Ricorrenze / Ottobre

30 ottobre 1821

Dostoevskij, uno scrittore universale che non conosce tempo

Fëdor Michailovic Dostoevskij nacque a Mosca il 30 ottobre 1821 nell’Ospedale dei poveri Mariinskij, dove il padre lavorava come medico militare. La madre, Marija Fëdorovna Nečaevna, figlia di un mercante moscovita, era donna colta, amante delle lettere e della musica: malata di tisi, verrà a mancare nel febbraio 1837, lo stesso anno in cui Puskin rimase ucciso in duello. Due anni dopo, in circostanze drammaticissime, Fëdor perderà anche il padre. Questi, “possessore” di due villaggi – Darovoe e Cermašnaja – ubicati nella provincia di Tula, morì nel 1839, assassinato dai contadini della sua stessa tenuta. L’evento risulterà a tal punto traumatico per il futuro scrittore, che gli causerà quelle crisi di epilessia, dalle quali sarà tormentato per il resto della vita.    

Entrato nel 1838 nella Scuola militare superiore di Ingegneria, a Pietroburgo, quattro anni dopo passò alle dipendenze del locale Comando di Ingegneria militare, anche se le sue inclinazioni e i suoi interessi erano – fin da allora – tutti rivolti in altra direzione. Aveva infatti manifestato, fin da giovanissimo, uno spiccato interesse per il mondo delle lettere, al quale si era avvicinato attraverso la lettura di scrittori come Balzac e Schiller, Goethe e Hugo, Shakespeare e Byron, Puškin e Omero. Non a caso, dopo aver tradotto Eugénie Grandet, di Honoré de Balzac, che è da considerare il suo primo lavoro letterario, nel settembre del 1844, adducendo “motivi familiari”, dette le dimissioni dal servizio. Rientrato nella vita civile con il grado di tenente-ingegnere a riposo, poté finalmente dedicarsi a tempo pieno all’attività che egli considerava per sé più congeniale: quella letteraria.

L’esordio vero e proprio nel mondo delle lettere avverrà nel 1846 col suo primo romanzo Povera gente, scritto sulla scia di quella tendenza “naturalista” che era allora in voga in Europa. L’opera, nonostante la sua brevità, attirerà l’attenzione dei critici russi, tra i quali figurava il celebre Vissarion Grigorevič Belinskij, il quale salutò nell’Autore il “nuovo Gogol” della letteratura russa. Trovata la sua via, Dostoevskij fece seguire, a stretto giro, una serie davvero cospicua di racconti, i più famosi dei quali sono Il sosia (1846), L’affittacamere (1847), Le notti bianche (1848) e Netočka Nezvanova (1849). Tuttavia, a differenza di Povera gente, questi si segnalarono per quella introspezione psicologica che, destinata a divenire la cifra distintiva delle future grandi opere, sarà all’origine della rottura con il Belinskij.

Ma ben altre prove, in quegli stessi anni, attendevano Dostoevskij. Arrestato con l’accusa di cospirazione contro lo Stato e accusato di aver diffuso idee socialiste in Russia, venne condannato a morte insieme al gruppo di cui faceva parte: quello dei “petraševcy”. E così, il 22 dicembre 1849, in una fredda mattina pietroburghese, dalla fortezza dei Santi Pietro e Paolo fu tradotto – con i suoi supposti complici – presso il piazzale del reggimento Semënovskij. Qui, in attesa di essere giustiziato, trascorse i suoi ultimi tormentati momenti a riflettere sul senso della sua vita, tracciandone un conclusivo lacerante bilancio finale.

La condanna alla fucilazione, in realtà, si sarebbe rivelata una tragica farsa, crudelmente posta in essere dallo stesso zar, il quale, qualche istante prima dell’esecuzione, invierà un messo con un suo ordine, con il quale la condanna a morte di Dostoevskij veniva commutata in quattro anni di lavori forzati, da scontare nel reclusorio siberiano di Omsk. A questi, però, se ne dovevano aggiungere altri quattro, che lo scrittore avrebbe dovuto scontare a Semipalatinsk, situata a sud di Omsk, come soldato semplice senza diritto di promozione.

Concluso il 23 gennaio del 1854 il periodo trascorso in reclusorio, nel corso del suo soggiorno a Semipalatinsk, sposa, nel 1857 sposa Marija Dmitrievna Konstant, vedova Isaeva, e poco dopo, nel marzo 1859, ottenuto il congedo per motivi di salute, può tornare a circolare liberamente nelle grandi città della Russia. Si reca dunque dapprima a Tver’, poi a Pietroburgo, dove, mentre va elaborando grandiosi progetti letterari per il futuro, scrive – con spirito di divertissement – i racconti brevi Il sogno dello zio e Il villaggio di Stepancikovo (1859).

Ma l’esperienza del reclusorio era stata troppo forte per essere dimenticata; essa gli urgeva dentro, al punto da costringerlo a dedicarle un intero libro autobiografico, quasi liberatorio, che egli intitolò Memorie da una casa di morti (1861-62). Opera, questa, che segnerà una vera e propria svolta nella sua attività di uomo e di scrittore. Contestualmente, mentre collaborava, col fratello Michail e con i critici A.A. Grigor’ev e N. N. Strachov, alle riviste “Vremja” (“Il tempo”, 1861-63) e “Epocha” (Epoca, 1864-65) dava alla luce una serie di libri, alcuni dei quali di straordinario valore, che per alro aveva scritto nel giro di poco tempo: da Memorie del sottosuolo (1864) a Umiliati e offesi (1866), da Delitto e castigo (1866) a Il giocatore (1867). Un evento significativo, sul piano privato, sarà il suo nuovo matrimonio, celebrato nel febbraio 1867, con la ventenne Anna Grigor’evna Šnitkina, che aveva iniziato a collaborare con lui in veste di segretaria.

Dal 1867 al 1871 intraprese, con la moglie, una serie di viaggi, che lo condussero in Svizzera, Germania e l’Italia. Nonostante fosse stanco per il suo lungo girovagare e preoccupato per il carico di debiti che aveva accumulato a seguito della sua sfrenata passione per il gioco, egli aveva tuttavia mantenuto fede ai suoi impegni letterari, contratti soprattutto con gli editori, come dimostra la composizione all’estero di un nuovo libro, L’idiota (1868-69), parte del quale era stato scritto in Italia. Nell’ambito di questa sorta di furore letterario da cui era pervaso, nel 1868 concepisce l’idea di dar vita a un ciclo di cinque romanzi, il cui titolo avrebbe dovuto essere L’ateismo. In una lettera del marzo 1870, indirizzata all’amico Majkov, aveva precisato che i «cinque grandi racconti […] indipendenti l’uno dall’altro”, avrebbero dovuto essere unitari nell’ispirazione». Il ciclo avrebbe dovuto costituire il fulcro di quel problema che lo aveva “tormentato tutta la vita”: l’esistenza di Dio. Esso, in realtà, si comporrà di soli quattro romanzi, L’idiota (1868-69), I demoni (1871-72), L’adolescente (1875), I fratelli Karamazov (1879-80), passando alla storia della letteratura come La vita di un grande peccatore.

Intanto, aveva iniziato a collaborare, a partire dal 1° gennaio 1873, con il giornale “Il Cittadino”, nel quale dirigeva, nella veste di redattore, un’apposita rubrica dal contenuto vario, come dimostrano i generi vari cui si ispirava: novelle, note di costume, lettere di risposta ai lettori, apologhi, fiabe. Tale vastità e pluralità di interessi, caratterizzata da una serrata dialettica dei contenuti, è da interpretare come il segno di quella inquietudine esistenziale che è poi la prova più cospicua della sua sofferta ricerca del senso della vita. In essa, il mondo delle idee si misurava infatti con una realtà che, colta nel suo libero fluire, veniva percepita come irrimediabilmente caotica e contraddittoria, come del resto lo scrittore non manca di denunciare anche nel suo Diario di uno scrittore (1872-76 e 1881), opera nella quale però appare più chiara e leggibile la sua concezione retriva e reazionaria della vita. 

Al culmine della notorietà, dopo la composizione de I Karamazov, Dostoevskij si spense a San Pietroburgo il 28 gennaio 1881. Dalla lettura delle sue opere appare evidente come egli, dall’originario realismo, caratterizzato dall’osservazione della “realtà” esterna quale essa è, era successivamente approdato a una visione più articolata e complessa arricchita dalla sfera dell’interiorità, quest’ultima divenuta il vero fondamento della sua visione politica, morale e religiosa della vita. “Il cuore dell’uomo”, come egli dirà, era divenuto il vero “campo di battaglia” sul quale era valso impegnarsi. Di qui il prevalere, nelle sue opere, del dialogo sulla parte narrativa, del sentimento tragico dell’esistenza sulla letterarietà pura. I suoi personaggi vivono infatti come sospesi su un vuoto che, puntualmente, si converte in una irreparabile caduta. Di qui il giudizio di quanti lo hanno equiparato ai tragici greci. Oppure, come ha scritto Harold Bloom, «il genio di Dostoevskij si manifestava al meglio nella drammatizzazione dei caratteri e delle personalità, e mi sembra che egli abbia con Shakespeare un’affinità più profonda di quella che, finora, la critica ha rilevato».

Amadigi di Gaula 

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