vita ad una iper personalizzazione dei leader, fenomeno che ha condotto a una fine di quei nuclei forti che avevano caratterizzato il Novecento. La terza variabile, che si tiene in scarso conto, è il declino del trend di crescita culturale che invece aveva caratterizzato l’Italia dal dopoguerra in poi. Fino a metà degli anni Ottanta, l’Italia e gli italiani crescevano economicamente e cresceva la partecipazione al voto. Non c’è mai un solo rapporto tra causa ed effetto, ma dalla metà degli anni Ottanta, con un’accelerazione formidabile fino ai giorni nostri, abbiamo avuto livelli culturali che hanno smesso di crescere alla velocità precedente – in alcuni anni sono perfino declinati –, il tasso di crescita dell’economia ha rallentato molto ed è aumentato molto l’astensionismo. Queste tre variabili ci consentono di capire la situazione attuale.

A questo punto si apre lo scenario della relazione tra scuola, saperi, conoscenze e partecipazione attiva alla vita pubblica e politica. Negli ultimi trent’anni molto è cambiato nelle fasi dello sviluppo culturale e sociale del nostro Paese, e sono cambiate le generazioni. Il mondo dell’Istruzione ha risposto in parte eliminando la politica dal sistema delle conoscenze, mentre crescevano disillusioni e delusioni. Qual è la tua diagnosi?

Le responsabilità sono comuni. A un minor interesse verso la cultura e della domanda culturale ha fatto riscontro un’offerta da parte della scuola che non ha seguito un orizzonte, a differenza di quanto accaduto nei decenni immediatamente successivi al dopoguerra, dove l’obiettivo principale era quello di alfabetizzare gli italiani. Si è risposto al bisogno di base dell’alfabetizzazione, mentre l’economia “tirava” la crescita culturale. Oggi è tutto più confuso, e regna l’iper specializzazione, che non consente di guardare il mondo com’è nella sua complessità. Abbiamo invece bisogno di tornare a riflettere su una conoscenza che non sia solo il frutto della iperspecializzazione imposta dalle condizioni produttive ed economiche. Pensiamo ad esempio alla Divina commedia di Dante: non è solo un’opera letteraria ma è un compendio delle conoscenze dell’epoca e quando Dante ha scritto quel capolavoro non c’era una divisione tra conoscenza e scienza. Oggi, lo sforzo che dobbiamo fare è quello di pensare a una ricerca che ci conduca a una sorta di “teoria del tutto”, a una conoscenza non più verticale, ma orizzontale della complessità. Perfino la fisica teorica oggi s’indirizza verso quella direzione: trovare una teoria che spieghi il tutto, evitando visioni parziali.

Viene in mente il consiglio di Gramsci ai sindacalisti, di evitare quanto più possibile l’economismo, come forma egemone di conoscenza del mondo, senza invece capire che si tratta di una subalternità alla cultura del capitale. È ancora così?

Credo che occorra riconsiderare l’uso che facciamo delle discipline attraverso le quali cerchiamo di comprendere il mondo. Se L’economia, per quanto sia scienza importante e fondamentale per governare la società, rimane comunque uno strumento. Il punto è che oggi esiste un deficit di visione. L’economia deve servire a trovare le strade verso l’obiettivo che ci si pone, altrimenti restiamo subordinati a qualche formula economicistica che ci dice come comportarci. Le politiche economiche della crisi del 2008 e ancor più quelle di oggi, quelle che la Bce sta mettendo in campo per contrastare l’inflazione con l’aumento dei tassi, considerano il fatto che si tratta di un’inflazione endogena che nasce nel sistema economico e produttivo, mentre è un’inflazione che ha cause esogene come l’aumento delle materie prime e la situazione geopolitica. Se in questo momento si aumenta il costo del denaro la situazione endogena si peggiora. E soprattutto non esistono più gli strumenti per contrastare la crisi nel breve periodo.

Ciò spiega in parte anche la crisi della sinistra?

L’economismo, nella definizione gramsciana, spiega anche la crisi della sinistra, della sua incapacità di produrre un’idea di società che sia in anticipo rispetto alle regole economiche e finanziarie, che non le subisca, elaborando un pensiero nuovo che non sia subalterno ai diversi patti di potere. In Italia, ma anche altrove, questa subalternità la destra non ce l’ha, perché a destra c’è ancora l’idea di un palinsesto delle cose da fare per le quali l’economia deve trovare le soluzioni.

La grande questione che si è aperta a sinistra è come considerare il processo che ha condotto i conflitti sociali dalle piazze alle urne e soprattutto come recuperare l’elettorato disincantato e deluso delle periferie sociali, secondo il paradigma di papa Francesco.

La crisi della sinistra e il successo dei 5Stelle e della Lega, ma molto meno della destra di Meloni, che entra più nel ceto medio, si spiegano con il riferimento alle periferie e a quei soggetti fragili della società che probabilmente non sarebbero andati a votare, costituzionalizzandoli. Hanno avuto il grande merito di portare le persone a votare, e questo è tantissimo. Significa che c’è una domanda di politica in quelle periferie sociali alla quale nessuno, neppure la sinistra, riusciva a dare risposta. La sinistra ha perso i suoi insediamenti tradizionali nelle periferie sociali perché ha cambiato linguaggio e ha subordinato la soluzione del problema del conflitto all’economia, cosa che la destra non ha fatto. Anzi, ha caricato di senso il conflitto spostandolo nelle urne. Di fatto, e me ne rammarico, da soggetto della trasformazione sociale, la sinistra è diventata il controllore del conflitto. Basta fare riferimento alla cosiddetta Agenda Draghi, che è una sorta di abdicazione alla propria funzione storica di costruzione, elaborazione, confronto di una idea originale e progressista della società.

L'autore

Pino Salerno

Allegati

Partecipazione elettorale (.pdf, 37.9 KB)