Ricorrenze / Dicembre

12 dicembre 1821

L’ombra di Flaubert e la letteratura europea

Gustave Flaubert è nato duecento anni fa, nel 1821. Riproponiamo qui un intervento del critico italiano sulla contesa che divise i letterati francesi e non solo sul valore dello scrittore. Le critiche di Sartre e la "santificazione" di altri. Ma la sua grandezza ci parla ancora oggi

«L’osservatore distaccato di quello che è avvenuto negli ultimi anni della vita letteraria francese, vale a dire chi ormai si è abituato a registrare i fenomeni più importanti senza più parteggiare per una o per l’altra delle soluzioni proposte, è in grado di distinguere due grandi correnti che, per ragioni di comodo, possiamo denominare così: la corrente di chi non crede più nella letteratura come istituzione e la corrente di coloro che (opponendosi a un’interpretazione immediata di interessi pratici) ribadiscono il principio dell’assoluta autonomia dell’arte. In effetti la distinzione non è nuova e si riallaccia a uno dei grandi temi del dopoguerra, naturalmente con tutte quelle correzioni che i tempi diversi hanno imposto.

Che la questione non sia del tutto nuova ce lo ripete il punto clamoroso della discussione che avviene nel nome di Flaubert. Aggiungiamo subito che l’autore dell’Educazione sentimentale è piuttosto un simbolo per le due parti che contendono sull’essenza stessa della letteratura. Se da una parte troviamo un nuovo Sartre e dall’altra gli uomini di Tel quel, del nouveau roman e più generalmente quelli che credono nella purezza astratta della letteratura, al centro della discussione c’è l’ombra di Flaubert. Proprio quel Flaubert contro il quale Sartre anni fa era partito in guerra, senza peraltro dar corso alla sua polemica. Bisogna dire che Sartre snaturava per fini chiaramente polemici quella che era stata la figura del grande scrittore normanno, dobbiamo dire oggi che a loro modo lo snaturano anche quegli scrittori che ne fanno una specie di santo, di apostolo, di nume?

La polemica letteraria deve per forza sacrificare gran parte delle sue iniziative a questi stratagemmi dettati dall’opportunità. Non era il Flaubert della storia quello che Sartre dileggiava, non è il Flaubert di sempre quello che salta fuori dall’impostazione interessata di chi tende a spostare gli interessi di valutazione dalle opere concluse ai progetti, ai tentativi, insomma alla parte più propriamente sperimentale di uno scrittore che pure voleva soprattutto credere alla pagina, alla storia perfettamente concluse.

 

La contesa letteraria su Flaubert

Se si guarda bene, le due posizioni finiscono per assomigliarsi e per contraddire i dati stessi della contesa. Sartre immaginava, si inventava un Flaubert che sposasse tutto quello che egli riteneva di dover ripudiare. I nuovi fedeli della letteratura mettono l’accento sul simbolo, su quello che ai loro occhi dovrebbe essere lo scrittore al di sopra delle passioni del momento. È chiaro che nessuna delle due parti si è sforzata di vedere quello che in realtà era stato Flaubert. Non era stato certo uno spirito che rifiutava l’apporto della realtà, così come non era soltanto un copista pronto a sacrificare problemi e motivi del suo tempo per arrivare a una pagina puramente formale, esteriormente soddisfatta. A volerlo separare in questo modo, non si manca soltanto ai doveri della verità storica ma ci si inibisce di capire Flaubert, cioè quello scrittore che ha sentito drammaticamente le ragioni del suo tempo e ha servito fedelmente gli ideali artistici nati e consolidati nell’arco di un duro esercizio. Sartre, bersagliando un Flaubert immaginario, non faceva che inseguire il mito dello scrittore nuovo, gli scrittori d’oggi bruciando incensi alla statua dello scrittore segreto (dando per segreto anche quello che era noto perfino agli studenti da molti anni) vogliono evidentemente buttare tra le gambe dei loro nemici una figura ingombrante.

Ma se la discussione appare inerte là dove subisce quasi per intero le proposte della polemica, l’ombra di Flaubert acquista un significato di attualità là dove investe un problema completamente diverso, di natura storica. Non è proprio un caso se un critico avvertito, sensibile, e che ha il gusto dell’attualità come Maurice Nadeau ha deciso di offrire ai lettori senza etichette e senza scuole una nuova edizione di Flaubert (presso la casa Rencontre di Losanna) fondata sul principio della lettura legata al tempo. Probabilmente sono state le infatuazioni ultime, con tutti gli errori di prospettiva e con tutte le deficienze di carattere storico, a spingere il Nadeau a darci il film concreto del lavoro, del lungo e disperato lavoro di Flaubert. Fino a ieri la critica aveva preferito smembrare lo scrittore in diversi centri di interesse. L’uomo della corrispondenza, il romanziere compiuto della Bovary, il romanziere superiore per l’élite dei lettori rappresentato dalle varie redazioni della Education [Educazione sentimentale, n.d.r.] e della Tentation [Tentazione di Sant’Antonio, n.d.r.], il paradossale e nuovissimo inventore della coppia Bouvard-Pécuchet [protagonisti dell’omonimo romanzo, n.d.r.]. Ognuno poteva scegliere secondo le proprie tendenze e i propri gusti. Gide metteva l’accento, escludendo tutto il resto, sulle lettere. Du Bos doveva per forza rivolgersi all’Education, l’ingegnoso e sorprendente Queneau al Bouvard. Il giuoco andava avanti da molti anni, possiamo dire da almeno sessant’anni, e cioè dal periodo in cui si cominciava a registrare una certa stanchezza nei riguardi dello scrittore. Uno scrittore che per gran parte era finito nelle mani dei professori e degli eruditi e per cui la cura di un Dusmenil finiva per avere il sopravvento sull’intelligenza di un Thibaudet.

Flaubert aveva subìto – e in maniera notevolissima – i contraccolpi di un atteggiamento snobistico, secondo cui era meglio scegliere dell’opera di uno scrittore – tanto meglio, se considerato grande nell’opinione corrente – quelle parti in ombra, meno battute e che consentivano una lettura più attuale. Oggi siamo in grado di giudicare meglio un atteggiamento del genere e di vederlo nelle sue giuste proporzioni. Chi lo accettava, chi lo sposava si trovava in uno stato di soggezione e di timidezza di fronte alle grandi costruzioni, alle imprese impegnative. E non già perché mancassero effettivamente le forze ma perché era invalsa nei più l’idea che un certo modo di fare letteratura era finito, apparteneva a un passato grande ma irripetibile. Per questo certi libri hanno dovuto aspettare molto tempo prima che li potessimo riconoscere nella loro integrità.

Guardate quanto ha aspettato Flaubert, quanto tempo ha dovuto lasciare passare nelle famiglie dei suoi nipoti perché il suo nome non destasse più sospetto. Ancora nel Trenta [del secolo scorso, n.d.r.] Flaubert appariva sempre lontano, nel dopoguerra le cose dovevano peggiorare per forza e si arrivò al processo ideato da Sartre. E anche oggi che i pellegrinaggi riprendono con una fede di cui non possiamo per il momento che registrare l’intensità, la forza di partenza. Si ha la sensazione che troppe siano ancora le occasioni di equivoci e di malintesi. Valga ad ogni modo come augurio, come dato concreto di speranza la parte più seria di questi ritorni, l’impresa di Nadeau, il saggio di un nostro giovane francesista, Alberto Cento, La dottrina di Flaubert (al Cento dobbiamo anche l’edizione critica del Bouvard) e la traduzione lodevole di Camillo Sbarbaro nelle edizioni Einaudi.

Curioso sarebbe vedere che cosa sia per ora cresciuto all’ombra di Flaubert negli immediati dintorni della nuova letteratura di derivazione sperimentale e di obbedienza oggettiva. Non c’è molto, all’infuori di qualche tentativo dignitoso e anche nella parte positiva si intravvedono altre componenti più decisive di quella flaubertiana. Se mettiamo le mani fra gli ultimi libri che hanno suscitato qualche eco con probabilità di durare oltre il giro chiuso dei due mesi, dobbiamo ammettere che la ragione Flaubert è assente. Assente per Une douce mort très douce della Beauvoir, assente nell’altro curioso e insidioso best-seller La Bâtarde di Violette Leduc, uscito con l’avallo della grande sorella Beauvoir.

Questa letteratura di tono così diverso, così disuguale e che passa senza segni d’insofferenza dalla descrizione terroristica all’abbandono nel più degenerato romanticismo è il contrario del sogno di Flaubert, della grande letteratura di composizione e di equilibrio. Perché il punto vero della questione è proprio questo: noi da anni andiamo alla deriva, buttando tutto quello che ci capita sottomano sulla barca delle avventure, non pesando, non esaminando la natura degli oggetti o dei sentimenti che imbarchiamo, nell’illusione che per capire e dominare la vita basta soltanto prendere, accumulare e lasciare fare al tempo. Flaubert non lasciava fare al tempo, di qui il carattere sacro e drammatico della sua impresa, di qui il duplice aspetto della sua fatica, sacra e blasfema insieme. Questo comporta un ben diverso atteggiamento, una ben diversa presa di coscienza e assunzione di responsabilità. Per Flaubert si trattava di restare (e questa sua speranza per molti anni ha fatto ridere), per gli scrittori d’oggi – anche per quelli che lo venerano come un maestro – si ha il sospetto che nessuno creda più a quella possibilità e che la partita debba essere giocata subito. Perfino gli stessi che predicano un’altra estetica e hanno ripreso a segnare tra i dati essenziali quelli del “tempo”, perfino loro (almeno per il momento) non dimostrano d’avere la forza disperata, l’ambizione del recluso di Croisset, per cui la letteratura aveva mangiato la vita e la valeva».

(Carlo Bo, L’ombra di Flaubert, dalla “Rassegna di cultura francese”, in Terzo Programma, 2, ERI, Torino 1965).

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 11-12 2021 della versione cartacea di Articolo 33.