Politiche educative

24 maggio 2022

E se il docente come vocazione fosse un trucco neoliberista?

Il discorso sulla necessità di spiegare la nostra vocazione di docenti come vincolata alla crescita individuale e come parte della nostra identità non è nuovo, viene da abbastanza lontano. Ricordo che da piccolo mi insegnarono a scuola a “lavorare con me stesso”, in una specie di autoterapia, per una ipotetica vocazione, al fine di dar senso alla mia vita. Era come se la definizione di ciò a cui desideriamo dedicarci nel lavoro dovesse formare parte della nostra identità e della nostra crescita. Una inclinazione che formerà parte del nostro del nostro Dna.

Una volta, un maestro dell’ultima classe della EGB (Educación General Básica, la scuola dell’obbligo in Spagna, ndt) dedicò l’intero anno a chiamare ciascuno di noi alla lavagna, non per risolvere un esercizio o un problema, ma per esplorare la nostra interiorità e domandarci pubblicamente quale fosse la nostra vocazione: medico chirurgo, avvocato, maestro… Ricordo che trascorremmo questi giorni raccontando una ad una le nostre vocazioni individuali per progredire nella vita e ottenere un futuro prospero. O almeno così pensavamo. Quando toccò a me, ricordo che mi costò dover rispondere. Ero titubante e mostrai molti dubbi usando frasi spezzate, per cui rapidamente il maestro mi interruppe e mi disse: “se non incontri la tua vocazione individuale, è molto probabile che nella vita ti andrà male. Pensaci bene e sono certo che la incontrerai”. In quel momento suonò la campanella e fuggii a casa. Passai un’intera giornata a pensarci. Furono giorni o settimane di inquietudine e pene; e mi ricordo che questo processo di ricerca interrompeva il sonno, mi inquietava. Era come se dentro di me stessi cedendo, come se qualcosa mi facesse sentir male: avevo tredici anni e ancora non avevo incontrato la mia vocazione. Tuttavia, un giorno questa ipotetica “luce interiore” cominciò a brillare e, attraverso ragionamenti logici, sono riuscito a incontrare quale sarebbe stata l’ispirazione che avrebbe guidato la mia vita, la mia crescita: poiché adoravo scrivere, pensai che la mia vocazione fosse quella del giornalista. Inoltre, fin da bambino, mi piaceva la figura di Gabriel García Márquez, e chi meglio di lui per rappresentare questo ideale che avrebbe segnato il mio cammino nel futuro? Avevo incontrato la mia vocazione professionale, quella che avrebbe potuto farmi migliorare come individuo e come persona. Quel pezzo del puzzle che mancava alla costruzione della mia identità.

Tuttavia, il tempo e le diverse vicissitudini della vita (incontri, difficoltà, bisogni, esperienze…) troncarono questa vocazione e, immediatamente, mi risolsi di esercitare la professione docente. Avevo rubato al mio io di adolescente? Avevo equivocato la mia vocazione? Avevo distrutto la costruzione di qualche tipo di crescita professionale che non fosse coerente con alcun tipo di principi interiori? Lo capisco, ma no, non credo che esistano docenti per vocazione, né credo alla vocazione. Ci sono professionisti dell’educazione migliori e peggiori (ed è chiaro che questi ultimi danneggiano la professione), questo sì, ma non credo che ciò sia vincolato a una sorta di gavetta emotiva nella quale ci si converte alla ricerca della vocazione, come se ciò fosse il rimedio a tutti i nostri mali. Lo credo perché l’esercizio del nostro lavoro non può essere condizionato da questo idealismo che si alimenta della concezione di una educazione come missione individuale e individualista nella quale dobbiamo inoltre attenuare le nostre debolezze seguendo guide sotto forma di tutori spirituali i cui discorsi ci aiutino a esplorare la nostra interiorità e a ritrovate la vocazione.

Abbiamo creato la leggenda per cui la docenza è una professione per vocazione. E lo crediamo perché l’hanno venduta bene, come una necessità più del mercato, la necessità di seguire la catena della produzione e di mantenere l’educazione dentro questo ciclo di imprenditorialià personale e di individualismo nel quale la scuola è stata convertita nella versione più feroce del capitalismo. E così, in questo tempo di crisi e di precarietà nel quale si insiste a dire che il problema dei nostri mali risiede nella nostra interiorità, si levano amplificate le voci di coloro che ci danno lezione, in una specie di esercizio di promozione commerciale, per modellare la nostra vita per migliorarla fuori e per rendere conto al sistema.

Il momento in cui il mondo del lavoro chiese di far parte, con questo esercizio, del processo di crescita identitaria, si cominciò a spezzare gran parte del senso della nostra esistenza come collettività. Essere umano vuol dire essere funzione delle relazioni con gli altri, essere pronto alle richieste di chi si ama, essere capace di legare in una comunità diversa, nelle interazioni e nel dialogo per la costruzione collettiva della conoscenza e della cultura. Senza dubbio, molti programmi educativi e di impatto mediatico si caratterizzano per vendere in gran parte questa idea omogenea della vocazione vincolata alla idea di missione e di sacrificio personale, di dare conto ai nostri simili e al sistema e degli squilibri che sostengono la catena di produzione e dei privilegi che ha trasformato il tessuto educativo. E non è per caso che questi programmi si caratterizzano per l’immagine di una persona (un individuo), per un prodotto mediatico fatto per vendere un’idea che arriva anche in forma univoca all’individuo: idea di cui si nutre ognuno di noi, una volta di più. Ed è allora che le politiche sul fallimento del lavoro legittimano i propri discorsi sull’idea di colpevolizzare le persone per l’inazione, ingrossando le liste dei disoccupati, la vendita di libri di autoaiuto, la penetrazione socioeducativa delle pseudoterapie e le richieste d’aiuto a specialisti a causa dei conseguenti disordini psichici.

La professione come senso della identità individuale, senza alcuna verniciatura di consapevolezza collettiva, snatura l’origine di molti problemi nostri e privata del lavoro di gruppo esalta la cultura del “laissez faire, laissez passer” nella quale l’individuo è l’unità fondamentale (tenuto a soddisfare la propria vocazione, altrimenti si rompe). Esso, in questa ideologia, è l’unico responsabile o promotore della trasformazione e, pertanto, estremamente contrario alla crescita e al progresso, sviando così il fuoco dell’attenzione dalle origini delle disuguaglianze e della ingiustizia sociale.

E torno all’inizio, a quei giorni in cui andammo alla lavagna uno alla volta per essere interrogati sulla nostra vocazione. Passai un giorno di intenso malessere, ma incontrai quella vocazione che il maestro chiedeva e la condivisi. Alla fine, il tempo mi collocò in un altro lavoro nel quale, con tutti i miei difetti, intendo impegnarmi con tutte le mie energie, dando il meglio di me ogni giorno in contatto con le famiglie, la classe di studenti e con il resto dei docenti.

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L'autore

Alonso Albano

Filologo e docente di Letteratura spagnola. Editorialista del quotidiano El Paìs sui temi dell’Istruzione e della filosofia dell’educazione.