Cultura

04 marzo 2022

Pier Paolo Pasolini: un poeta alla sbarra

Trentatré processi, centinaia di udienze. Tre condanne in primo grado, due assoluzioni nei gradi successivi, un paio di amnistie. Si può dire che l'odissea, o meglio la "persecuzione" giudiziaria di Pier Paolo Pasolini, come la definì il libro collettivo che uscì nel 1977 per la cura di Laura Betti, sia un dramma - a volte farsesco, a volte angosciante, con un finale tragico - a tre protagonisti. Pasolini stesso, come artista e come uomo; la società italiana del dopoguerra; la giustizia di questo Paese. Questo dramma si svolge lungo tre decenni: dai fatti di Casarsa (1949-50) nei quali Pasolini è ancora un comune cittadino, un giovane insegnante di provincia che assurge suo malgrado agli onori della cronaca locale anche per la sua militanza politica, fino al sequestro e alla denuncia del suo ultimo film, Salò, uscito postumo. Senza contare che anche la sua morte, ovviamente, è un caso giudiziario, e che caso, e quanto controverso...  

Possiamo dividere i processi subiti da Pasolini in due filoni: quelli a Pasolini come uomo e quelli all'artista, allo scrittore, al regista, all'intellettuale. Si tratta però di una distinzione di comodo. Si capisce subito, leggendo gli atti e i documenti e la produzione giornalistica e mediatica che seguì quei casi, che in realtà ogni volta si processa un solo Pasolini, Pasolini in toto. Perché, nell'Italia degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, Pasolini è la rappresentazione di un intellettuale di successo, di grande successo, di estrema rilevanza anche mediatica. Un intellettuale che, per quanto timido e riservato, non rifiuta un certo tipo di mondanità, che non si sottrae alle cerimonie pubbliche, ai premi, agli ambienti della cultura e della militanza politica.  Però, allo stesso tempo, presso l'opinione pubblica Pasolini è indiscutibilmente segnato da un vero e proprio stigma: è il reietto per eccellenza, quello da cui tenersi lontani fisicamente e moralmente. Per molti, per la destra, per i "benpensanti" e in generale per la maggioranza piccolo-borghese che costituisce la "pancia" della società italiana, o il ventre molle se vogliamo, è una sorta di demonio: un piccolo diavolo, che appunto come tale si può presentare qua e là, personificarsi e dare vita a vere e proprie "leggende", elaborazioni mitomaniacali che la stampa riprende e amplifica, quando non costruisce di sana pianta. I processi da lui subiti sono il migliore specchio di questa realtà.

Prendiamo due casi giudiziari esemplari, che parlano per tutti: Il processo a La ricotta e il processo per la cosiddetta "rapina del Circeo".  

Nel processo a La ricotta, episodio del film collettivo Ro.Go.Pa.G. in cui un poveraccio sottoproletario, "Stracci", interpretando il ruolo del ladrone crocifisso accanto a Gesù in un ipotetico film su Cristo, si ingozza di ricotta e muore di indigestione proprio durante la ripresa della Crocifissione - episodio ispirato ad un fatto di cronaca che Pasolini lesse sui giornali - l'accusa è di vilipendio alla religione di Stato. Pasolini ha rappresentato la Passione di Cristo “dileggiandone la figura e i valori con commento musicale, mimica, dialogo e altre manifestazioni sonore, nonché tenendo per vili simboli e persone della religione cattolica”. Pasolini sarà condannato a quattro mesi di reclusione (con la condizionale) in primo grado e assolto in Appello, ma la Cassazione annullerà questa seconda sentenza, chiudendo il processo per subentrata amnistia.

Nel Libro Bianco (Compagnia Editoriale Aliberti, 2022) riportiamo quasi per intero gli atti del processo, perché valgono un po' per tutti i processi a Pasolini. Le figure del dramma sono le stesse, i caratteri, le posizioni, le idee espresse sono quelle che vedremo sempre. Il PM si chiama Giuseppe Di Gennaro. Era già un magistrato importante, lo sarà ancora di più nel prosieguo della sua carriera. Qui, nei processi a PPP, ci imbattiamo quasi sempre in protagonisti del mondo giudiziario italiano, procuratori capo come Carmelo Spagnuolo o Gaetano Trombi, avvocati difensori come il grande Carnelutti, De Marsico, Giuseppe Berlingieri...  In aula, il PM porta addirittura la moviola, per visionare e "sezionare" letteralmente il film, inquadratura per inquadratura, battuta per battuta. L'impressione è quella di essere non in un tribunale, ma in una scuola: ai vecchi tempi del liceo, quando il preside chiamava nel suo ufficio gli studenti indisciplinati e li redarguiva con quel tono a metà fra il prete e l'ufficiale militare, minacciava sospensioni se non si fosse confessata e abiurata la "marachella". Colpisce, poi, come sia il PM che i giudici quando scriveranno la sentenza, si lancino in disquisizioni estetico-critiche del tutto soggettive: forse per dimostrare di saper stare al "livello" dell'intellettuale Pasolini, per far capire che anche loro, in quanto classe dirigente del Paese, avevano fatto gli studi classici, sapevano di letteratura e di arte e addirittura di cinema...  Il risultato, nel complesso, è comico e grottesco, come ricorda Pasolini stesso. Ma è un abbacinante "specchio" del Paese, che ci rimanda un'immagine, precisa e insieme livida, della mentalità, degli usi e costumi della sua classe dirigente.

Leggi lo speciale Il Libro Bianco di Pasolini

E comunque, Pasolini viene condannato, come si diceva. Per Ragazzi di vita, accusato di oscenità per il linguaggio volgare del parlato romanesco utilizzato dall'autore, era stato assolto. Ma con la religione non si scherza, nel 1963: anche se siamo in pieno Concilio e lo stesso Pasolini ha dichiarato di voler fare un film, questa volta serio, addirittura sul Vangelo di Matteo!  Il secondo processo esemplare riguarda Pasolini nella sua vita privata: la sua chiacchieratissima vita privata - e l'aggettivo è decisamente eufemistico. Siamo in quegli stessi anni '61-'63. Pasolini è in "vacanza di lavoro" presso la casa al mare dell'amica Elsa De Giorgi. Un giorno esce per un giro in macchina - l'Alfa per cui era stato fatto oggetto di sarcasmo sui giornali, lui intellettuale comunista e innamorato del proletariato che si era comprato l'ultimo modello di auto sportiva - si ferma da un "benzinaro", scambia quattro chiacchiere con il giovane al bancone del bar - cioé parla solo lui in realtà, perché il giovane sembra muto - se ne va.  Poco dopo, il giovane va dai Carabinieri e denuncia di essere stato fatto oggetto di una tentata rapina a mano armata da un soggetto che subito identificherà in Pasolini. L'assurdità della cosa appare, se non fosse per altro, già dalla deposizione del giovane, quando afferma di aver visto che la pistola del rapinatore aveva "le pallottole d'oro" - poi non darà seguito a questo particolare. Praticamente un western! Dovrebbe finire tutto lì. Eppure Pasolini viene portato in caserma, interrogato, e di passo in passo rinviato a giudizio, giudicato e condannato, in un crescendo assolutamente kafkiano - ma di un Kafka all'italiana, meno grottesco forse ma non meno inquietante. E qui possiamo verificare anche il ruolo dell'informazione, dei giornali quotidiani e periodici, sulle vicende giudiziarie di Pasolini. L'eco mediatica è enorme: e non solo sulle testate dichiaratamente di destra, che già da anni conducono una campagna letteralmente inferocita contro PPP, sempre oltre qualsiasi tipo di deontologia professionale. Uno per tutti, "Il Tempo": che correda l'articolo sul fatto del Circeo con una foto di scena del film Il gobbo di Lizzani, nel quale Pasolini fa la parte di un partigiano romano ed ha, per ragioni di copione, un mitra in mano! A riprova, dunque, che certe "tecniche" di certa informazione non sono una prerogativa dell'oggi. A leggere la sentenza di condanna di Pasolini per un'accusa così assurda, c'è da rimanere fra lo stupore, il riso e l'orrore. Non ha rapinato, però qualcosa ha fatto. Deve aver fatto: perché lui è Pasolini, si muove costantemente nel torbido, quindi è più che plausibile che qualcosa sia successo. Puro stile inquisizionale. Pasolini naturalmente ricorrerà in Appello, ma si vedrà solo riconoscere il reato estinto per amnistia. La vicenda giudiziaria si concluderà solo nel 1968 - in fondo non è nemmeno tanto tempo, per la giustizia italiana: che allora fossero, almeno, un po' più solleciti? - con una assoluzione per insufficienza di prove. Hanno vinto loro, in fondo, i Tutori dell'ordine e della morale. Gliel'hanno fatta pagare, a quel senzadio e comunista - e omosessuale, che è in fondo la colpa più grave di tutte le tre.

Un ultimo punto, per non dilungarci e togliere il gusto della lettura di questi documenti. Nel kafkiano processo del Circeo, compare ad un certo punto, chiamato dall'avvocato di parte civile, un certo professor Aldo Semerari. Deve stilare una perizia psichiatrica sull'imputato. Aldo Semerari non ha bisogno di presentazioni. Siamo nel 1962, e il suo nome non è ancora balzato agli onori, si fa per dire, delle cronache per le sue frequentazioni pericolose con il terrorismo nero, la banda della Magliana, la P2, la camorra, che lo ucciderà in quel modo efferato che sappiamo. Semerari scrive effettivamente una perizia - senza avere visitato Pasolini, ovviamente - in cui gli da' del deviato sessuale e conseguentemente dell'"infermo di mente" (letteralmente, nella perizia). Questa perizia non verrà ammessa dal tribunale: uscirà però in maniera semi-pubblica su un foglio piuttosto misterioso, intitolato "Stampa medica". Ora, qui arriviamo a lambire i territori più oscuri di quelli che chiamiamo da molti anni i "misteri d'Italia".  Non ci addentriamo in collegamenti fra nomi, ipotesi, ricostruzioni. Altri l'hanno fatto, però, e con risultati interessanti. Facciamo però notare che la figura di Semerari ricompare nel primo processo per l'omicidio di Pasolini, come consulente di parte della difesa di Pino Pelosi. È l'avvocato Rocco Mangia, già difensore dei massacratori del Circeo - quell'altro fatto del Circeo, ben più tragico - che vuole Semerari per dimostrare che Pelosi è infermo di mente. Ci si è sempre chiesti chi e come abbia trovato un avvocato rinomato e costoso, con al seguito consulenti rinomati e costosi, per un imputato certamente nell'indigenza come Pelosi.

Per concludere: se abbiamo sempre più fondata l’impressione - ma è più di una impressione, leggendo questa sequela di carte contenuta nel Libro Bianco - che a Pasolini sia stato celebrato un unico processo "ininterrotto per almeno vent'anni, che si gonfia e si arricchisce, si dirama e si ritrae, sempre con lo stesso oggetto e la stessa finalità: mettere in dubbio l'esistenza di una personalità come Pasolini nella società e nella cultura italiana" come ha scritto Stefano Rodotà; allora, sempre su questo piano non oggettuale ma simbolico, altamente simbolico, potremmo anche dire che, nella notte fra l'1 e il 2 novembre 1975 si è data esecuzione alla condanna. Una condanna a morte, non prevista dalla nostra Costituzione né dal codice: perciò somministrata attraverso mani anonime - quanto, poi? - e apparentemente esterne al sistema.

Apparentemente.

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L'autore

Alessandro Di Nuzzo

Giornalista, scrittore e responsabile editoriale di Aliberti editore dal 2001.