Cultura

29 aprile 2022

Gramsci e la crisi delle democrazie novecentesche

Il destino di un classico è di essere letto nei modi più differenti e persino contrastanti perché le categorie che ha affinato appartengono, più che all’autore del testo, all’interprete il quale è autorizzato a muoversi tra le pagine del suo pensatore per rispondere alle proprie domande, per dare un senso ai propri problemi. Ogni fase politico-culturale ha decodificato Gramsci proiettandosi oltre il testo per accostarsi a nodi storico-politici percepiti come vitali e con profonde ricadute nella attualità.

Il tradimento della filologia (se ne facciano una ragione alla Fondazione Gramsci: il pensatore sardo non può ancora essere osservato come un Monti o Berchet qualsiasi) è in tal senso un ritrovato inevitabile ed è il segno della grandezza di un classico che è tale proprio perché il suo testo offre un catalogo variegato di temi dal quale è possibile estrapolare delizie concettuali con la forzatura creativa dell’interprete intelligente. Non tradì forse lo stesso Gramsci le regole aride della ermeneutica testuale per afferrare il succo problematico-critico del suo Machiavelli?

I Quaderni oggi andrebbero letti come il deposito culturale che elabora i materiali per delineare un grande pensiero della crisi. Dopo l’impazienza di tipo bergsoniano-sorelliana della gioventù che lo aveva indotto ad esaltare la fretta, la rottura, il gesto ostile alla temporalità riformista, nella riflessione carceraria riaffiora il gusto per esplorare gli enigmi del tempo lungo. Più temporalità si intersecano in Gramsci quale pensatore della crisi della prima globalizzazione capitalista, interrotta con la guerra e con i totalitarismi.

Il tempo brevissimo della sconfitta lo induce a scrutare il brusco processo degenerativo che, dalle elezioni quasi costituenti del 1913 passando per l’esperienza della guerra vista come “mucchio di tutte le crisi”, perviene alla catastrofe dell’ordinamento liberale. Per essere afferrata adeguatamente, la caduta del regime liberale andrebbe compresa con l’apertura all’indagine della lunga durata dei processi di modernizzazione.

Sotto la lente analitica di Gramsci ricadono taluni aspetti problematici essenziali: la questione della laicità, il contrasto originario centro-periferia, la frattura città-campagna, la distanza tra élite intellettuale e ceti subalterni. La tarda risoluzione della crisi di secolarizzazione (Stato territoriale accentrato) e di socializzazione-nazionalizzazione delle masse (suffragio universale) è assunta come la solida cornice che fa da sfondo per comprendere il collasso della debole organizzazione statuale sconvolta dinanzi all’età della accelerazione frenetica della società di massa.

Dinanzi all’arretramento traumatico delle dinamiche di internazionalizzazione degli scambi, sotto i ritrovati della guerra imperialista e della proletaria guerra alla guerra, gli Stati deboli, perché di più recente costituzione, franano innescando fenomeni degenerativi. Oltre alle parabole del ciclo economico e agli accadimenti di carattere geopolitico che svelano i tratti del disordine mondiale, Gramsci indirizza la riflessione verso la carenza soggettiva (culturale, politica) degli attori.

La soluzione carismatica alla crisi (che è economica, istituzionale, ideologica) del primo Novecento si afferma perché sia le forze borghesi che quelle socialiste scontano gli effetti ingovernabili della destrutturazione della mediazione (parlamentarismo, partiti). Il declino della mediazione (per il doppio sovversivismo: da un lato la slealtà costituzionale delle classi dominanti, dall’altro le seduzioni mitiche dei ceti subalterni incapaci di esprimere proprie élite) lascia sguarnito il sistema, che viene commissariato dal capo carismatico.

Un’idea mitica del tempo (la velocità della decisione scavalca l’ordine delle compatibilità, la successione del prima e del dopo e risolve d’incanto problemi epocali) consente al capo carismatico di sedurre le masse con aspettative di rigenerazione complessiva legate al potere personale. Con il “martello del dittatore” il capo carismatico travolgere le strutture fragili di un ordinamento sradicato e aleatorio nella capacità di sussistenza in un tempo tempestoso.

Sul piano della spiegazione dei tratti specifici dello Stato totale fascista, Gramsci non ritiene di assumerlo come una configurazione che sperimenta una semplice regressione formale-procedurale rispetto agli istituti liberali. Il governo di partito unico, che trascende gli istituti della rappresentanza individualistica, viene giudicato come un fenomeno di modernizzazione dall’alto (esiste anche un cesarismo “obbiettivamente progressivo”) che decide le dinamiche del capitalismo secondo un calcolo politico e in cambio della assimilazione-conservazione di istanze riformatrici restringe il ventaglio della rappresentanza plurale e conflittuale.

La risposta più efficace al tema della crisi delle democrazie novecentesche Gramsci la rinviene nella costruzione di una densa società civile con molteplici reti di mediazione.

Una eco di Tocqueville si avverte in Gramsci, e la si coglie nella sua enfasi sulla mediazione come momento indispensabile sia per la stabilizzazione-consolidamento della democrazia (punto di vista interno, liberale) che per la sostenibilità della guerra di posizione, con investimenti di organizzazione, cultura, soggettività (punto di vista esterno, socialista). In un tempo di crisi della forma della democrazia, e di irruzione del leader con un preteso tocco provvidenziale, le categorie di Gramsci tratteggiano una mappa concettuale da recuperare per evitare la catastrofe degli ordinamenti costituzionali.

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L'autore

Michele Prospero

È professore ordinario di filosofia del diritto presso la Facoltà di scienza politica, sociologia e scienze della comunicazione della Sapienza. Si è laureato in Filosofia all'Università La Sapienza di Roma, discutendo una tesi sul giurista Hans Kelsen.