Cultura

19 gennaio 2022

Don't Look Up. Please

Un immane pericolo minaccia l’umanità, ma è accolto con scetticismo, con disinvoltura imbecille, da manovre dilatorie e da un “tecno-soluzionismo” votato allo scacco. Impossibile non vedere in Don’t Look Up, l’ultimo film di Adam McKay, una parabola della reazione delle società occidentali dinanzi al cambiamento climatico. La trama, come tutte le favole che si rispettano, è semplice, ma non banale: due astronomi americani Randall Mindy (Leonardo DiCaprio) et Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence), identificano per caso una gigantesca cometa che fa rotta verso la Terra. Cercano di dare l’allarme ai politici e ai media, ma non incontrano altro che cecità, cinismo e corruzione. E così il finale appare scontato (ma non lo diciamo qui per evitare forme di spoiler per chiunque ancora non lo abbia visto).

Al di là della questione climatica, Don’t look up si concentra sulla nostra incapacità di assumere decisioni dinanzi a catastrofi lente e invisibili, al punto che il titolo del film non è altro che lo slogan usato da tenaci “negazionisti” dell’impatto, guidati dalla presidente americana (una straordinaria Meryl Streep), per evitare di guardare in alto. Se volgi lo sguardo altrove, come invece invita a fare la scienza, il problema non esiste: è questa la sintesi “filosofica” del film. Don’t Look up è innanzitutto e per lo più un film assai urticante perché si fa beffe di un sistema politico e mediatico più attento ai consensi e ai like che al rischio reale che incombe sull’umanità. Fino al punto da travolgere il povero astrofisico di provincia e la sua ricercatrice nel grande circo parolaio dove la verità non conta più, è espulsa, e tutto diventa spettacolo, cicaleccio, banale chiacchiericcio. Così, questo prezioso capolavoro di McKay unisce assieme la capacità visionaria del dottor Stranamore di Kubrick allo sberleffo surrealista di Bunuel, il ceffone critico all’industria militare e mediatica di Michael Moore alle sofisticate narrazioni astrofisiche (i fenomeni fisici esistono e non si preoccupano del destino umano) di Interstellar di Christofer Nolan.

Insomma, un tema principale del film è che gli esseri umani si lasciano distrarre così facilmente dal potere (politico, mediatico, tecnologico, militare) da non guardare ciò che davvero è importante, da non guardare “in alto”. Per questo si ride tanto, ma di un riso amaro, travolgente, che ti fa arrabbiare. E sperare che sia solo il frutto dell’immaginazione, di una favola nera, per quanto realistica in certi tratti, come nella delineazione della Silicon Valley, attraverso il personaggio di Isherwell - parodia dei guru più famosi e nababbi, anche nell’aspetto fisico. Il destino del pianeta è nelle mani delle Big Tech, e non v’è limite al loro potere di condizionamento nei confronti di 6 miliardi di possessori di uno smartphone. E se dicono di avere in tasca la soluzione del problema per l’intera umanità, nessuno può dubitarne, neppure quei poveri astrofisici, abituati ai dati scientifici dei fenomeni piuttosto che allo spettacolo. Ma quando falliscono, come accade nel film, hanno già pronta la navetta spaziale che li porterà tra qualche decennio in qualche altro pianeta, dove affronteranno un clima davvero ostile (anche su questo straordinario finale alla Bunuel evitiamo lo spoiler).

Basato su un soggetto dello stesso regista McKay e di David Sirota, Don’t Look Up può essere letto come la metafora dei nostri tempi, con gli occhi della satira. La cometa può essere tanto il cambiamento climatico quanto la diffusione della pandemia da covid, o qualunque altra minaccia per il nostro pianeta. Il punto è che esistono forze che spingono l’umanità a non farci più caso, a non osservarle per quelle che sono, e per questo a vivere solo dell’attimo presente. Se si va più a fondo, è l’elegante racconto del capitalismo e della fede cieca nel progresso tecnologico degli ultimi 4 secoli e mezzo. E tuttavia, non è un film nichilista. Al contrario, i suoi protagonisti sono gli uomini di scienza, indeboliti, non creduti, incastrati nella rete mediatica, ostaggi del grande capitale che regala loro soldi e false onorificenze, ma non certo perché dicono la verità. In questa chiave, il film di McKay è una rilettura storica e antropologica dell’America e dell’Occidente, o almeno di ciò che sono diventati. C’è una scena assai divertente e chiarificatrice in cui la grande star della musica leggera Ariana Grande conosce lo scienziato Leonardo Di Caprio e decide di dargli una mano. Il punto è che Ariana, nel film, capisce ciò che gli altri non vogliono proprio intendere e lo canta. Secondo una testimonianza del regista McKay sembra che la cantante abbia improvvisato durante le riprese aggiungendo queste parole: “We're all going to die”, moriremo tutti. Ecco, nel film la giovane star dice la verità, in una canzone, in una esibizione da decine di milioni di visualizzazioni. Ma la verità si dissolve, le parole diventano insensate, e l’umanità continua a vivere come se nulla dovesse accadere.

Detto ciò, in fondo il film di McKay, per quanto controverso, e perfino confuso nella sintesi di più generi, è un atto d’amore verso l’umanità, e la scienza, o meglio verso gli scienziati “old style”, quelli che guardano in alto, osservano i fenomeni, usano la ragione per apprezzarne la portata, e definiscono qualche certezza. Non solo. Gli scienziati di McKay hanno una vita, condividono passioni, sanno amare e sanno di essere amati: Leonardo Di Caprio e la sua ricercatrice Jennifer Lawrence si concedono momenti di enorme dolcezza pur nella sofferenza che li accomuna di sapere ciò che non si può più rivelare come una certezza. Ma questo è il tratto comune di molti film di genere fantascientifico di questi decenni. Perfino Interstellar non è altro che un atto d’amore. Nonostante tutto il resto, come direbbe Kubrick, non ci resta che amare, per quanto possibile

L'autore

Pino Salerno