Attualità

02 maggio 2023

Il Ministro Valditara e il ‘68. Ma sa di cosa parla?

In un editoriale del 21 aprile 2023 pubblicato sul quotidiano “Libero” il Ministro dell’Istruzione Valditara si lancia in una spericolata ricostruzione dei danni del ‘68 rinverdendo la tradizione di “falsificazione e vacuità di idee” di cui sullo stesso argomento furono infelici protagonisti altri ministri dell’istruzione passati alla storia per le loro “riforme epocali”. Parliamo di Moratti e Gelmini, anch’essi ossessionati dall’eredità “nefasta” del ‘68 nella scuola italiana.

E, diciamo di passata, delle loro “riforme” è rimasto solo lo scempio dei tagli e delle riduzioni di organico, mentre sul piano culturale (voti, grembiulini, divise, destrutturazioni degli organi collegiali, riduzione del tempo scuola in tutti gli ordini scolastici) l’impianto della scuola scaturita dal ‘68 (decreti delegati, tempo pieno, la nuova scuola primaria, gli orientamenti dell’infanzia, valutazione formativa, programmazione, programmi della scuola media, inclusività, cooperazione, partecipazione….) ha resistito, non senza perdite, e spazzato via i guasti che quegli interventi avevano operato.

Ma mentre quei ministri sul piano culturale si limitavano a frecciatine estemporanee e d’occasione, l’attuale Ministro si cimenta con un argomento “storico” (nientedimeno che la temperie culturale iniziata negli anni 60 e 70 del novecento) su cui evidentemente non ha lavorato e riflettuto abbastanza, anche perché per affrontare argomenti complessi ci vogliono documenti e fatti da dimostrare e non semplici affermazioni ideologiche da battaglietta politica contingente.

Il nostro attuale Ministro, fatto il riconoscimento di prammatica che non tutto del ‘68 va condannato (attacco all’assetto sociale ingessato, al patriarcato, ai doveri senza diritti), poi finisce per ridurre tutto quel complesso di avvenimenti al fatto che sarebbero prevalsi i “cattivi maestri”. E questo cattivo ‘68 ha disconosciuto l’autorità, ha imposto l’egualitarismo contro l’uguaglianza, ha lanciato la teoria della liberazione.

Affermazioni false o falsificatrici o equivoche, tutte e tre.

Egli dice che il ‘68 ha promosso il disconoscimento dell’autorità legittima e democratica aprendo all’anarchia. L’affermazione è falsa dal momento che quel movimento reclamava un atteggiamento non più oppressivo e antidemocratico, autoritario appunto ma non autorevole, delle istituzioni, ancora intrise di spirito clerico-fascista. La famiglia, la scuola, l’università, la fabbrica, gli uffici, insomma tutto quel complesso che Hegel avrebbe chiamato società civile, venivano investite dalla contestazione, la quale con la famiglia, le istituzioni, la scuola, la fabbrica voleva “parlare” e che certamente non voleva distruggere… A chi i giovani del ‘68 chiedevano di confrontarsi per cambiare se non proprio a quelle istituzioni che giustamente denunciavano come oppressive e autoritarie? Istituzioni di classe, anticostituzionali. Ma si trattava di confronto, non di distruzione. Una generazione giovanile, per la prima volta nella storia del nostro Paese, prendeva la parola…

Ecco, al Ministro che non lesina richiami alla costituzione, vorremmo, per sua chiarezza, dire che la costituzione repubblicana del ‘48 era proprio a fondamento del ‘68: l’Italia del 1945-68 era ancora, ripetiamo, l’Italietta clerico-fascista che il ‘68 spazzò via, facendo scoprire a tutti che la nostra Costituzione era fondata su un discorso di diritti civili e di diritti sociali che reclamavano di essere praticati e che fino ad allora non venivano attuati…

E allora dopo il ‘68, ecco cosa accadde: decreti delegati nella scuola e organi collegiali, statuto dei diritti dei lavoratori, servizio sanitario nazionale, diritto di famiglia con equiparazione dei coniugi e dei figli anche nati fuori dal matrimonio, introduzione del diritto alla maternità responsabile e del divorzio, legge Basaglia, introduzione del servizio sanitario, inclusione nel lavoro e nella scuola delle persone con disabilità, nascita di magistratura democratica e fine del “porto delle nebbie romane”, nuovo giornalismo privo di veline…ecco  il lascito del ‘68. E sicuramente abbiamo dimenticato qualcosa. E volutamente non parliamo, anche per nostra incompetenza, del grandioso rivoluzionario movimento delle donne, che nella sua radicale autonomia tuttavia è nato a ridosso del ‘68.

Un po’ di cosette, quelle che abbiamo ricordato, di cui il Ministro e quelli del suo schieramento politico ancora beneficiano, esattamente come beneficiano delle libertà politiche civili e sociali che i suoi sodali di governo faticano a riconoscere come lascito della resistenza italiana, senza la quale non ci sarebbero state né la repubblica né la costituzione.

E allora, per ritornare al punto: il ‘68 ha travolto l’autorità o ha spinto “le autorità" a diventare autorevoli se volevano essere seguite e accettate dal cittadino? Solo dopo il ‘68 è nata la moderna cittadinanza. Prima di allora si partiva dall’accettazione supina e subalterna dell’autorità, oggi l’autorità deve sapere che essa si deve saper presentare con il volto dell’autorevolezza se vuole avere piena e riconosciuta autorità E ciò vale per il professore universitario, per il professore e il maestro delle scuole, per l’impiegato, per chiunque ricopra una carica di rapporto con il cittadino. Il rispetto è dovuto a chi rispetta e non a chi, dovunque collocato, si “veste d’autorità”.

La “crisi di autorevolezza dei docenti” non nasce, come dice il Ministro, dalla contestazione del ‘68. Nasce dall’evoluzione dei rapporti sociali, ha radice nella società civile e nella società politica; nasce nella famiglia che chiede alla scuola di sostituirla anche nella parte di educazione che spetta ad essa; nasce nella società che scarica sulla scuola (che ha rapporti di 5 ore medie al giorno con i giovani in formazione rispetto alle altre 19 vissute fuori dalla scuola) compiti impropri, quali educazione stradale, alimentare, alla legalità, all’ecologia, alla finanza e  a tante altre “emergenze” che sono sociali e familiari e non scolastiche; nasce dal fatto che ai docenti non si dà stabilità di lavoro (in quanto  non assicura la continuità didattica che è fonte di autorevolezza nel rapporto pedagogico-didattico); nasce dal trattamento economico stipendiale ormai fra gli ultimi della scala sociale  Si ridia, Ministro , alla scuola il suo proprio compito di istruzione su cui, e non su altro, si innesta anche l’educazione; si investa nella scuola; si restituisca il tempo scuola tagliato e non si porti avanti lo sciagurato progetto di tagliare di un anno il tempo scuola dei licei; si definiscano i Livelli essenziali delle prestazioni dell’istruzione e li si finanzi; si facciano i contratti del personale prima della scadenza del triennio; non si taglino le unità scolastiche con i rovinosi continui accorpamenti che creano megacomplessi scolastici ingestibili, si ripristinino i tempi scuola tagliati dalla Gelmini (8 miliardi di euro di tagli); si elimini il precariato…

Ma veniamo alla seconda affermazione secondo cui il ‘68 avrebbe violato il principio di uguaglianza ridotto dai “cattivi maestri” sessantottini al principio “di uno vale uno”. Qui la confusione temporale e concettuale tocca un vertice inaudito: non è questo un principio “del partito grillino” (anni 10 del 2000?) con cui il partito del Ministro ha civettato e governato per più di un anno? E che cosa ha che fare ciò con l’uguaglianza? Uno vale uno è un concetto “politico” e non pedagogico, innanzitutto, e confondere i piani davvero non è lecito. Ma poi il Ministro dice che non bisogna fare parti eguali fra diseguali se si vuole essere giusti. Siamo d’accordo, e allora chiediamo: ma fare parti uguali fra disuguali non è denuncia di Don Milani che è ispiratore di tutti i sessantottini italiani? Non è che il ministro ha introiettato principi sessantottini e non lo sa?

E il Ministro dice ancora: “il principio egualitarista di uno vale uno ha messo sullo stesso piano docente e discente, negando le competenze e la scienza, e ha disconosciuto il merito rifiutando la selezione per gli incarichi pubblici”. Qui siamo alla falsificazione. Infatti la richiesta di nuovi metodi, non cattedratici, ma cooperativi e di ricerca azione, erano e sono l’inveramento di un insegnamento non autoritario ma rispettoso e stimolatore dell’intelligenza del discente, e nessuno mai nel ‘68 si è sognato di dire che il docente è inutile (perché poi alla fine questo è il discorso del ministro); si è chiesto rispetto dei tempi, delle fragilità, dei ritmi, delle differenze di classe che la scuola pre-sessantotto ignorava: è la lezione di Don Milani che la parte politica del Ministro e lui medesimo aborrono e non vogliono imparare. Il merito evocato è il merito della classe che domina i rapporti sociali e dice al discente non provveduto socialmente: se vuoi emergere devi impegnarti allo spasimo e devi essere dotato dalla natura, solo così forse potrai avere le medesime possibilità del tuo compagno ricco e provveduto socialmente i cui genitori (possessori di finanza e capitale) stabiliranno poi se assumerti o meno.

A noi pare che il principio dell’“uno vale uno”, che è principio populista grillino di recente conio (il ‘68 è accaduto nel ‘68), sia stato invece praticato dagli aderenti al partito del Ministro che, per esempio, durante la pandemia rifiutavano vaccini e mascherine perché pretendevano di saperne più degli scienziati. Un sessantottino, reclamante rispetto e sapere, non pretese allora di saperne di più dei professori e non pretende oggi di saperne di più degli scienziati.

E tornando all’affermazione che il disconoscimento del merito avrebbe portato al rifiuto della selezione per gli incarichi pubblici, ci permettiamo di ricordare che ciò non è avvenuto mai nel nostro Paese, semplicemente perché la Costituzione prevede il concorso e nessuno mai è entrato senza selezione, per esami o per titoli, nella pubblica amministrazione.

E veniamo, infine, alla “teoria della liberazione”, il terzo peccato sessantottino.

La liberazione del ‘68 ha indotto una cultura “di iperfetazione dei diritti, la legittimazione di ogni pulsione individuale e la nullificazione dei doveri”. E questo, secondo il ministro, è dovuto nientedimeno che al condizionamento culturale del PCI che ha impedito la maturazione di una vera democrazia liberale.

Ci sentiamo di affermare, in verità, di non aver mai conosciuto sessantottini che non avessero la cultura del dovere. Questa è una pura e semplice diffamazione generazionale. Ma su questo piano è inutile discettare.

Ora, a parte il fatto che risulta assai buffo che un esponente di un partito che ha come riferimento i Paesi di Visegrad e la Mosca di Putin (o non è più cosi?) si impanchi a dare lezione di liberalismo, dobbiamo di nuovo constatare come il Ministro stia incorrendo nel suo terzo errore. Se egli si attenesse alla storia e ai suoi fondamenti documentali scoprirebbe che il PCI, fornendo l’apporto maggioritario di combattenti nella Resistenza e un decisivo numero di votanti per la Repubblica, gli ha regalato la libertà politica e i diritti repubblicani (il libero e uguale voto di cittadinanza, oggi peraltro negato dalle leggi maggioritarie) e ha incanalato le classi operaie e contadine nell’alveo della democrazia costituzionale repubblicana. E quest’ultima, solo grazie al PCI, per la prima volta nella storia del nostro Paese, non si è limitata a declinare i diritti civili e politici ma vi ha incluso anche quelli sociali. Lui non lo sa - ma per la sua intelligenza vogliamo credere che finge di non saperlo - ma deve ringraziare il PCI e…. il ‘68.

Un’ultima considerazione. Questo scritto dai molteplici errori, si apre proclamando che “forse” - una cautela che la dice lunga - il ‘68 è stato causa del blocco dell’ascensore sociale. Ma quel che è certo è - dice il ministro - che la scuola del dopo ‘68 non ha stimolato la mobilità sociale ma piuttosto ha concorso a favorire una società classista.

Questa uscita ricorda da vicino un’altra di un suo sodale governativo che dice che la Costituzione non è antifascista. È come negare l’evidenza. Il ‘68 è stato la contestazione della società di classe e della scuola di classe, ha favorito le riforme scolastiche che hanno consentito l’appropriazione da parte dei ceti popolari, che fino ad allora ne erano stati privati, della cultura, ha svecchiato la società e ha promosso il diritto all’istruzione. E ha consentito l’ascesa sociale della generazione del secondo dopoguerra. E da allora, nonostante le feroci controriforme della parte politica del Ministro, ha sfornato eccellenze che, poiché la società, e non la scuola, non sa utilizzare, emigrano in altri paesi.

L’ascensore sociale semmai il ‘68 lo ha sbloccato, sono state poi le controriforme economiche e politiche (globalizzazione, liberismo, lotta di classe vinta dai possidenti a danno dei non possidenti) che lo hanno ri-bloccato.

In una parola: la scuola fa il suo mestiere e prepara, nei limiti che le sono consentiti, diplomati e laureati ad alto livello e in gran quantità, pronti a prendere l’ascensore; ma questi, quando si apprestano a salire, scoprono che la politica e la società civile (il vero luogo dove si cristallizzano e si incancreniscono le disuguaglianze e dove si combatte una guerra classista di tutti contro tutti) hanno tolto l’ascensore, e si va a piedi (precariato o emigrazione).

Per concludere. L’intervento del ministro appartiene a quel genere di discorso che si può tranquillamente dichiarare di ideologia pura. Libertà, uguaglianza, competenza, autorevolezza, promozione sociale, diritti, sono concetti cari a tutti, ma…disincarnati e astratti dalle condizioni di classe - cosa che il ministro fa - sono ideologia, cioè idee elaborate per confermare le strutture sociali vigenti a conferma insuperabile dei privilegi delle classi dominanti (si legga “Carlo Galli- Ideologia – Il Mulino”, in particolare pagg.25-35”).

L'autore

Armando Catalano