Politiche educative

31 agosto 2021

La competizione tra università e le sue cadute di stile

Qualche giorno fa sulla pagina facebook ufficiale dell’Università del Piemonte Orientale (il secondo ateneo statale della Regione oltre quello di Torino, con sedi a Vercelli, Novara e Alessandria) è comparso un meme promozionale che ha attirato notevole attenzione.

Il meme riprendeva una famosa foto, ampiamente girata sui social, che mostra una bella ragazza camminare per strada in primo piano, un po’ sfocata, e alle sue spalle a fuoco una giovane coppia, con il compagno che si gira a seguire con lo sguardo il retro della ragazza (chiaramente intento a fischiare), mentre la compagna che lo tiene per mano lo guarda visibilmente irritata. Le scritte riportate sulla foto identificavano la bella ragazza come UPO (l’università del Piemonte Orientale, appunto), il giovane compagno come “io che cerco il futuro”, la compagna come le “altre università”.

Gli oltre cento commenti che hanno accompagnato il post, devo dire, per larga parte non erano particolarmente lusinghieri nei confronti dell’ateneo e del suo social manager. Per fortuna, aggiungo io, dimostrando che c’è ancora una capacità sociale di dare un minimo senso alle cose. Dopo un paio di giorni, comunque, il post è stato rimosso

Sappiamo che la comunicazione social deve esser veloce e colpire, per riuscire a emergere e a diventare il più possibile virale. L’ironia e il paradosso spesso aiutano a raggiungere questo obbiettivo. Questo meme, però, ci pare tutto tranne che divertente. Anche se, effettivamente, in qualche modo sembra esser riuscito ad attirare attenzione (forse non quella voluta). 

Certo, colpisce che un’istituzione pubblica decida di usare per la sua promozione un’immagine esplicitamente sessista, in cui osservare il didietro di una ragazza e il catcalling [guardate bene la foto, dove cade lo sguardo e qual è il movimento delle labbra del ragazzo] diventano comportamenti idealtipici per esprimere interesse per qualcosa. Questa comunicazione è imbarazzante per l’istituzione che la promuove, proprio perché usa come esemplificazione dell’ammirazione l’oggettivazione del corpo di una persona. Veicola quindi il messaggio sociale, implicito ma chiaro, che quell’oggettivazione è un modo usuale, anzi esemplare, per esprimere un’emozione di interesse.

Capiamo che, nella velocità della comunicazione contemporanea, si possa facilmente cadere in trappole comunicative, errori di valutazione, cadute di stile. Succede di sbagliare. Certo, davanti ad un errore così palese, sarebbe forse opportuno ammettere il proprio errore. Non è vero, come ha detto il Magnifico Rettore di UPO Gian Carlo Avanzi, che “le persone che l’hanno criticato hanno voluto vedere un messaggio maschilista prevaricante sull’intenzione umoristica”. No. La colpa non è nell’occhio di chi guarda. La colpa è proprio nel gioco di questa comunicazione, che usa (e quindi legittima) stereotipi e comportamenti diffusi che si dovrebbero invece contrastare. Il Rettore ha poi aggiunto che “UPO è ed è sempre stata, nei fatti e nelle parole, ben lontana da questi atteggiamenti”: non ci pare proprio, almeno nelle parole, proprio perché ha voluto promuover sé stessa attraverso l’uso esemplificativo di questi atteggiamenti. Non solo: nonostante abbia alla fine ritirato il post, il Rettore per conto dell’Ateneo ha presentato scuse che hanno quasi il sapore della rivendicazione: “Se la vignetta ha offeso qualcuno, UPO se ne dispiace e, in futuro, terrà conto anche dei punti di vista e delle sensibilità che in questa occasione si sono espresse in senso contrario al meme. UPO non rinuncia, peraltro, a considerare la leggerezza come un elemento fondante della natura umana”. A colpirci però non è la leggerezza, ma la gravità e la grevità di queste comunicazioni dell’Ateneo. 

La cosa che mi fa più pensare è che a fare tutto questo sia stata un’università. L’uso di stereotipi e stigmatizzazioni, della sessualità e del corpo delle donne, attraversa in fondo tutta la pubblicità contemporanea, la promozione delle merci che affolla il nostro quotidiano. Certo, negli ultimi anni si ricordano anche pubblicità che attirano l’attenzione proprio perché smontano e prendono in giro stereotipi e rappresentazioni sociali condivise, usando l’ironia per metter in discussione alcune costruzioni della realtà o per promuoverne di più adeguate. Queste pubblicità, però, colpiscono e si ricordano proprio perché si staccano dal panorama generale, che è invece strabordatamente immerso nell’oggettivazione del corpo (in particolare delle donne), oltre che in stigmatizzazioni e pregiudizi di vario tipo (proprio perché più facilmente elicitabili con pochi riferimenti e nel contempo capaci di attivare reazioni emotive). 

A colpire in questo caso è l’uso di una pubblicità volgare e stupida da parte di un’università, ma a far riflettere dovrebbe esser il fatto che oramai anche l’iscrizione ad un’università statale, in Italia, viene promossa e trattata come una merce. Non è un caso, non avviene solo al Piemonte Orientale. Tutti gli Atenei oramai promuovono sé stessi attraverso comunicazioni pubblicitarie. Alcuni con più intelligenza e arguzia, altri cercando di dare una valenza anche sociale al proprio messaggio, altri con semplice stupidità. In qualche caso, si è persino copiato pubblicità di merci famose, anche quando questo non ha alcun senso se non quello di far ricordare il nome dell’ateneo (in fondo, è proprio questo lo scopo principale di una pubblicità, soprattutto se usa un canale periferico di attenzione): ricordate, qualche anno fa, liscia, gassata o…

Questo è il portato della Legge 240 del 2010, come di una serie di altri svariati provvedimenti (dal DL 49/2012 alla distribuzione dei fondi del finanziamento ordinario), che hanno promosso e incentivato una competizione tra gli atenei per conquistarsi risorse per il normale funzionamento, fondi di ricerca, possibilità di assunzione del personale. È la logica del New Public Management che ha permeato da tempo le università italiane, incrementando progressivamente il processo dell’autonomia universitaria iniziato sin dai primi anni novanta. Questo modello di gestione della pubblica amministrazione, in estrema sintesi, aziendalizza uffici ed enti imponendo nei loro bilanci e nella loro struttura organizzativa una logica di quasi mercato (produzione di servizi in competizione con le altre realtà pubbliche e private), mediante sistemi di controllo “oggettivi”, che servono a simulare appunto la pressione di mercato che in realtà non esiste per beni pubblici e condivisi Sono questi, in fondo, gli astrusi algoritmi e parametri che popolano ormai da anni documenti e bilanci universitari, promossi da Ministero e ANVUR, e che spingono gli atenei a cercare studenti, progetti di ricerca e fondi l’un contro l’altro, armati. 

Così, come recentemente notato, è difficile oggi anche solo condurre una reale discussione sull’impatto della pandemia sulla didattica universitaria, perché nella logica competitiva ogni ateneo è portato semplicemente a rivendicare che nella propria realtà tutto è andato bene, anzi perfettamente, anzi ancor meglio di prima. Così, il mondo accademico della cooperazione e dello scambio viene sempre più degradato da logiche concorrenziali  tra atenei, dipartimenti (più o meno di eccellenza), gruppi di ricerca, singoli docenti, sbiadendo progressivamente da una parte lo stesso concetto di sistema universitario nazionale (che pure, rimane una delle principali caratteristiche e pregi della nostra accademia, anche nei risultati internazionali), dall’altro la capacità di sviluppare collettivamente conoscenza e sapere sociali, usabili per l’insieme dei territori e della società di appartenenza. L’università sviluppata negli anni settanta e ottanta, grazie alla contestazione del suo ruolo di riproduzione delle gerarchie sociali e delle classi sociali, cresciuta come luogo dialettico e di contrasto tra diverse domande sociali, sta prendendo il cammino anglosassone della competizione e della stratificazione sociale.

Allora, certo, la tristezza che sorge guardando questo meme è in primo luogo per l’uso del corpo e l’oggettivizzazione delle donne. Come in tutte le pubblicità che hanno questa impostazione. Però, agli occhi di un docente universitario, questa tristezza è amplificata dal vedere quanto questa logica competitiva sia oramai penetrata nei nostri Atenei. Una tristezza che, in ogni caso, spero sia ancora capace (in me e non solo in me) di innescare anche almeno un briciolo di rabbia. Quella rabbia necessaria, oggi più che mai, a continuare ad opporsi a questo modello, a queste logiche, a queste prassi, e provare finalmente a ribaltare l’impostazione della legge 240. 

L'autore

Luca Scacchi