Cultura

01 settembre 2022

Michele Prospero. Voto e democrazia. Considerazioni filosofico-politiche

Il problema del rapporto tra conoscenza e politica deve essere impostato partendo da un assunto di Max Weber. Dinanzi al successo che entro società complesse riscuotono le semplificazioni politiche, gli irrazionalismi, le pratiche antiscientifiche occorre interrogarsi sulle possibili aporie della razionalizzazione. Mentre il sapere si diffonde nelle cose, nelle tecniche una sostanziale opacità sembra persistente nelle relazioni sociali, che sembrano avvolte da maschere che ne coprono il volto effettivo. A giudizio di Weber (Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1980, p. 19) “la progressiva intellettualizzazione e razionalizzazione non significa una progressiva conoscenza generale delle condizioni di vita che ci circondano”. Il disincantamento del mondo, rafforzato dal sapere e dalle tecnologie, non comporta che di riflesso maturi nei soggetti la piena consapevolezza della effettiva natura dei processi sociali che li coinvolgono. Proprio per questo lato oscuro, che sembra avvolgere il nucleo dei rapporti sociali più complessi, nel comportamento collettivo sono possibili regressioni, infantilismi.

Anche nella consapevolezza di questo scarto Marx studia il mito per cogliere alcune persistenze che entro il moderno lasciano riscontrare “un fascino eterno come stadio destinato a mai più ritornare” (Marx, Grundrisse, Einaudi, Torino 1976, p. 37). Il processo di secolarizzazione-razionalizzazione, che procede per impulso delle dinamiche oggettive e anonime dell’industria e del mercato, non coincide con la cancellazione degli investimentin emozionali-pulsionali che possono assumere un grado variabile di intensità nella determinazione delle condotte dei soggetti. “Un uomo può ridiventare bambino, o altrimenti diventa infantile. Ma l’ingenuità del bambino non lo rallegra forse, ed egli stesso non deve tendere a riprodurne a un livello più elevato la verità? Nella natura infantile il carattere proprio di ogni epoca non rivive forse nella sua verità naturale?” (ivi). Questa regressione nello stato infantile della coscienza di cui parla Marx coincide, nel campo dell’agire sociale, alla assunzione di schemi semplificati, di narrazioni ingannevoli, di fughe fantastiche e primitive. La fabbrica del mito, analizzata da E. Cassirer, a proposito dei linguaggi del totalitarismo nazista, è la manifestazione più estrema della regressione ideale che sembra annichilire le acquisizioni del rischiaramento del moderno, altre espressioni meno calde e distruttive sono possibili nelle fasi critiche delle democrazie apparentemente consolidate.La categoria di popolo, come viene declinata dalle formazioni populiste odierne, si configura come la fonte omogenea d’ogni cosa positiva e a questa esaltazione mitica si accompagna il profondo disprezzo per le competenze, per il ruolo delle mediazioni. La condanna della funzione esercitata dalle disprezzate élite conduce, su temi cruciali come il rapporto tra i codici del sapere e i codici del potere, all’annullamento di importanti conquiste evolutive delle società occidentali.
Nell’agitazione populista che conquista il cuore dell’Occidente, dall’America alla vecchia Europa, si ricorre ad analogie scivolose, ad equazioni semplificatrici perché “i problemi politici e sociali nel discorso pubblico possono essere ridotti a una dimensione monocausale, i fatti non dovrebbero richiedere una spiegazione complessa” (Hartleb, Rechts und Linkspopulismus, Wiesbaden, 2004, p. 51). La fuga dal complesso caratterizza processi politici che scuotono le strutture della sfera pubblica della post-modernità. Sul piano storico più generale “la convinzione che i fondamentali documenti scritti siano immediatamente accessibili e chiaramente trasparenti, che possano essere compresi da ciascuna persona senza l’aiuto di esperti o intermediari, è una convinzione di lunga data nei movimenti populisti” (T. Skocpol and V. Williamson, The Tea Party and the Remaking of Republican Conservatism, Oxford, 2012, p. 147).

Questo rigetto della complessità è una maschera che i leader populisti esibiscono con pittoresche prove di sapere alternativo che emergono nel cuore della società della conoscenza. La estensione dell’onnivoro paradigma populista in nome del semplice, dell’immediato, intende demolire ogni complessità, in nome della libera doxa, aggredire ogni comprovata episteme. La pretesa sapienza degli oracoli del popolo intende sospendere qualsiasi autonomia del sapere. I rischi involutivi del primato anti-politico della politica affiorano con nettezza nella vicenda dei vaccini, dove riecheggiano le espressioni di Trump in difesa del “piccino che pesa 5 chili e il dottore con i vaccini lo trasforma”. L’accanimento della nuova politica che, su questo e altri campi della ricerca, intende dettare la propria legge, incurante delle acquisizioni scientifiche, caratterizza i movimenti populisti e no-vax. Il “capitano” Salvini sostiene che solo “papà e mamma decidono, non le multinazionali del farmaco, sulla pelle dei nostri bambini” e dunque è conseguente il suo grido di battaglia: “no allo Stato che mette in vena a bimbi di pochi mesi il vaccino”. Il politico populista ritiene di parlare in nome di verità superiori a quelle raggiunte a fatica nei laboratori e naturalmente affidate alla rivelazione dispiegata tramite il profetismo di un comico o la crudezza espressiva di un “capitano”.

Anche la storia del grillismo è piena di atteggiamenti ostili al paradigma scientifico, di proclami dai tratti incendiari contro i protocolli medici. Esibendo una conoscenza superiore, diversa da quella empirica e prodotta nei lavori di laboratorio, Grillo definì l’Aids come «la più grande bufala di questo secolo» e negò che il virus dell’HIV potesse trasmettersi a livelli di pericolosità sino a danneggiare il sistema immunitario. In lotta contro il sapere accreditato nei centri di ricerca, il comico scendeva in sostegno del metodo Di Bella per effettuare cure alternative a quelle accreditate nel mondo scientifico. Raffigurando Di Bella come un novello scienziato eretico, ingiustamente perseguitato dal sapere ufficiale che di norma agisce in nome di interessi economici e di potere, il comico pretendeva di avere in dote l’autorità di attestare la veridicità delle procedure conoscitive.

«Come fa ad essere un ciarlatano un ometto così? Da trent’anni fa questo lavoro!». In difesa dell’eresia, della libertà di opinione, era giusto curare il cancro con il latte di una capra. La trasparenza solo illusoria della rete che attraversa il cyberspazio produce un oscurantismo effettuale nelle credenze diffuse che minaccia il corpo reale delle persone che con-vivono nello spazio sociale.

All’anti-intellettualismo come maschera delle retoriche degenerate delle nuove élite populiste si affianca una caratteristica mentalità oscurantista, semplificatrice prodotta dalla età della disintermediazione e del trionfo dei nuovi media. I miti dell’orizzontalismo producono seri problemi nella maturazione del consenso con un indebolimento della funzione di indirizzo e critica che i quotidiani tradizionalmente svolgevano nella determinazione delle issues, dell’agenda, nella ricerca di approfondimento, nella valutazione dei leader. Nelle elezioni del marzo 2018 “per la prima volta in una campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento italiano i media digitali hanno superato i giornali quotidiani nelle preferenze degli elettori in merito alle principali fonti di informazione” (M. Mazzoni, R. Mincigrucci e S. Pagiotti, La campagna elettorale 2018 secondo la stampa quotidiana, “Comunicazione politica”, 2019, n. 2, p. 198). Nel voto del 2018 i leader più coperti e tematizzati dalla stampa nnazionale furono Renzi e Berlusconi (citati in 4.120 articoli nazionali e in 2980 nei fogli locali) ma a vincere alle urne furono i due partiti meno presenti nelle testate giornalistiche (oltre mille articoli in meno): “la percezione del pubblico del personaggio politico al centro della scena era molto diversa da quella suggerita dai media” (p. 208).

Il sorpasso effettuato dai media digitali sulle vecchie forme di comunicazione coincide, senza avallare alcun determinismo tecnologico, con il trionfo dei populismi. Con il dilettantismo della tastiera, che in nome del principio uno vale uno contrappone l’opinione di chiunque al sapere specialistico, l’incompetenza giunge al potere di una società occidentale. Il politico nuovo, espresso con i riti delle parlamentarie, e nell’inseguimento di una Agorà virtuale, pretende di esercitare il potere in nome della gente, dell’equivalenza di ogni voce e capacità. Però anche nell’Agorà reale, secondo la ricostruzione di Tucidide, “il principio democratico, dell’una volta per uno va modificato con un giusto riconoscimento del merito” (T. A. Sinclair, Il pensiero politico classico, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 133). Il ruolo del capo politico, la funzione costruttiva delle classi dirigenti, era tipico nel corso della stagione di Pericle. Il decadimento qualitativo della classe politica è il contrassegno della odierna età del populismo. Senza comprendere le radici sociali della alienazione politica che conquista ampie fasce di società non si fornisce un inquadramento solido del fenomeno populista.
La crisi, la precarietà, l’incertezza relazionale sono al centro dell’esplosione di una rivolta giovanile che individua nell’antipolitica del M5S (che attrae il 40% del voto giovanile) un referente credibile su cui fare leva per l’abbattimento del sistema. Tra i giovani precari, poco scolarizzati, residenti in spazi periferici molto forte è la sfiducia verso le istituzioni e le forze politiche (nel 2013 il Pd tra i giovani con meno di 30 anni ha solo il 15%, e il Centro-Sinistra il 22, circa 20 punti in meno della quota del 2008). Il 57% dei giovani vota per Grillo (tra i pessimisti e gli esclusi raccoglie il 70%), che invece attrae poco (il 20%) i giovani inseriti e con un reddito accettabile. Il giudizio positivo su Bersani è fermo al 14%, su Berlusconi al 22 e su Grillo schizza al 37% (D. Tuorto, L’attimo fuggente. Giovani e voto in Italia, tra continuità e cambiamento, Il Mulino, Bologna 2018, p. 177). Il genere comunicativo dell’oltraggio, che con le forme cosiddette della “inciviltà” prevede un “linguaggio logicamente estremo”, denso di notizie distorte, di citazioni decontestualizzate si diffonde nella nuova politica. Enfatizzando la logica mediatica della drammatizzazione, Salvini adotta i punti di forza della retorica sovranista con appelli emozionali-simbolici espliciti che diffondono nel pubblico valori di esclusione rispetto a nemici che minacciano i confini nazionali e confondono l’identità di un popolo. Il linguaggio istituzionale viene forzato sino a perdere coerenza e condotto entro limiti che lambiscono il discorso scivoloso con locuzioni aggressive (hate speech). Il sovranismo sfonda nei ceti popolari (piccole aree urbane, zone rurali) mentre la Sinistra è radicata nei grandi centri urbani e tra i ceti più scolarizzati.

Affiora, nei comportamenti di voto, la contraddizione culturale del tardo capitalismo, che vede una polarizzazione tra città e aree rurali, centro e periferia, scolarizzati e marginali. Gli analisti dei flussi documentano che la composizione dell’elettorato leghista vede per il 55% la presenza di persone che non hanno frequentato alcuna scuola oltre le elementari o si sono fermate alla licenza media. Un dato persistente nella vicenda elettorale della Lega è che le sue performances sono migliori nel mondo del lavoro autonomo e in quello esecutivo fortemente subordinato. Il partito è più radicato nei piccoli centri rispetto a quelli più grandi e ciò significa che “il livello del consenso per la Lega scende con regolarità con l’aumentare delle dimensioni dei comuni” (P. Corbetta, Le fluttuazioni elettorali della Lega Nord in R. D’Alimonte e A. Chiaramonte, Proporzionale se vi pare, Bologna, 2009, p. 114). Inoltre, i votanti del Carroccio si caratterizzano per un basso livello di istruzione al punto che “i laureati sono circa la metà della media nazionale, il valore più basso tra i partiti” (p. 115). La regressione “infantile” del pubblico è favorita dalla avanzata dei processi di disintegrazione della politica organizzata.

Proprio la carenza della mediazione politica entro società frammentate e precarie facilita la comparsa di due società tra loro incomunicanti. Da una parte prolifera il comitatismo dei cittadini con tempo e informazione che si sono insediati negli spazi urbani, cioè compare il pacchetto di capitale sociale accumulato con le reti fiduciarie e culturali, con canali associativi, con un radicalismo dei diritti, con una mobilitazione cognitiva su singoli temi, i più disparati (scuola, asili nido, strade, traffico, rumori).

Le mobilitazioni a sfondo cognitivo attorno a singole urgenze coinvolgono aree rilevanti di un elettorato che però è prevalentemente urbano, di opinione. Restano estranee le sfere sociali caratterizzate dal lavoro manuale, dalla scarsa scolarizzazione, dal pregiudizio. Il comitatismo dei ceti riflessivi, refrattari a convivere con la mediazione politica organizzata dai partiti e dai sindacati, è l’altra faccia del populismo che si insinua nei ceti popolari attratti dai richiami securitari e dall’uso politico della rabbia.

La questione giovanile, come fonte di malessere politico e della fenomenologia dell’alienazione politica, scaturisce dalla coesistenza di una contrazione-declino economico e un relativo incremento dei tassi di scolarizzazione (nel 1992 i diplomati erano il 57 per cento, nel 2008 sono il 72,6; i laureati passano dal 10,1 per cento del 1992 al 34,3 per cento del 2008). Anche se l’arretratezza culturale italiana è eclatante nel panorama europeo, i pochi laureati che produce non trovano inserimento nel tessuto produttivo. Considerando l’intera popolazione, e non solo la fascia compresa tra i 19 e 25 anni, il 47 per cento degli italiani non hanno diploma (media Ocse 27 per cento), i laureati sono il 14 per cento (30 per cento la media Ocse), (Cfr. L. Sciolla, Il paradosso di un paese poco istruito, “Il Mulino”, 2012, n. 6, p. 1012). Questo dato segnato da una arretratezza dell’Italia profonda veniva in passato diluito negli effetti distruttivi dalla capacità della sinistra di tenere in piedi una coalizione sociale eterogenea imperniata sul lavoro. Con la prova di governo degli ultimi anni, le politiche adottate hanno però alienato il sostegno della componente operaia (Jobs Act, articolo 18), minato la fedeltà di voto degli insegnanti (scuola-azienda), la vicinanza del pubblico impiego (età pensionabile).

Le manovre che, per l’assorbimento del populismo ribelle, hanno allestito i profili di un sistema politico a traino trasformistico, che vede la convergenza di spezzoni trasversali di un ceto politico-economico-mediatico-intellettuale, confidano in una doppia contesa. Una per i garantiti, gli scolarizzati che continuano a distribuire, in una maniera apparentemente sempre meno convinta, le loro preferenze elettorali per un’offerta politica più o meno stantia e per forze politiche prive di una identità e di un radicamento sociale. E l’altra per gli esclusi, il mondo dei lavori non rappresentati, che restano stabilmente fuori dal sistema politico. Ed è anzi auspicabile, perché le alchimie del trasformismo trionfino, che le situazioni del disagio rinuncino alla proiezione nella sfera pubblica così da consegnare la loro domanda all’apatia, al non voto.

L'autore

Michele Prospero

È professore ordinario di filosofia del diritto presso la Facoltà di scienza politica, sociologia e scienze della comunicazione della Sapienza. Si è laureato in Filosofia all'Università La Sapienza di Roma, discutendo una tesi sul giurista Hans Kelsen.