Politiche educative

13 settembre 2023

Contro l’autonomia differenziata. La Costituzione si attua e non si cambia!

In questi tempi di confusione sulle tematiche istituzionali e costituzionali che non sono mai solamente tali, ma sono sempre intrinsecamente politiche, abbiamo letto una sentenza della Corte Costituzionale (la 71 del 23 febbraio 2023), non molto considerata e commentata, in verità, che presenta invece indubbi rilievi di grande interesse, proprio nella temperie politica che attualmente sta vivendo il paese.

Infatti, tale sentenza può tornare utile per fare ulteriormente chiarezza sulla vexata quaestio della cosiddetta - ma non esistente in nessuna parte in Costituzione - autonomia differenziata che è un cavallo di battaglia del leghismo di nuovo conio, quello “sovranista” e nazionale di Salvini, una volta tramontato quello secessionista e “padano” di Bossi.

La sentenza si occupa di un giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1 commi 172, 174 e 563, 564 della legge di Bilancio 30 dicembre 2021 n. 234 promosso dalla Regione Liguria.

In breve. La Regione sostiene che aver stanziato, con le norme sopra richiamate, dei fondi vincolati al raggiungimento dell’obiettivo della istituzione del 33% di asili nido entro il 2027 nell’ambito del cosiddetto Fondo di solidarietà comunale (FSC), viola la Costituzione perché lede il principio dell’autonomia finanziaria locale. A tale scopo, dice la Regione, occorre agire i finanziamenti da attivare secondo il comma 5 dell’art 119 della Costituzione con interventi speciali e risorse aggiuntive. Per rimediare, suggerisce sempre la Liguria, occorre lasciare i fondi nella piena disponibilità dell’ente locale e aggiungere altri fondi per gli asili nido, anche se questi asili costituiscono un Livello essenziale di prestazione (LEP) che, in quanto diritto sociale, deve essere garantito su tutto il territorio nazionale (art 117 comma 2 lettera m) Cost.) prescindendo dai confini territoriali dei governi locali (art 120 comma 2 Cost.). 

La Corte rigetta il ricorso e, pur riconoscendo che la legge è imperfetta perché effettivamente il Fondo Comunale ha assunto una funzione ibrida (fondi vincolati e non vincolati) che non dovrebbe avere, tuttavia la Corte stessa non può imporre al legislatore una scelta che è di esclusiva competenza di quest’ultimo. Semmai, osserva la Corte, il legislatore non deve limitarsi a farsi restituire i fondi se non spesi, come dice la legge impugnata, ma deve intervenire a sostituire il comune inadempiente.

Cosa si può dire a proposito di questa sentenza? Cosa in effetti dice, tra le righe, e poi non tanto tra le righe, la Corte Costituzionale?

Secondo noi, questo: che i LEP, e in questo caso gli asili nido non sono un optional, si devono fare, perché sono stati appositamente finanziati; che non si può continuare a porre sanzioni inefficaci, come quella di farsi restituire i fondi non utilizzati; che occorre sostituirsi alle istituzioni inadempienti da parte dello stato.

Certo, poi alla Corte viene in mente di citare, in analogia, la sanità, dove, appunto, se i LEA (i livelli essenziali di assistenza) non vengono assicurati, interviene il Governo tramite il Commissario governativo. Ma qui, nel caso degli asili, non si tratta di tagliare i servizi come nella sanità - chiusure di ospedali, rientro dal debito, eliminazione degli sprechi, definanziamento del servizio pubblico a favore del privato – si tratta invece di spendere dei soldi appositamente stanziati.

Ma, a parte questa infelice analogia, l’approccio della Corte ci sembra molto chiaro e sembra, pure nel linguaggio felpato e istituzionale come si conviene ad un tale collegio giudicante, entrare con molta nettezza nel dibattito in corso. La Corte dice: se si stanziano risorse per implementare i LEP, questi vanno implementati, non si può lasciar correre, non si può far “tornare i soldi indietro”. Lo stato si sostituisca ai comuni.

Ora, per inquadrare la sentenza nel dibattito in corso sulla cosiddetta autonomia differenziata, ci viene immediatamente da osservare che, con tutti i limiti e le confusioni del Titolo V in termini di competenze fra stato e regioni (che vanno superati), tuttavia in quella modifica del 2001, approvata dal popolo con un referendum confermativo, si è fatto un passo avanti, almeno sulla carta (la Carta costituzionale), e sul piano politico e sul piano dei diritti civili e sociali.

Innanzitutto, sul piano politico, non ci sembra inutile sottolineare che quella riforma del Titolo V, oggi da tutti deprecata - perfino da coloro che allora la approvarono e che oggi si lasciano andare a “distinguo e precisazioni” che allora non fecero - in realtà ebbe un effetto positivo immediato, quello di mandare in soffitta il secessionismo padano, che dovette riciclarsi, per sopravvivere, sotto altre spoglie, in sovranismo “nazionale”.

Il colpo allora accusato dai seguaci di Bossi, sull’ argomento “Nord produttivo contro Sud straccione e sfaticato”, ha fatto calare un silenzio durato 15 anni, che nel 2016 è stato rotto dai leghisti di Lombardia e Veneto con la complicità dell’Emilia Romagna di Bonaccini. Ma questa volta, quella pulsione secessionista non può presentarsi tale e quale gli anni novanta del novecento, per cui essa scava e trova nella Riforma del Titolo V una clausola costituzionale che, lo vedremo fra poco, nulla ha a che vedere con la frantumazione della Repubblica, quale il nuovo leghismo reclama e che va sotto il nome giornalistico di “autonomia differenziata”. In ogni caso nessuno può negare che il secessionismo bossiano, politicamente (attenzione! stiamo dicendo “politicamente” ma non nella testa dei leghisti), non esiste più, è morto, sconfitto nel dibattito pubblico e culturale. E il merito va alla riforma del titolo V della Costituzione.

Sul piano dei diritti civili e sociali il Titolo V riformato, proseguendo lungo il solco tracciato dai nostri costituenti, ha innovato e reso più stringenti le clausole di tutela dei diritti.

Infatti, prima della riforma del titolo V non esisteva il principio secondo cui i diritti civili e sociali “devono” essere garantiti su tutto il territorio nazionale tramite la definizione e il finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni a prescindere dai confini territoriali dei governi locali (arti 117, 119, 120 della Costituzione). E questo perché ci si rendeva conto che in ogni caso maggiori poteri ai governi locali non dovevano intaccare i diritti civili e sociali del cittadino italiano. La Corte costituzionale lo ha detto e ribadito in numerose sentenze, compresa l’ultima richiamata all’inizio del presente scritto.

Purtroppo, la politica delle forze non di destra, che concorsero a varare il titolo V con l’approvazione popolare referendaria, invece di mettersi di buona lena per attuare tali principi, si è lasciata andare alla rincorsa con la destra medesima sul piano dell’arretramento dei diritti: il lavoro, l’istruzione, la sanità, i trasporti, l’ambiente, la tutela del suolo e del patrimonio - in una parola la tutela dei beni comuni e dei diritti - sono stati terreno di scorribanda tanto delle forze di destra tanto delle forze non di destra: esiste, infatti, ancora, una sinistra di classe, con una visione matura, erede delle lotte novecentesche e disposta a fare dello sviluppo dei diritti civili e sociali, tanto quelli della vecchia costituzione tanto quelli della nuova costituzione, il fulcro del suo programma? Sembrerebbe di no.

Ma questo è il tema. Le forze non di destra vogliono far applicare la costituzione o no? Se sì, allora la cosiddetta autonomia differenziata va sconfitta sul campo. Va cancellata dal dibattito pubblico. Innanzitutto facendo una chiara autocritica (una espressione “comunista”, ci rendiamo conto, ma non ve ne è un’altra) dicendo apertamente che aver assecondato l’interpretazione leghista di Lombardia e Veneto nel 2016, schierando addirittura la Regione Emilia Romagna a favore di una interpretazione errata della Costituzione, è stato un errore madornale.

È stato un errore madornale perché il testo della Costituzione non autorizza nessuno a sostenere che possono essere devolute ulteriormente alle Regioni a statuto ordinario ben 23 materie. E ciò per un evidente motivo, questo: che il comma 3 dell’art. 116 della Costituzione, che viene interpretato dai leghisti come il punto di forza della devoluzione di ulteriori poteri alle Regioni che lo richiedono, in realtà va interpretato in tutt’altra maniera, la maniera corretta. E cioè: la Regione che chiede una qualche devoluzione su di una qualsiasi materia delle 23 previste deve dimostrare che in quella materia, anzi in quella funzione (una delle 500 individuate dalla Commissione insediata dal medesimo Calderoli), la sua situazione è talmente speciale, talmente particolare, talmente singolare, talmente propria di quella regione che se ne chiede una gestione in autonomia. Facciamo un esempio. Il Presidente dell’Emilia Romagna, Bonaccini, vecchio e ora silente alfiere di questo discorso di autonomia differenziata, ritiene che la gestione del bacino del Po, con le sue acque indomite, con i suoi innumerevoli torrenti, è cosa assai singolare e particolare, unica nella sua specificità per cui pensa di poterla gestire da solo? Ebbene, ne faccia richiesta e se ne discuta, magari per decidere, in Parlamento e non nelle segrete stanze governative e regionali quasi che la materia sia senza ricadute sul resto d’Italia, che no! anche questa materia è materia nazionale.

Questo è il punto dirimente. Poi, accanto a questa capitale argomentazione, occorre applicare la Costituzione per quello che dice proprio nel Titolo V: nulla si può devolvere se prima non vengono assicurati, anzi garantiti, i diritti civili e sociali di sanità, istruzione, assistenza, trasporto, ambiente…Quanti miliardi ci vogliono per perseguire ciò che la Costituzione comanda? 50? 100? 200? Ebbene, non si muove foglia in termini di devoluzione se prima non si procede a garantire quei diritti. Già oggi gli studi dimostrano che ciò non avviene, che cioè non sono garantiti i livelli essenziali delle prestazioni.

Il ddl Calderoli proclama falsamente di voler garantire questi diritti, ma senza soldi, a finanza invariata. È un imbroglio che, almeno su questo argomento, il dibattito politico ha già smascherato.

Ma il punto vero, che è la vera leva che ribalta la situazione, è l’altro di cui abbiamo detto: cancellare la fantasiosa interpretazione del comma 3 dell’art 116 della Costituzione come da vulgata leghista. In questa lotta lo schieramento politico non di destra deve, dopo l’auspicata autocritica, dichiarare quella interpretazione come falsa, di parte, antinazionale e come tale da respingere.

E se quel comma continua a venire interpretato come hanno fatto finora il Governo Gentiloni, il Conte 1e il conte 2 e ora il Governo Meloni, va detto a chiare lettere che è interpretazione sbagliata, anticostituzionale e sovversiva e come tale va respinta nelle piazze, nei partiti, nelle Università, nei mass media e in ogni luogo. Guai ad avere dubbi e ambiguità su questo argomento. Non è partito nazionale e di popolo quel partito che indulge a questi equivoci, equivoci che dal 2016 ad oggi dovrebbero essere stati dissipati dal dibattito finora svolto nel Paese.

Molte parti della Costituzione non trovano attuazione. E la Carta costituzionale, non applicata, diventa terreno di conflitto, però terreno scelto dalla destra, che lavora contro i diritti. Facciamone terreno di lotta dalla parte politica non di destra.

La Costituzione italiana ha la sua peculiarità nella tutela dei diritti sociali, non è ferma ai diritti civili individuali e di proprietà, propri delle epoche liberali ottocentesche e primo novecentesche. Forze di sinistra, degne di questo nome, dovrebbero attaccare su questo terreno e non lasciare l’iniziativa agli avversari che “tirano” la costituzione da un’altra parte. O si è consapevoli che anche la costituzione è terreno di battaglia politica oppure la battaglia è persa.

Giusto, dunque, lo slogan: la Costituzione si attua e non si cambia.

L'autore

Armando Catalano