Attualità

23 giugno 2021

Il futuro non è scritto

La pandemia da Covid-19 ha colpito l’economia italiana più di altri Paesi europei. La crisi si è abbattuta su un Paese già fragile dal punto di vista economico, sociale ed ambientale, colpendo più duramente le componenti più fragili della società e i luoghi più vulnerabili. Il Piano Nazionale di Rilancio e Resilienza (PNRR) è lo strumento per rispondere a questa crisi dando la possibilità di costruire un programma di investimenti da realizzare da oggi al 2026. Da Bruxelles arriveranno in Italia 191,5 miliardi di euro a cui si affiancheranno i 30,6 miliardi finanziati a livello nazionale dal Fondo complementare.

Il futuro non è scritto…con accorte politiche pubbliche si possono costruire processi di sviluppo più soddisfacenti.

L’Italia si trova di fronte all’occasione irripetibile di avviare la sua ricostruzione. A Gianfranco Viesti, professore ordinario di economia applicata all’Università di Bari, abbiamo chiesto, questi fondi basteranno?

Molto difficile dirlo. Dipenderà dal moltiplicatore che queste risorse innescherà. Questo perché, con ogni probabilità, la loro spesa avrà un impatto molto maggiore, stimolando investimenti privati e aggiuntivi. D’altra parte c’è anche un problema dell’assorbimento delle quantità totali di queste risorse: non è possibile per le procedure italiane moltiplicare all’improvviso da un anno all’altro la spesa che si riesce a realizzare. Nel complesso è certamente un intervento piuttosto positivo.

Il piano ha come grandi obiettivi trasversali la riduzione delle disparità tra genere, generazioni e tra territori. Destina al Mezzogiorno il 40% della complessiva spesa territorializzabile. Oltre, naturalmente, alla collocazione di risorse nei luoghi più fragili del Paese cosa può fare la differenza?

Questa strategia interessa per ovvi motivi di più il Mezzogiorno, perché una parte significativa delle disparità di genere e generazionali sono relativi a donne e giovani che vivono al Sud, quindi “la terza guerra”, quella alle disparità territoriali è decisiva per vincere “le prime due guerre”. Quello che il piano non fa è spiegarci come intende trasformare il Mezzogiorno: lo lascia supporre perché interviene in tantissime aree utili. Questo 40% è indubbiamente una cifra molto significativa. Anche se è sicuramente meno di quanto si sarebbe potuto indirizzare al Sud ma quello che conta davvero sono le realizzazioni. Quello che a mio avviso manca è che la gran parte delle misure del piano non prevede un’allocazione precisa delle risorse. Quindi si potrebbe dire che questi 82 miliardi oltre ad essere un totale in cerca di addendi sono anche un auspicio più che una certezza. Contano le buone intenzioni ma conta ancor di più quello che c’è scritto. E quello che c’è scritto è troppo poco. Complessivamente a mio avviso è un piano che ha un’anima di modernizzazione del paese, difetta un po' di un’anima di trasformazione, non ha quella capacità di incidere sui nodi di fondo che quantomeno dall’inizio del secolo hanno rallentato molto la crescita della produttività e quindi dell’occupazione più qualificata in tutto il paese. Riuscirà il piano a produrre il cambiamento profondo nell’economia della società nel Mezzogiorno tale da migliorare nettamente la situazione? Forse. Per fortuna non può essere escluso ma nemmeno garantito. Dipenderà da come verrà attuato.

Nel suo ultimo libro per Laterza, “Centri e periferie. Europa, Italia, Mezzogiorno dal XX al XXI secolo”, affronta la questione dei divari territoriali e regionali, parla di Italia e questione meridionale anche in una dimensione Europea, offrendo una mappa delle asimmetrie di oggi con un messaggio di fondo: che le condizioni dei luoghi influenzano le vite delle persone. Perché è importante prendere sul serio questi fenomeni?

Bisogna intervenire sui luoghi perché è proprio nei luoghi che si devono innescare le condizioni favorevoli per la creazione di lavoro, e per la disponibilità effettiva dei servizi dei diritti di cittadinanza, e quindi di servizi pubblici a cominciare dall’istruzione, dalla sanità e dall’assistenza di buona qualità. Dagli studi che ho fatto emerge molto chiaramente che le dinamiche spontanee del mercato non tendono automaticamente a ridurre le disuguaglianze nei luoghi e potenziare i luoghi più deboli. Ci sono in tutta Europa una serie di fenomeni tali per cui nel XXI secolo lo sviluppo e quindi le occasioni di lavoro e quindi le risorse per finanziare i servizi tende a polarizzarsi e dunque le dinamiche di mercato possono addirittura aggravare queste disparità nel senso che tendono, il più delle volte, a creare posti di lavoro laddove ce ne sono già molti e quindi a indurre, ad esempio, i fenomeni migratori. Queste disparità sono a più scale, certamente una molto tradizionale e forte tra Nord e Mezzogiorno ma ci sono disparità crescenti anche all’interno del Centro Nord, ci sono disparità molto sensibili in tutti i paesi Europei a cominciare dalla Francia tra le grandi città e le aree interne, i luoghi rurali.

Le differenze tra luoghi sono sempre esistite e sempre esisteranno ma quello che conta sono le tendenze, e quando ci sono tendenze così forti alla polarizzazione tra centri e periferie, vanno prese sul serio. Abbiamo appena chiuso il nostro peggiore ventennio: senza crescita, senza capacità di creare lavoro. Come si inverte questa tendenza? E in che modo i luoghi devono essere interessati?

Un paese forte è un paese che riesce ad avere i contributi di tutti i suoi luoghi. Quindi la tendenza si inverte solo con il contributo di tutti i luoghi e tutte le persone. Come si interviene? A mio avviso solo l’azione pubblica può fare qualcosa. Anzi, le azioni pubbliche. Si tratta di individuare l’insieme delle politiche e attuare un intervento sinergico e contemporaneo di più attori e in più ambiti. Il contributo delle comunità locali è certamente molto importante perché nessun luogo si sviluppa se i suoi protagonisti non si danno da fare, ma non basta. Ci vogliono intense e attente politiche nazionali.

Nel PNRR si parla di crescita sostenibile ecologicamente. Ma probabilmente ad essa dovrebbe affiancarsi anche una crescita inclusiva socialmente. Ne parla anche nel suo libro…

A mio avviso le società migliori sono quelle che riescono a includere tutti i cittadini, rendere le differenze sociali minori e più sopportabili e contrastare le differenze involontarie. Anche l’inclusione deve avvenire attraverso un insieme di politiche: quello che abbiamo sempre pensato è che la disponibilità di lavoro di buona qualità sia lo strumento fondamentale per l’inclusione ma quello che abbiamo imparato è che questo a volte non basta e che è necessario affiancargli politiche specifiche, politiche di inclusione con misure di welfare e politiche di fornitura di servizi per questo welfare. Un tema fondamentale per l’intero Paese e in particolare per il Mezzogiorno è la discriminazione molto forte di genere, che dipende molto anche dal modello di welfare che c’è nel nostro Paese, dalla circostanza che il carico di cura è molto diverso e pesa quasi solo sulle donne e che in vaste aree del paese, a cominciare dalla Campania e dalla Sicilia, le reti dei servizi sono molto inferiori e del tutto insufficienti. Un programma di intervento che mira a costruire un paese migliore deve tenere in attenzione questi temi. Nel PNRR ci sono interventi di questo genere ma tutto dipenderà da come vengono attuati e dalla loro effettiva capacità di essere più forti laddove ci sono bisogni maggiori. Per fare un esempio, nel piano sono previsti quasi 200mila posti in asili nido aggiuntivi (un’ottima cosa, sia perché si tratta di un servizio educativo di primissima infanzia ma anche perché è uno strumento molto importante e abilitante del lavoro delle donne) ma tutto molto dipenderà da dove saranno investite queste risorse. Se si destineranno la maggior parte dei fondi dell’edilizia degli asili nido all’ammodernamento di quelli che già ci sono i soldi andranno nelle regioni in cui ce ne sono già molti, se si destineranno alla costruzione di nuovi asilo e si daranno  le risorse alle amministrazioni per consentire loro di rimanere aperti… ecco, questa sarebbe l’operazione, a mio avviso, migliore, di maggiore riequilibrio.

Per istruzione e ricerca (la quarta missione del PNRR) sono previste riforme per un totale di 31,9 miliardi di euro con l’obiettivo di rafforzare il sistema educativo, le competenze digitali e tecnico-scientifiche, la ricerca e il trasferimento tecnologico. Lei dedica uno degli ultimi capitoli del suo nuovo libro alle politiche sull’istruzione, sulla ricerca e sulle infrastrutture che hanno frenato l’intero Paese…

Quale momento migliore per affrontare questi temi? Veniamo da un ventennio triste. Siamo stati colpiti da un evento tragico, che genera preoccupazioni molto sensate ma apre una finestra di opportunità per ripensare in chiave lunga e comparata. Attualmente gli ambiti più deboli sono all’inizio e alla fine dei percorsi formativi: quelli della prima infanzia (anche quelli prescolari, particolarmente deboli) e poi quelli legati al contrasto alla dispersione della secondaria e poi al passaggio all’istruzione universitaria. È proprio lì che si trovano i dati che più caratterizzano il nostro paese da cui i due primati molto negativi, quello di avere la quota di giovani laureati più bassi insieme alla Romania tra tutti i paesi europei e quello di avere una quota molto altra di giovani, i neet, che non sono in formazione e non lavorano. Il Piano interviene in modo significativo sulla scuola, meno sull’università: in merito i suoi interventi sono polarizzati su due grandi temi, il diritto allo studio, con misure a mio avviso opportune di orientamento e sostegno economico che tendono a favorire il passaggio dalla scuola superiore all’università e di ponte tra il mondo della ricerca e il sistema economico. Quello che manca un po' clamorosamente è quello che sta in mezzo, quindi il funzionamento del sistema universitario. Non c’è nessun intervento strutturale di ampliamento e potenziamento del sistema.

Non ci sorprende, visto che l’Italia è ancora uno dei paesi dell’Unione Europea che spende meno nella pubblica istruzione universitaria…

Il sistema dell’università pubblica italiano è molto sottodimensionato rispetto agli altri paesi europei da tutti i punti di vista. A mio avviso sarebbe stato opportuno, ad esempio, prevedere un quinquennio di immissione di nuove risorse, di nuovi ricercatori giovani. Qualcosa negli ultimi anni è stata fatta ma non abbiamo recuperato i tagli del decennio infernale 2008/2018 e soprattutto abbiamo un sistema molto piccolo e la capacità del sistema di trasferire poi alle imprese dipende anche da quanto è grande e dalle cose che si fanno. La spesa pubblica nell’istruzione universitaria è nell’ottica di 7 miliardi, in Germania è di 30 miliardi. C’è moltissimo da recuperare e questo il Piano non lo fa.

Inoltre c’è un problema concatenato di investimento complessivo e di selettività territoriale. Nell’ultima dozzina di anni si è creata una situazione in cui non solo le risorse sono state ridotte in termini reali ma c’è anche un tema di impatto territoriale di queste misure. È stata molto forte in passato la linea di coloro i quali sostenevano che le risorse per l’università andassero fortemente concentrate in alcune sedi definite le migliori da questo punto di vista nel piano non c’è assolutamente niente. Bisogna stare molto attenti che non continuino a funzionare questi meccanismi cumulativi perché le differenti dotazioni le differenti possibilità, fanno si che il sistema non sia stato squilibrato una tantum, ma si squilibri sempre. Questo meccanismo colpisce moltissimo l’università delle isole e ha colpito molto tutto il sistema universitario del centro sud. il piano non interviene su quelle caratteristiche strutturali che inducono grandi squilibri nel sistema. Bisognerà stare attenti nei prossimi anni a cercare di recuperare sul piano delle leggi di bilancio quelle risorse e quei temi che non sono stati toccati dal PNRR.

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L'autore

Elisa Spadaro