Attualità

08 settembre 2022

Francesco Sinopoli. Il conflitto sociale è il sale della partecipazione democratica, nel lavoro e per il lavoro

Viviamo in un'epoca di straordinarie opportunità e contraddizioni, dove un terzo della popolazione mondiale, tra Occidente e Oriente, gode di una qualità della vita di parecchio superiore a quella che ad esempio potevano vantare i re medievali, mentre, grazie alla ricerca scientifica e tecnologica, l'inventiva umana ha raggiunto picchi inimmaginabili anche solo una generazione fa. Nello stesso tempo, tuttavia, i due terzi dell’umanità – quelli che papa Francesco definisce non a torto, gli scarti – sopravvivono di stenti, di povertà, di sete e fame, per effetto di una continua desertificazione del pianeta. Percepiamo con chiarezza che rischiamo la catastrofe. Le conquiste storiche degli ultimi cinquant'anni sono minacciate dall'incapacità delle potenze mondiali di collaborare per proteggerci da sfide sempre più pressanti e "manifeste", come spesso ripete Oliver Stone. Dalla lettura di questa crisi ha origine la conversazione con Francesco Sinopoli, segretario generale della Flc Cgil, con il quale inauguriamo uno speciale che vedrà coinvolti alcuni dei dirigenti della Cgil.

Segretario Sinopoli, partiamo dal contesto politico e sociale del nostro Paese, in queste settimane coinvolto in una campagna elettorale a dir poco complessa e contraddittoria. Che lettura puoi fornire della situazione?

Noi non avremmo voluto che ci fosse una crisi di governo e istituzionale, perché, a prescindere dal giudizio che più volte abbiamo espresso su Draghi, ci sono molti provvedimenti da adottare che investono direttamente lavoratrici e lavoratori, pensionati e coloro che un lavoro non ce l’hanno. Provvedimenti che incidono direttamente nella vita quotidiana delle persone. Detto ciò, quello che si può prevedere dopo il voto del 25 settembre è senza dubbio una situazione sociale enormemente complicata per le ragioni che sono dinanzi ai nostri occhi: crescita esponenziale dell’inflazione come non si vedeva dalla metà degli anni Settanta, possibile recessione economica e problemi enormi sul versante finanziario sul quale pesa il combinato disposto di pandemia e guerra che ha accresciuto il già pesante debito pubblico tra i più alti del mondo. Aggiungo con grande amarezza che il dibattito accesosi mesi fa sulla pace e la guerra tra le forze politiche, dopo la tragica invasione russa dell’Ucraina, è stato letteralmente abbandonato in questa inedita campagna elettorale, in cui sembrano prevalere altri temi. Certo, è stata sollevata la questione dell’efficacia delle sanzioni sull’economia russa mentre in Occidente ne subiamo le conseguenze, ma nessuno, tranne lodevoli eccezioni, nella campagna elettorale tra gli ombrelloni, parla più di pace, di trattativa, di cessate il fuoco, di regolazione pacifica delle controversie internazionali, come prescrive la Costituzione. E neppure si replica alle provocazioni positive di coloro che invitano a sostenere i movimenti pacifisti e nonviolenti del “nastro verde” in Russia. Insomma, come spesso afferma papa Francesco, è come se in Occidente ci fossimo adeguati alla terza guerra mondiale combattuta ovunque e a pezzetti. Ecco, quando si parla di Cgil si parla anche di una organizzazione che ha fatto sua la scelta della pace, senza se e senza ma, ma soprattutto senza più cessione di armamenti, senza più corsa al riarmo. È incredibile che nell’ultimo anno la quota di Pil mondiale per armamenti sia mostruosamente cresciuta, mentre intere popolazioni, ad ogni latitudine soffrivano e soffrono di fame, sete, siccità, carenza educativa. Ricordo, infine, che mentre noi stiamo per aprire le scuole di ogni ordine e grado, nel mondo oltre trecento milioni di alunne, alunni, studentesse e studenti non godono di questo diritto umano fondamentale. C’è anche questo aspetto nella immensa catastrofe umanitaria del nostro tempo, e in campagna elettorale non se ne parla.  

E nel frattempo emergono, anche in campagna elettorale, progetti di riforma costituzionale e dell’assetto istituzionale…

Fai certamente riferimento ai progetti di repubblica presidenziale e di autonomia differenziata. Se osservi bene quel che sta accadendo, è come se fosse scattata una sorta di riflesso pavloviano: nello stesso momento in cui la destra ha lanciato il progetto di riforma presidenzialista – senza alcun riferimento alla sostanza costituzionale del cambiamento – ecco che la Lega ha rivendicato e rilanciato l’autonomia differenziata del nord considerandola addirittura quale prima legge del nuovo governo, qualora quella coalizione dovesse governare. Attenzione, non si tratta solo di slogan, come spesso ripete il professor Massimo Villone, ma di interpretazioni dello Stato e delle istituzioni, che nascondono sempre più forme di autoritarismo da un lato e di secessionismo dall’altro. Alla crisi della politica e della capacità per le istituzioni dello stato di affrontare e offrire risposte alle persone si risponde con una doppia illusione: quella che l’uomo forte a capo di una repubblica presidenziale o di una regione possa rappresentare la soluzione. Idea fallace quanto autoritaria.

E l’autonomia differenziata fa il resto. È così?

In questo folle e sbagliato progetto di trasformazione della nostra repubblica, c’è chi si è convinto che staccando interi pezzi dello Stato “al loro destino” sociale ed economico, l’altro pezzo, quello più economicamente (almeno apparentemente) privilegiato potrebbe godere di maggiori risorse e più benessere. Non è così, e noi, sia come Cgil che Flc, continueremo la nostra battaglia contro questo assurdo progetto, per favorire invece tutti i territori, e non solo al Sud, che invece soffrono di condizioni sociali ed economiche più svantaggiate. Per quanto riguarda in modo più specifico la scuola, l’autonomia differenziata spezzerebbe il mandato costituzionale di una scuola unitaria e nazionale, oltre che laica e pubblica, promuoverebbe la creazione di gabbie salariali, ormai fuori tempo, e soprattutto manderebbe in soffitta la contrattazione nazionale. Chi ha i soldi si paga i propri organici, gli altri si accontenteranno delle briciole. Ma soprattutto si cercherebbe di esercitare un controllo politico sulla scuola, intervenendo con ogni probabilità sui programmi oppure attraverso un più velato ma insidioso condizionamento da parte di una “nuova” dirigenza che i presidenti di Regione sognano di nominare direttamente. Altro che scuola partecipata collegiale e democratica. E non si venga a dire che l’autonomia differenziata è stata legittimata da un referendum popolare nelle regioni del nord, perché non è vero: il quesito non chiedeva affatto il progetto di secessione, ma una maggiore attenzione al bilancio regionale e al cosiddetto residuo fiscale. Non esiste alcuna legittimazione politica al progetto di autonomia differenziata. Anzi, come si è visto durante la pandemia soprattutto nei servizi sanitari di prossimità, in molti casi i servizi universali cui ogni cittadino ha diritto quando vengono gestiti dalle Regioni funzionano poco e male, da Milano a Mazara.

Una situazione che sicuramente preoccupa, e ci stimola ad alcune considerazioni sui temi più scottanti non solo dell’attualità politica, ma anche sociale e sindacale. Qual è la tua opinione?

Tempo fa ho letto un articolo che mi ha molto colpito, per le forzature che conteneva, pur partendo da considerazioni vere. L’articolo era di Federico Fubini sul Corriere della sera e faceva un parallelo tra la Spagna e l’Italia. Mi aveva incuriosito perché pure io spesso faccio paralleli tra Spagna e Italia. La prima considerazione di Fubini era relativa a un dato oggettivo, il peso del debito pubblico, che in Spagna raggiunge il 115% mentre in Italia è del 150%. Senza dubbio è un elemento su cui riflettere. La Spagna, faceva notare Fubini, possiede alcune grandi aziende manifatturiere meglio posizionate delle nostre nella competizione internazionale. Ma poi la cosa sconcertante dell’articolo era il punto di arrivo: qual è la vera differenza tra Spagna e Italia? Per Fubini, il vero problema è quello dei populismi, molto presenti in Italia, mentre assenti in Spagna. Mi sembra un errore di prospettiva, dal momento che la vera differenza tra Spagna e Italia risiede nella mancanza in Italia di una rappresentanza politica riconducibile ai valori della sinistra, una rappresentanza politica autentica, radicata, capace di interpretare quei valori partendo dalla centralità del lavoro salariato in tutte le sue forme con l’obiettivo dell’emancipazione. Ma perché in Spagna c’è un governo di sinistra? Perché in Spagna c'è un governo con un presidente del Consiglio come Pedro Sanchez? Perché in Spagna ci sono stati importanti conflitti sociali che hanno portato alla nascita di un movimento politico, Podemos, che ha contribuito direttamente alla edificazione di un governo socialista. Voglio dire che è del tutto chiaro che il ruolo della sinistra, la sua funzione, la sua esistenza, dipendono dalla presenza di un conflitto sociale in grado di essere tradotto in rappresentanza politica. Senza conflitto sociale non si dà oggi la costruzione di una sinistra politica. Questo è il punto. Del resto, quando la Costituzione italiana è stata applicata, dopo la sua approvazione, ciò è avvenuto grazie a grandi movimenti sociali, a un grande movimento di studenti e di operai, di lavoratrici e lavoratori. Sono i grandi conflitti che hanno fatto fare passi in avanti anche al compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro.

E il governo spagnolo ha operato anche per restituire dignità al lavoro, aumentando il salario minimo, agendo sull’orario a parità di salario, operando sui diritti in fabbrica.

La Spagna fa esattamente ciò che dovrebbe fare un governo di sinistra. E cioè, riaffermare la dignità del lavoro, cancellata in questi 30 anni di dominio assoluto del mercato globalizzato nell’unica modalità che era possibile, quella portata avanti dal punto di vista del capitale. 30 anni di capitalismo selvaggio e primitivo, gli anni del peggiore capitalismo globalizzato. Anche sul piano del rapporto tra conoscenza e democrazia la Spagna si è data nuove leggi e nuove regole, con ministri come Manuel Castells all’Università, ad esempio.  I provvedimenti sulla scuola pubblica (in Spagna la scuola privata è ancora molto forte) partono inoltre dalla centralità della relazione educativa.

A cosa ci porta questa riflessione sulle differenze tra Italia e Spagna?

Colgo l’occasione delle riforme spagnole per tornare ai paradigmi imperanti nell’epoca della globalizzazione capitalistica. Cosa dicevano? Quando è iniziata la risposta del capitalismo al compromesso che si era fondato proprio sulle lotte sociali, emerse una teoria che oggi può apparire strampalata, ma che all’epoca era seguita da illustri economisti liberaldemocratici, secondo la quale i sistemi democratici non possono gestire tutte le domande sociali che si presentano. E dunque le domande sociali vanno selezionate, ma soprattutto troppa partecipazione democratica viene vissuta come un problema. Dal punto di vista del nostro Paese è proprio ciò che è accaduto. Aggiungo che in questo scenario di annichilimento della partecipazione democratica c’è un tratto di classe, che spiega ancor di più quali domande sociali andassero eliminate. Ecco perché alla democrazia non partecipano le classi più povere, in un contesto sociale in cui si è poveri anche lavorando, come spesso ripete il segretario generale della Cgil Landini.

Ma allora, come si esprime il conflitto sociale? Penso ad esempio a quanto accaduto con le istanze e le richieste del Movimento 5 Stelle, che ha riportato il conflitto nelle urne fin dal 2013.

Il Movimento 5 Stelle veniva dopo grandi movimenti sociali. Non dobbiamo dimenticare che negli anni Duemila ci sono stati grandi movimenti sociali. Il millennio è iniziato con Genova 2001, nel 2004 il movimento studentesco contro la Moratti e nel 2008 l’Onda. Certo, vanno rapportati al tempo di oggi. Ad un certo punto, individuabile nella crisi del 2011, con l’avvento delle ricette, sbagliate, imposte all’Italia e interpretate da Monti e dall’establishment economico-finanziario dell’Unione europea, a garanzia del debito italiano, i movimenti cedono. Da quel momento è tutta un’altra storia, che io leggo così. Arriva il governo Monti, sostenuto da un ampio fronte politico, nei confronti del quale andava detto subito no, andava costruito un ampio fronte sociale. Mentre nello stesso periodo in Spagna si affermava un movimento generazionale forte che esprimeva la forte volontà del cambiamento, in Italia il governo Monti assopiva il conflitto sociale, la cui voce si è poi espressa nelle urne del 2013, non più nelle piazze, premiando il Movimento 5 Stelle e punendo la sinistra. Cosa abbiamo appreso da queste vicende? La sinistra nasce dal conflitto sociale, dal basso, e non si affermerà mai dall’alto, altrimenti sarebbe cosa diversa, sia nei valori che nelle politiche. Il punto, dunque, è il conflitto tra l’alto e il basso.

Quel che tu racconti è ciò che Gramsci richiamava con la tesi del “sovversivismo dall’alto delle classi dirigenti”, ovvero la capacità dell’establishment di egemonizzare anche la domanda sociale e disinnescare i conflitti, come poi è in parte avvenuto con il Reddito di cittadinanza, ad esempio.

C’è tuttavia in questi anni post pandemici un forte fermento sindacale, che attraversa tante categorie di lavoratrici e lavoratori in difficoltà. Voglio ricordare le lotte dei braccianti e degli addetti alla logistica delle piattaforme, del trasporto aereo, le lotte del mondo dell’istruzione con gli scioperi del dicembre 2021 e del maggio 2022, gli scioperi generali. Insomma, la mobilitazione nelle aziende, nelle istituzioni pubbliche, nel mondo del lavoro è stata massiccia, a conferma di un conflitto sindacale che non si è mai fermato dopo l’interruzione causata dalla pandemia.  

E tuttavia, le orecchie sorde del governo dinanzi al conflitto sociale hanno fatto il resto.

Va detto che il governo Draghi era nato, per volontà di un ampio schieramento politico, per portare a compimento la missione del Pnrr e per ridefinire la lotta al Covid. Poi si è trasformato in un’altra variante dell’amministrazione controllata di un pezzo dell’establishment economico-finanziario nei confronti dell’Italia, con la complicità di una parte significativa delle nostre classi dirigenti, di coloro cioè che sono ancora convinti che il nostro Paese per migliorare abbia bisogno di un vincolo esterno. Come fu agli inizi degli anni Novanta, quando serviva un vincolo esterno e un’interpretazione ordoliberista dei processi sociali ed economici. Oggi ne paghiamo duramente il fallimento. Riproporre oggi la tesi del vincolo esterno, ad esempio sul Pnrr, che taglia la spesa corrente, mi pare una stoltezza. Verrebbe da pensare che la crisi del governo Conte Due sia stata spinta proprio dagli attuali fautori di questa tesi della necessità del vincolo esterno. Al punto che la cosiddetta Agenda Draghi, da qualcuno auspicata anche in campagna elettorale, in fondo non è altro che un insieme di soluzioni ispirate da quella teoria ordoliberista cara all’establishment economico-finanziario. L’establishment è ancora affezionato alla tesi della “there is no alternative”, non c’è alternativa. Tuttavia, l’alternativa c’è e si deve costruire. A partire da una riforma fiscale che abbatta il debito pubblico attraverso una più saggia progressività delle imposte, come impone la Costituzione, che sia in grado di far pagare tutti, di far pagare chi più ha, di far pagare le rendite finanziarie, senza pesare costantemente sul lavoro salariato e sulle pensioni.

Una tesi, quella ordoliberista, che si fonda sulla convinzione che esiste solo l’individuo… privilegiato. Ricordo il saggio di Norberto Bobbio su destra e sinistra del 1994 col quale il grande filosofo torinese ripercorreva una sostanziale differenza: la destra è fautrice del privilegio, la sinistra si batte per l’uguaglianza. Secondo te, questa differenza, politica e filosofica, è ancora viva?

I liberisti di destra ( tra cui ci sono anche molti che pensano di non esserlo…) sono rimasti imprigionati da questa impostazione iper individualista. Al contrario, i valori della sinistra al fondo riecheggiano quelli della Rivoluzione francese, ai quali si è aggiunto con forza e prepotenza il valore dell’essere umano nel lavoro oltre la merce, di quella specifica libertà della persona nel lavoro che si traduce in tante dimensioni, dal riconoscimento di sé mentre si opera e nel rapporto con l’opera, fino al poter decidere del proprio lavoro, e al riconoscimento di un salario adeguato. Oggi non si può dare sinistra senza riconoscere il rapporto con la dimensione partecipata del lavoro in tutte le sue forme.

Ciò significa recuperare la lezione di Bruno Trentin…

Io credo che ne valga la pena. L’idea più forte, più nitida, più completa, l’abbiamo avuta in eredità da lui, anche grazie a tutte le suggestioni a cui Trentin faceva riferimento per effetto di tutta quella vasta letteratura che aveva incrociato nella sua vita. Vorrei sottolineare la lezione di Trentin sulla centralità dell’istruzione e della conoscenza per raggiungere libertà ed emancipazione, contro ogni tentativo subdolamente meritocratico. Per farlo occorre riconoscere storicamente che i primi decenni successivi alla Costituzione di fatto ripercorrevano ancora metodi di selezione classista tipici della formazione gentiliana. La scuola era specchio fedele delle classi sociali.  Non è certo un caso che negli anni dei grandi conflitti sociali sia stata messa in discussione proprio la scuola di classe. Quel tipo di scuola è stato messo in discussione dalla necessità di attuare la Costituzione, dalla necessità di costruire una scuola pubblica e laica che fosse in grado di formare cittadini che sappiano leggere il mondo, che sappiano fare scelte, che sappiano essere cittadini democratici, per poter costruire la propria vita nella consapevolezza, e per poter costruire la società libera e democratica che la Costituzione auspica. Esattamente la scuola che vogliamo noi oggi.   

L'autore

Pino Salerno