Politiche educative

29 dicembre 2021

Scuola pubblica e neoliberismo: perché non può funzionare

Continuiamo la dimostrazione di come un sistema di istruzione pubblica gestito in chiave neoliberista non solo non possa funzionare, ma sia destinato a implodere, secondo il più classico dei metodi: si lascia languire un settore pubblico fino a renderlo inservibile, per poi presentare l’ingresso del privato come l’ancora di salvezza a cui aggrapparsi, meglio ancora se l’imprenditore di turno viene raccontato come un uomo dai grandi valori e dal cuore enorme.

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Parte fondamentale di tutto ciò sta nell’abituare l’orecchio a una certa musica, a un certo ritmo, soprattutto a un certo testo. Le parole sono importanti, creano la realtà, così ecco che assistiamo a un continuo levare e mettere termini da azienda.

La scuola è “pubblica”?

Dipende dal Ministro, verrebbe da dire. Bassanini, nel 1999, legge 300, toglie l’aggettivo e il cambiamento viene recepito (lietamente) da Letizia Moratti nel 2001. Nel 2006, Fioroni lo reintroduce, ma Gelmini non è d’accordo e appena può lo elimina. Il colpo da maestro lo fa l’attuale Ministro, che si dichiara nostalgico del termine, vorrebbe reintrodurlo, ma si guarda bene dal promuovere le riforme che alla scuola servirebbero. Non ci crederete: compresa la reintroduzione dell’aggettivo.

Sembrerebbe una questione da poco, ma non lo è (le parole, lo abbiamo detto, sono importanti). Definire “pubblica” l’istruzione italiana comporterebbe una presa di distanza da qualsiasi forma di privatizzazione, vincolando appunto al settore pubblico la cura dell’educazione delle cittadine e dei cittadini e, d’altro canto, mettendo al margine la scuola privata.

Competenza o competizione?

Già al termine del primo ciclo si devono “certificare le competenze”, sulla base di quelle indicate dalla UE e recepite già dalla Legge 107/2015 (la Buona Scuola, sic!). Ebbene, tra le otto competenze alcune brillano per capacità di demoralizzare gli uni e ringalluzzire gli altri (stabilite voi chi siano gli uni e gli altri). Per esempio si parla di - udite udite - “spirito di iniziativa e imprenditorialità”. Chi non vorrebbe avere un piccolo imprenditore in casa? Che manifesti la sua imprenditorialità già a tredici anni, perché è capace di risolvere problemi e prendere decisioni. Certo, se nasci e cresci senza avere nessun tipo di difficoltà, che sia fisica, psicologica, economica, sociale, è molto più probabile che risulti intraprendente rispetto a chi non ha la stessa fortuna. Ma la scuola non dovrebbe essere inclusiva e dare a tutti le stesse possibilità? Se si mette per iscritto che Giovannino ha uno scarso spirito imprenditoriale, se cioè gli insegnanti danno una valutazione in merito, senza scrivere la biografia dell’alunno, difficilmente chi legge potrà farsi un’idea sensata dello stesso. Ciò a cui si andrà ad appigliare sarà un giudizio sintetico o una lettera e, se non emerge un immagine positiva, beh, spiace per Giovannino, aveva da nascere in un’altra famiglia, o magari essere in grado di “risolvere problemi in situazioni note e non note”.

Simpatica trovata anche quella della “competenza digitale”, che certamente nel mondo di oggi è fondamentale. Peccato che le scuole, specie quelle del primo ciclo, sono digitalizzate poco e male, soprattutto quelle dove il Dirigente non è bravo a trovare fondi in autonomia (leggasi donazioni di privati che, giocoforza, vorranno poi avere voce in capitolo sull’indirizzo politico-educativo dell’Istituto). E così avviene che Giovannino ha una valutazione bassa anche nelle competenze digitali, perché da quando si è rotto il PC non può far pratica. A casa hanno tutti il cellulare e quello basta per l’essenziale. Il papà è in cassa integrazione e la mamma ha perso il lavoro, non si esce mica tutti insieme per scegliere il prossimo computer.

Potremmo discutere anche della competenza in italiano, che, riferita agli alunni di origini straniere (brutta espressione, ma qui utile), diventa del tutto ambigua, considerando le scarse ore che si appaltano ai privati per l’alfabetizzazione. Ma lasciamo stare.

Insomma, la scuola delle competenze, che mette il giovane nelle condizioni di orientarsi nel mondo e, di conseguenza, di entrare nel mercato del lavoro (guarda un po’, il capitale umano), rischia di diventare la scuola della competizione, palesemente di matrice neoliberista. Solo che la gara è falsata, perché si tratta di competizione sociale, economica, di status, per dirla tutta. Senza interventi strutturali e senza una volontà politica decisa nell’investire sul futuro del Paese, le situazioni saranno sempre note per qualcuno, non note per tutti gli altri.

Cittadini consapevoli: da noi si studia Educazione civica “trasversalmente”!

Con la Legge 92/2019 viene introdotta (ancora una volta, ma questa è un’altra storia) una “nuova” disciplina: l’Educazione civica. In effetti ci voleva proprio, perché alla base dell’educazione c’è la conoscenza delle regole del vivere civile, della Costituzione, delle istituzioni dello Stato italiano, dell’Unione Europea e degli organismi internazionali; storia della bandiera e dell’inno nazionale; Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 25 settembre 2015; educazione alla cittadinanza digitale; elementi fondamentali di diritto, con particolare riguardo al diritto del lavoro; educazione ambientale, sviluppo ecosostenibile e tutela del patrimonio ambientale, delle identità, delle produzioni e delle eccellenze territoriali e agroalimentari; educazione alla legalità e al contrasto alle mafie; educazione al rispetto e alla valorizzazione del patrimonio culturale e dei beni pubblici comuni; formazione di base in materia di protezione civile.

Tutto questo in una sola materia, e (da daaaan) senza oneri per le finanze pubbliche, cioè senza assumere un docente – che dovrebbe essere comunque onnisciente – e in pratica togliendo ore alle singole discipline (33 alla secondaria di primo grado. Trentatré!). Il gioco è fatto grazie alla parola “trasversale”, che certamente suona bene. La didattica trasversale è una gran cosa, tutti gli argomenti dovrebbero essere affrontati trasversalmente, così da dare agli alunni più prospettive sullo stesso argomento. E invece no. Alla fine il gioco consiste nello stabilire chi deve trattare cosa e in quanto tempo, che chi deve apprendere apprenda davvero diventa secondario. Peggio se parliamo di scuole del secondo ciclo, dove gli studenti manifestano da anni l’esigenza di affrontare tematiche ben diverse dalla tutela del formaggio come patrimonio culturale di un territorio.

Curriculum dello studente. Curriculum?

Legge 107/2015, art. 1, c. 28. Le scuole secondarie di secondo grado introducono insegnamenti opzionali nel secondo biennio e nell’ultimo anno anche utilizzando la quota di autonomia e gli spazi di flessibilità. Tali insegnamenti, attivati nell’ambito delle risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente e dei posti di organico dell’autonomia assegnati sulla base dei piani triennali dell’offerta formativa, sono parte del percorso dello studente e sono inseriti nel curriculum dello studente, che ne individua il profilo associandolo a un’identità digitale e raccoglie tutti i dati utili anche ai fini dell’orientamento e dell’accesso al mondo del lavoro, relativi al percorso degli studi, alle competenze acquisite, alle eventuali scelte degli insegnamenti opzionali, alle esperienze formative anche in alternanza scuola-lavoro e alle attività culturali, artistiche, di pratiche musicali, sportive e di volontariato, svolte in ambito extrascolastico.

Abbiamo voluto riportare tutto il comma perché risultasse in modo inequivocabile come il linguaggio neoliberista sia entrato a far parte del mondo della scuola senza vergogna. Leggiamo infatti che gli studenti sono obbligati ad avere un curriculum utile all’inserimento nel mondo del lavoro (toh, di nuovo il capitale umano). Si è messa nero su bianco la strumentalizzazione del percorso di istruzione, che diventa quindi non più il luogo in cui crescere come persone in grado di sviluppare una propria identità e un pensiero critico, ma un lunghissimo corso di preparazione all’ingresso in azienda, con tanto di selezione dei ruoli ante litteram. Ciò è confermato dal fatto che, perché uno studente abbia un curriculum rispettabile, deve aver compiuto un percorso di studi privo di incidenti, lineare. Poco importa se Giovannino ha perso un anno quando la mamma è stata male e ha dovuto prendersi cura dei fratelli più piccoli. Non basta? Niente paura, la selezione tra chi è un predestinato al successo e chi no tiene conto delle esperienze scolastiche messe in atto autonomamente dalle scuole. Da qui discende che la formazione dipende dall’”offerta” del singolo istituto, così che ce ne siano di serie A, di serie B, di serie C, in base a ciò che offrono. E se ancora non basta, perché Giovannino va in una scuola con una buona offerta formativa, si introducono le attività extrascolastiche. Certo, volete mettere uno che può pagarsi il maestro di violino, di pianoforte, che può fare tennis e corsi di lingue, con un altro che tutte queste cose vorrebbe farle, ma a casa ci si passa i vestiti di generazione in generazione. Vorreste forse che quest’ultimo diventasse il vostro capo? Giammai! E potete stare tranquilli, perché il suo curriculum non glielo permette. Peccato che, dei due, era questo quello in gamba.

Si potrebbe scrivere ancora molto sull’argomento, ma diciamo che lo spazio - e forse anche la voglia - è finito. La scuola come specchio dell’economia di mercato è una scuola che discrimina fingendo di non farlo. Ci sono solo due speranze per le prossime generazioni: che esse stesse si diano da fare per cambiare tutto questo, intralciando il cammino della privatizzazione; che lavoratrici e lavoratori della scuola di oggi si uniscano all’insegna del dettato costituzionale e, con l’esempio di figure come Piero Calamandrei, svolgano in classe il proprio ruolo in modo tale da formare menti pensanti e non capitale.

L'autore

Giuseppe Virone

FLC CGIL Pavia