Politiche educative

28 febbraio 2023

Ecco perchè il merito non è affare della scuola

Un gran parlare di merito. Un gran citare grandi pensatori e intellettuali che abbiano parlato di merito seppur con opposte accezioni. Ma alla fine della fiera un grande vuoto. Non si approda a nulla in termini di chiarezza salvo scoprire che fior di conservatori o addirittura reazionari, in posizione di maitres à penser o di politici con potere parlamentare o ministeriale, interpretano il merito (incredibile a dirsi) come uno strumento di riscatto di classe, di perseguimento dell’obiettivo di una reale uguaglianza sociale (vedi dichiarazioni di qualche mese fa del Ministro dell’Istruzione in un’intervista al Corriere della sera).

Ma perché proprio i conservatori e i reazionari hanno “il coraggio” di pronunciare la parola “classe” mentre questa parola è ormai espunta dal vocabolario di chi si professa di sinistra?

La spiegazione ci sembra questa: se a pronunciarla è persona di destra nessuno la accuserà di avere una visione classista della società, perché si sa che tale persona, anche quando si avventura ad evocare l’esistenza delle classi nella società, lo fa per esprimere uno stato di natura contro cui non si deve lottare ma per cui anzi si deve operare per mantenerla come voluta da Dio e dagli uomini dalla notte dei tempi. Al contrario, se lo fa una persona di sinistra (o professantesi tale) scatterà immediatamente lo stigma: “ecco il solito comunista, il comunista occulto che non ha mai dismesso l’ideologia nefasta della lotta di classe che ha portato tanti lutti all’umanità”.

Per evitare questa tremenda accusa la persona di sinistra aggira accuratamente perfino la parola, la terribile parola, “classe”, per cui nel suo vocabolario non esistono più scuola di classe, società di classe, lotta di classe. Esistono invece le più accettate e neutre parole come disuguaglianze, povertà, diritti, inclusione, nella forma di “lotta alle disuguaglianze, per i diritti e per l’inclusione” e “per ridurre la povertà”. Una declamazione, quest’ultima, più da Papa Francesco che da laica persona che si voglia di sinistra. E magari, per non essere da meno di nessuno dei pensatori, di sinistra o di destra poco importa, si cita l’art. 3 comma 2 della Costituzione: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli”. E così siamo tutti d’accordo e con la coscienza a posto. Chi, infatti, non vuole rimuovere gli ostacoli per sviluppare pienamente la persona umana, far partecipare i lavoratori alla vita democratica e perseguire libertà e uguaglianza? Si può scommettere che lo sarebbe perfino l’attuale Presidente del Senato che pure tiene come sacro sul suo comò il busto del fondatore del fascismo che invece nell’Enciclopedia italiana (anni trenta del novecento), alla voce “fascismo”, scritta da lui medesimo, così scriveva: “dopo il socialismo, il Fascismo batte in breccia tutto il complesso  delle ideologie democratiche e le respinge…il fascismo...afferma la disuguaglianza irrimediabile e feconda e benefica degli uomini che non si possono livellare attraverso un fatto meccanico ed estrinseco come il suffragio universale”. Qui si parla del suffragio uguale, ma l’uguaglianza qui negata si nega conseguentemente per ogni aspetto della vita delle persone. Il fascismo insomma come negatore non dico dei principi del socialismo (parola che il maestro di trasformismo amò fino al 14 e riscoprì nel ’43 con la repubblica sociale) ma dei principi dell’89.

Ora, il fatto è che dopo il secondo ’89, quello del novecento, anche la nostra Costituzione ha subito una, come dire?, “riqualificazione” che rifugge, deve rifuggire, da una connotazione di classe della società.

In una illuminante intervista al Presidente della Costituente Umberto Terracini, realizzata dal giornalista Pasquale Balsamo nel 1977 avente ad oggetto la nascita della Costituzione repubblicana, il padre costituente afferma: “debbo ricordare a questo proposito (a proposito della gerarchia dei valori) e ripetere che questa costituzione è stata concepita in senso democratico, “ma” (virgolette nostre) per operare nel quadro della società esistente, dove la proprietà ha un ruolo indubbiamente prevalente (pag 42 del libro “Come nacque la costituzione Editori Riuniti”). E ancora, nello stesso libro a pag. 44: “diciamo che la costituzione è nata fra un sistema nel quale non è assolutamente possibile realizzare in pieno gli obiettivi delle classi lavoratrici (corsivo nostro) e un forte spirito innovatore che promana dall’incoraggiamento implicito della Costituzione ad operare perché si realizzi il maggior numero possibile di quegli obiettivi”.

Le citazioni del nostro padre costituente ci servono per dire che solo dallo spirito con cui si vive la costituzione dipende se si perseguono davvero gli obiettivi dell’articolo 3 comma 2: uno spirito, a sentire Terracini, di classe, pur nella consapevolezza che siamo in un quadro economico sociale in cui la proprietà privata sancisce che il valore creato non appartiene alla società ma solo a chi è possessore dei mezzi di produzione rimanendo, sì, il lavoro forza creatrice di quel valore ma pur sempre degradata a forza lavoro che è merce che può essere o non essere utilizzata a seconda delle scelte del proprietario.

Da queste riflessioni deriva un discorso sulla scuola e il merito che finalmente può uscire dall’ideologia e camminare con i piedi per terra.

La disuguaglianza scorre nelle vene della società basata sul modo di produzione capitalistico e  sulla  conseguente appropriazione privata del valore , la disuguaglianza  è l’architrave di questa società. Da qui un parlare a vuoto di merito se non si accetta che il merito è stabilito da chi può menare la danza sociale perché ne ha facoltà e potere. Soccorre certo il discorso (evocato da Trentin e più volte riproposto) che a partire dall’illuminismo si è rifiutato il merito che non fosse ascrivibile alla formazione e alla conoscenza. Si fa un passo avanti, non è più il privilegio a stabilire il merito ma la competenza che segue alla conoscenza; ma la società odierna, dove la società civile ha libero corso e detta l’agenda alla politica (la società dell’economia politica), ha sostituito al privilegio di sangue il privilegio di classe: in essa, cioè nella nostra presente società, vige il diritto uguale per tutti e non i diritto diseguale che si piega e si modella sui bisogni diseguali delle persone.

Allora occorre dirlo: nella società attuale, basata sulla disuguaglianza strutturale derivante dalla struttura economica imperniata sulla divisione, giuridica e di fatto, fra possidenti e non possidenti, il merito è stabilito dalla proprietà.

La scuola, dunque, è sotto attacco da decenni (dal 68, da Don Milani in poi) proprio per questo: rilutta a farsi strumento di selezione, interpreta la sua missione sociale come infrastruttura che vuole rovesciare il canone del merito perché il corpo largo della docenza e della dirigenza  rifiuta l’ideologia della classe dominante che vorrebbe imporre il criterio del merito, inteso come criterio di classe; il criterio cioè secondo cui esiste un percorso, un obiettivo, uno standard, quello che la società di classe ha stabilito, e tu ad esso ti devi piegare se vuoi essere ritenuto meritevole di aiuto. La scuola rifiuta questo discorso: test, voti, selezione sono rifiutati perché sono diventati fini e non mezzi, quando, invece, agli occhi dei docenti e il fine è uno solo, far emergere i talenti e i doni naturali, far emergere le inclinazioni, irrobustire le attitudini, far crescere le capacità. E tutto ciò confligge con l’ultima frontiera (europea?), le competenze. Come se la scuola, facendo emergere inclinazioni, attitudini, abilità, capacità facesse altro che creare competenze. La competenza, così come viene da un po’ di tempo a questa parte declinata, è l’ultimo strumento per valutare il merito: si ha bisogno di forza lavoro qualificata da introdurre in produzione e la scuola da suscitatrice di talenti e capacità deve invece diventare sfornatrice di  pezzi belli e pronti per la produzione, produzione che non serve a sviluppare le forze produttive al fine di “estendere il processo di vita della società dei produttori” (Marx) ma serve ad incrementare indefinitamente le produzioni a fini di profitto (appropriazione privata di lavoro altrui non retribuito).

La scuola italiana, da Don Milani in poi, dunque, rilutta, e per questo è perennemente sotto attacco. Adesso sarebbe essa, la scuola, a non premiare il merito: ma non è questa la sua missione, perché la sua missione, ripetiamo, è far emergere doti, passioni, talenti, inclinazioni, attitudini, capacità, civismo. Ed è elaborare cultura. E la sua è una battaglia immane, perché essa è sola, combatte a mani nude con una società che le chiede di snaturarsi e rendersi promotrice di premialità, con una famiglia esplosa che le chiede di prendere il suo posto, con una società competitiva che la vuole modellare su se stessa, con mezzi poveri e male implementati.

La scuola prepara il più gran numero possibile di cittadini colti e capaci, ma poi è la società che applica i suoi criteri meritocratici, di classe, e ristabilisce i “meriti” (di classe), concetto estraneo alla pedagogia democratica. E, quando si dice che la scuola non consente più come una volta l’ascesa sociale, si dice una solenne falsità, dal momento che non è la scuola la responsabile del blocco dell’ascensore, ma è la società stessa che ha chiuso gli sbocchi.

Ecco perché riteniamo falsato tutto il discorso che si sta dipanando sui giornali e che si combatte a suon di articoli di intellettuali, pedagogisti, economisti, sociologi. Perché il merito non è affare della scuola, è affare della società, si modella sulle richieste sociali dove è la società civile, di per sé campo di guerra di tutti contro tutti, a dettare cosa sia il merito. E’ di questi ultimi mesi l’annuncio che il nuovo padrone di Twitter ha deciso di premiare il merito: licenziare qualche migliaio di dipendenti (si immagina tutti intellettuali o tecnici di un certo livello) e di tenerne solo alcuni…più produttivi. E la medesima cosa stanno facendo i padroni dell’algoritmo dovunque collocati.

E allora si lasci perdere la scuola in merito al merito. Lasciamo questo discorso ai nostalgici che ci vogliono far credere che la scuola post sessantotto non è più di qualità, non premia i meritevoli. Come se la scuola “di prima” facesse ciò…quella scuola, superata dal sessantotto, era una scuola di classe, modellata sui livelli di cultura richiesti dalla classe dominante. Semmai ancora la scuola non viene messa nelle condizioni di proseguire fino in fondo quel percorso

Con questo si vuol dire che la scuola non deve preparare alla vita, alla produzione, al sapere tecnico? Niente di più falso. Ma la scuola deve preparare, non addestrare. In questo senso va lasciata lavorare, deve essere una zona protetta (cardinale Martini) dove i suoi operatori sono liberi di impostare i percorsi dei saperi codificati e scelti dalla Repubblica per preparare cittadini, lavoratori, individui in grado di contribuire allo sviluppo sociale ma anche in grado di controllare il potere;  quel potere che invece vorrebbe controllarli (si veda l’ultimo intervento del Ministro del merito che rivolgendosi agli studenti a proposito della caduta del muro di Berlino imporrebbe la lettura della sua lettera ai docenti che invece non hanno nessuno obbligo di far arrivare la voce di un rappresentante di uno stato che da democratico si tramuterebbe in etico).

Gramsci affermava nei suoi quaderni dal carcere che il sapere diffuso fra le masse al più alto livello possibile deve mettere i lavoratori nella condizione di diventare dirigenti o di assurgere a controllori dei dirigenti e che, in quanto tali, lavoratori che controllano la dirigenza, non si “emancipano” dalla propria classe (come qualcuno invece ritiene) ma semmai la fanno diventare dirigente del processo sociale che supera l’alienazione indotta dalla spossessamento che si opera con la proprietà privata dei grandi mezzi di produzione.

Conclusivamente. Niente di più errato vi è nell’evocare la parola “merito” in fatto di istruzione e di scuola. Non è che non bisogna premiare (riconoscere con l’apprezzamento) chi si impegna, chi si sforza, chi mostra doti naturali e inclinazioni naturali per questo o quella branca del sapere anche nella scuola: ma il fatto è che la scuola non si può fermare qua, non si deve fermare qua, perché la scuola sa che occorre portare al più alto grado possibile tutti e ciascuno, indipendentemente dalle doti naturali e dai talenti (che pure vanno incoraggiati e riconosciuti). Perché se si si incoraggiano e si premiano solo i talentuosi e i dotati si fa una discriminazione basata solo sulla natura e non anche  sulla cultura. Per non parlare del fatto che spesso i talenti e le doti si trovano guarda caso proprio nei componenti delle classi più abbienti ( frutto del fatto che non vi sono pari opportunità “sociali”). La scuola personalizza e individualizza, forma e non  seleziona, suscita interesse e amore per il sapere e prepara cittadini. La selezione, di classe, avviene poi fuori dalla scuola, quando ogni ragazzo rientra nei “ranghi sociali”.

E quelli che provengono  dai ranghi bassi della società sono in massa talmente ben preparati che poi….emigrano. La prova del fatto che la scuola e l’istruzione in generale svolgono dignitosamente il proprio lavoro sta nelle centinaia i migliaia di nostri diplomati e laureati che, non supportati dalla conoscenze familiari, vanno all’estero per esercitare talenti e doni e capacità che la scuola ha saputo suscitare e coltivare.

La scuola, con buona pace di chi sogna quella pre/sessantotto, inventandosene una “di qualità” preesistente a quell’anno, se lasciata lavorare e  incoraggiata con vicinanza investimento valorizzazione del personale, lavora per l’uguaglianza, intesa come valorizzazione di tutti. E il merito di cui parla la costituzione, parametrato alla scuola, è cosa ben diversa di quello che si pratica nella società, anche perché solo nella scuola avviene quotidianamente lo sforzo di attuare il famoso comma 2 dell’articolo tre.

La scuola, pur nelle pessime condizioni in cui viene lasciata, si sforza di creare persone libere attraverso percorsi diversi e non uguali ( a ciascuno secondo i suoi bisogni formativi), è la società di classe che poi discrimina tramite criteri che di per sé sono basati su un diritto uguale fra  disuguali. E alla scuola non bisogna chiedere di non essere la scuola e di diventare società come vorrebbe chi alla parola istruzione affianca quella di merito.

Manca in questo discorso l’analisi delle insufficienze della scuola. Volutamente. Perché vorremmo che, quando si parla di scuola, non si cominciasse con la solita litania sulla docenza impreparata, sulla docenza non selezionata, sulla docenza rimasta a insegnare “frontale”, sulla docenza non formata. C’è questo, sì, ma non è qui il cuore del problema. E’ in quell’altrove di cui abbiamo parlato.

L'autore

Armando Catalano