Cultura

04 marzo 2022

L’umana mimesi di Pier Paolo Pasolini a cent’anni dalla nascita

Una vita trascorsa ad uscire dal soggetto del suo romanzo, una continua emulazione di altri per presentare al pubblico il lato meno banale della bellezza. Un provocatore, un immorale, un intellettuale.

Il ritratto più fedele di Pier Paolo Pasolini lo fornisce, volontariamente, l’amica di una vita Elsa Morante nel romanzo Aracoeli (1982): il protagonista è Emanuele, quarantenne omosessuale, legato a doppio filo alla madre, impegnato in una profonda storia di ricerca di sé che non può non richiamare direttamente Pasolini, come sagacemente sottolineato da studiate asimmetrie, dato che il protagonista del romanzo della Morante, l’alter ego romanzato di Pasolini, muove i suoi primi passi nella periferia di Milano nel 1975, nello stesso anno in cui il poeta bolognese muore ad Ostia, prolungamento della periferia romana. Come a suggellare e racchiudere in un’aurea mitico-mitologica la vita di un uomo che sembra uscito da un romanzo e che si presenta al mondo con un profondo afflato profetico (“io so, ma non ho le prove”).

Si tratta di un tributo dopo la brusca interruzione della loro amicizia: Elsa rimprovera, neanche troppo velatamente, a Pasolini di essere un ipocrita narcisista borghese, alla fin fine anche colluso coi padroni, che si interessa del sottoproletariato per un proprio tornaconto personale. Per Pasolini, Elsa diviene la “madre consolatrice”, autrice del deludente romanzo La storia.

Ormai lo strappo è definitivo. Ma la morte brusca e violenta dell’amico non lascia la scrittrice indifferente, ecco perché viene quasi naturale per lei costruire un romanzo che parli al mondo di quel poliedrico provocatore della lingua e dei costumi. Del resto forse per riscattare quella sua immagine borghese, Pasolini si dedica incessantemente negli ultimi anni alla stesura di Petrolio, romanzo-summa che come la Divina Mimesis non vede la luce in vita: Petrolio è una raccolta ordinata, lavorata, sudata, meditata di appunti per un romanzo (o il soggetto di un film?) che sveli la perversione corrotta del potere capitalistico, la sua degradazione.

“Io so, ma non ho le prove” è il manifesto politico, culturale e poetico di quegli ultimi anni e di quegli ultimi mesi di lavoro frenetico, sulle pagine corsare dei giornali, come sempre, finalizzato a sintetizzare in un’unica esperienza artistica il cinema, i romanzi ed il dialetto.

In Pasolini non esiste la possibilità di dividere nessuno di questi aspetti: la vita si fa politica, la politica poesia, la poesia è messaggio etico ed estetica ma è anche la sublimazione delle provocazioni, delle passioni e delle sue produzioni poetiche (Le ceneri di Gramsci) e cinematografiche.

Si tratta di un intellettuale a tutto tondo, il cui acume e la cui irrequietezza sono state felicemente sintetizzate di recente da Francesco Piccolo che ricorda come “la molteplicità lo ha reso l’artista e l’essere umano più complesso del Novecento. Basti pensare alle tre definizioni: cattolico, comunista, omosessuale dichiarato. E ognuna di queste era intollerabile per le altre due.” La vita privata ed artistica di Pasolini si fondono e si nutrono di queste contraddizioni, non hanno un confine ben definito, non hanno un limite; che l’uomo e l’artista non fanno nulla per contenere, anzi sono scavate nei suoi zigomi appuntiti, nel viso attraversato da pieghe carsiche, dagli occhiali scuri ad evidenziarne lo sguardo, sempre lucido e teso come ogni nervo del suo corpo, nella voce stridula quasi in falsetto, graffiante come le sue provocazioni.

La sua curiosità è la sua formazione, avvenuta grazie alle frequentazioni romane: Elsa Morante è solo una delle tante amicizie che il giovane Pasolini, appena espulso dal PCI e allontanato dall’insegnamento dopo un grave scandalo sessuale, stringe nella Roma degli inizi anni ’50. Lì frequenta assiduamente Carlo Emilio Gadda, Giorgio Caproni, Sandro Penna, Attilio Bertolucci e soprattutto Alberto Moravia, nutrendosi voracemente di tutti quegli spunti che ritorneranno utili nella sua produzione, tutta basata sulla riscrittura, la reinterpretazione di topoi che  Pasolini vuole disvelare nella loro essenza e brutale bellezza, oltre la patina dello stereotipo.

Pasolini beneficia della vita romana, fatta di cenacoli colti e umilianti discese nelle borgate dei ragazzi di vita (per molti, ma non per lui): il suo occhio, la sua sensibilità, la sua vorace curiosità trovano in quell’universo lontano dalla provincia tutta la loro potenza, come nel Satyricon di Petronio, che riecheggia in alcuni appunti di Petrolio, insieme ad altre traduzioni ed altri plagi, preparati e messi da parte per l’ultima sua invenzione.

In Pasolini la parola è plastica, ha una tridimensionalità che, in sintonia con le idee, sfugge alla banalità del canone: il dialetto friulano, quello materno, al posto della lingua ermetica e simbolica, rende più e meglio la carnalità del verbo; l’occhio della cinepresa recupera le tensioni dei corpi, spesso assopite e mascherate da una moralità strabordante. Il bello non ha etichette precostituite, quindi è normale che il nome di Maria Callas e quello del principe Antonio de Curtis, in arte Totò, alberghino nello stesso elenco di collaboratori con Anna Magnani, Franco Citti e Ninetto Davoli.

La parola è immagine e l’immagine si fa verbo, si fa richiamo, si fa allusione colta e quasi snob: la folgorazione per Roberto Longhi è la vera fortuna della sua formazione poetica. Il suo cinema non è solo provocatorio avverso la moralità dei tempi, ma è una coltissima e ricercatissima sfida filologica di richiami, nei costumi, nelle ricostruzioni, nelle reinterpretazioni.

L’emulazione e la mimesi sono la fonte generatrice della sua produzione artistica, politica e poetica.

«Contro tutto questo voi non dovete fare altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili. Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare.» (testo preparato per l’intervento in occasione del 15° congresso del Partito Radicale).

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