Attualità

06 luglio 2022

Il gran ballo della valutazione

La deriva che ha preso l'educazione regolamentata, sottoposta ad un costante processo di giudizializzazione, a meccanismi di controllo diversi, a forme variopinte di pressione e ad esigenze della competizione al più alto livello, ci ha portati a trasformare l'atto di qualificare (sì, quello per il quale praticamente nessuno ci ha formati) in un festival di spropositi segnato da credenze, comportamenti e decisioni di ogni tipo. E la cosa peggiore è che molte di esse non hanno nulla a che fare con ciò che una persona impara o non impara, con le sue carenze, i suoi progressi e le sue reali esigenze educative.

E il problema non è solo il lavoro individuale dell'insegnante. Il lavoro delle équipe didattiche – organi collegiali nati per il processo decisionale collegiale a partire dal lavoro cooperativo, il monitoraggio e l'attuazione degli accordi, l'interdisciplinarità e la diagnosi delle difficoltà – ha oltrepassato anche qualsiasi confine logico e si è installato nello sproposito burocratico al più alto livello: il suo corso è segnato da una variopinta danza dei numeri (soprattutto nella cosiddetta valutazione finale). Ed è in questo che abbiamo trasformato l'atto educativo.

La situazione è così preoccupante che il senso primordiale dell'apprendimento (trovare il piacere di scoprire attraverso la conoscenza e la ragione qualcosa di nuovo, così come suscitare la curiosità per ciò che ci circonda) è relegato in secondo piano da quando lo studente accetta "forzatamente" un processo di addestramento che inizia molto presto, con le stesse regole del gioco, ed entra a farne parte. Questo intreccio raggiunge una delle sue fasi culminanti quando arriva quasi a "ossessionarsi" per le note e per tutto lo sfondo competitivo che c'è dietro, che si installa in modo progressivo con l'avanzare del suo periplo scolastico.

Sullo sfondo di queste situazioni rocambolesche, si cela anche uno dei principali problemi del sistema educativo attuale: la continua rimessa in discussione del lavoro degli insegnanti. Qualsiasi distopia orwelliana non viene analizzata attentamente così come la pressione che subisce un insegnante attraverso una moltitudine di vie, fino a lasciarlo senza capacità di difesa e senza possibilità di manovra in molte delle sue funzioni. E, in attesa della direzione che si prenderà con le nuove leggi, la pubblicazione dei voti è ancora una di queste, una delle principali, almeno nella parte burocratica e strettamente accademica: con molta probabilità. Il momento di qualificarsi è forse il più grande senso di coercizione per un insegnante nel corso della sua carriera professionale, situazione che cresce man mano che si sale di tappa.

Le qualifiche, fintanto che continuano ad esistere, almeno nell'istruzione di base, sono la concretizzazione oggettiva del risultato delle evidenze di apprendimento che sono state fatte con un gruppo di alunni. È vero che poco hanno a che fare con la valutazione continua e formativa, ma in fin dei conti, nel corpus tradizionale scolastico, rappresentano il culmine quantitativo di un processo, laborioso, denso e costruttivo, in cui dovrebbe prevalere l'informazione qualitativa: quella che permette allo studente e alla sua famiglia, in un processo continuo di feedback, di conoscere dove si sta sbagliando, per poter sapere dove incidere su qualsiasi piano di miglioramento.

La valutazione è, anche se vogliamo e dobbiamo intenderla separatamente dalla numerazione, il gradino finale di una scala complessa in cui, oltre a monitorare su misura il livello di conoscenze di uno studente e le difficoltà riscontrate in determinati apprendimenti, ci viene chiesto di convertire in una scala numerica da 1 a 10 il progresso individuale attraverso diverse situazioni che comportano strumenti che ci permettono di misurarlo e di registrarlo in modo attendibile. E qui sta il problema. La maggior parte delle pressioni nell'esercizio della nostra professione non arrivano dalle pratiche metodologiche né dagli approcci concreti che l'insegnante fa per concretizzare la programmazione. La maggior parte di essi, invece, non è d'accordo con il criterio adottato al momento di decidere una qualifica (criterio che deve essere unicamente ed esclusivamente quello dell'insegnante che ha dato lezione allo studente, coerente con leggi e programmazione). E questo disaccordo è lecito, certo che sì; è uno dei diritti che devono proteggere la trasparenza e il rigore nell'esecuzione di una procedura che, dal momento che si verifica nell'ambito della pubblica amministrazione (istituti pubblici), diventa amministrativa, soprattutto nel caso della valutazione finale.

Ora, una cosa è il diritto di reclamare per non conformità, e un'altra cosa è rendere abitudine mettere in discussione il lavoro dello specialista tecnico, l'insegnante. Infatti, quando parlo di pressioni, non mi riferisco a quel legittimo diritto, ma a un intero conglomerato di situazioni diverse alle quali nessun professionista di qualsiasi settore dovrebbe essere esposto, perché non è indicatore di quei principi che devono anche guidare la valutazione, oltre a quelli già segnalati: l'obiettività, il rigore, la professionalità e il fare bene. Perché, al di là di tutti i progressi formativi in materia di miglioramento pedagogico e, in particolare, nell'atto di valutare, non dobbiamo dimenticare il senso ufficiale che ha il lavoro che facciamo, e in particolare per coloro che lavorano nell'ambito della funzione pubblica o delle amministrazioni (funzionari, insegnanti interinali...). Caricare un voto, abbassarlo, cambiarlo... sono situazioni che devono essere sottoposte ad un principio di imparzialità, nel quadro della legalità (nell'ambito della concretizzazione curricolare e pedagogica di ciascun istituto). In ogni caso, e come parte degli aggiustamenti che facciamo sempre, possiamo qualificarci in situazioni straordinarie guidate anche da criteri di pari opportunità, equità o compensazione strutturale, perché in precedenza si è studiata una situazione concreta e si è giunti ad una decisione che, ripeto, deve sempre essere dell'insegnante (una volta informato l'équipe educativa), e mai di altre persone che potrebbero intervenire per coercizione, costrizione, pressione, abuso, ecc. Perché, quando parliamo di qualità del sistema, parliamo anche di un quadro garante della norma, di criteri ordinati e consensuali in un apparato burocratico che non dovrebbe sovraccaricarci (ancora di più) ma come ombrello protettivo dei diritti e dei doveri di tutte le componenti di una comunità educativa.

Forse a questo «ballo» di numeri non è rimasto molto, e, alla fine del cammino, tutta questa pressione che non rappresenta alcun apprendimento prezioso per gli studenti, al contrario, è il segnale che ci deve avvisare di un difetto nel sistema, che continua ad aumentare insieme al discredito del lavoro del corpo docente. Se la fine di questo periplo è la valorizzazione della valutazione formativa, quella che si stabilisce in un dialogo continuo discente-docente, sia benvenuta. Ma su questa nuova strada, per una buona assicurazione più arricchente, non si può ricadere nello stesso errore, in una sfilata di ambiguità e disparità che impoverisce il ruolo chiave che l'istituzione scolastica ha per la necessaria coesione sociale e per qualsiasi progetto di comunità democratica che aspira a risanarsi, come specchio di ciò che deve essere la società.

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L'autore

Alonso Albano

Filologo e docente di Letteratura spagnola. Editorialista del quotidiano El Paìs sui temi dell’Istruzione e della filosofia dell’educazione.