La rivista

Tempi moderni

La famiglia patriarcale in "Natale in casa Cupiello" tra mito e realtà

“Se in una commedia vi sono due,
cinque, otto personaggi, il nono per

me è il pubblico: il coro. È quello
a cui do maggiore importanza perché
è lui, in definitiva, a darmi le vere
risposte ai miei interrogativi”.

(E. De Filippo, Nota a I capolavori di Eduardo, voll. I-II, Einaudi, Torino 1973)

Il Natale, a Napoli, gode di una popolarità che non conosce eguali in nessun’altra parte del mondo. Le coordinate spaziali e temporali di quella che, insieme con la Pasqua, è considerata la festa più importante dell’anno liturgico sono state così riassunte da un napoletano doc quale è Giuseppe Marotta:1 «Natale, a Napoli, è la più lunga festa dell’anno: comincia fin dagli ultimi giorni di novembre, forse col primo sbattere di un’imposta aggredita dal vento di terra, quando alla madida luna delle notti di scirocco subentra improvvisamente quel gelo pulito e fermo, di cristallo, che denuda gli astri e le montagne […]».

Segue, da parte dello scrittore partenopeo, la cronaca minuziosa della metamorfosi cui è sottoposta la città intera, in questa particolare occasione: «La gente è d’improvviso raddoppiata nelle vie; fra poco le bancarelle scacceranno ogni veicolo da Toledo: a Natale, Dio si fa uomo proprio perché gli uomini, nobili o straccioni, si impadroniscono di Napoli eliminandone tutto quello che non è “pasta reale”, zampogna, baccalà, bengala, capitone, presepio, cambiale, mandarino, speranza, pignoli, numero del lotto e cappone».

E tuttavia non solo di coralità popolare si tratta. Questo modo di festeggiare si accompagna infatti ad un processo di “teatralizzazione” della città, la cui spiegazione dobbiamo a Maurizio Giammusso,2 biografo di Eduardo De Filippo. Nel periodo prenatalizio, egli argomenta, se la città appare come un “teatro in presa diretta”, quello che accade sul palcoscenico ha per naturale amplificata scenografia “tutta la città”.

Da questo punto di vista, chi meglio di ogni altro ha saputo artisticamente interpretare la dimensione biunivoca di tale rapporto è stato senza alcun dubbio Eduardo De Filippo, autore di Natale in casa Cupiello, una commedia nella quale serietà di intenti e la sequela di battute umoristiche si susseguono in modo scoppiettante. Trasponendo il presepe, rispecchiamento della famiglia di Nazareth, nel teatro del mondo, e viceversa, il grande commediografo, attraverso l’antitesi tra raffigurazioni così diverse, ci offre mix davvero originale, caratterizzato dall’interscambio continuo tra sacro e profano, “mito” e realtà, riso e pianto. E tuttavia va osservato che, pur in un contesto così commisto di elementi contrapposti, un punto fermo nella commedia pure esiste: esso è rappresentato dal “presebbio”. È questo il metro sul quale misurare le dinamiche interne alla famiglia Cupiello, prototipo della famiglia in quanto “struttura”, intesa quindi da Eduardo in senso generale, di cui vengono denunciate contraddizioni e ipocrisie, sempre però nel novero di un sentimento di genuina comprensione e umana - umanissima - partecipazione.

Del resto, che la festa del Natale non fosse per Eduardo una questione meramente occasionale ci è confermato dalla poesia A vita, scritta nel 1931, l’anno stesso della composizione del Natale in casa Cupiello. In essa, alle tematiche di carattere esistenziale, egli aggiungeva un significativo riferimento al presepe, il cui significato era connaturato alla sua stessa dimensione interiore: «[…] Spara sti botte, / alluma sti bengale, / arust’e capitune, / ch’è Natale! / Ncoll’e pasture! […]».3

Del rapporto esistente tra arte e vita in Eduardo ci dà del resto conto Ennio Flaiano. Circa un trentennio dopo la composizione della commedia, egli avrebbe non a caso osservato che, per il commediografo napoletano, il teatro non era solo un genere letterario; era piuttosto «un genere di vita, un modo per arrivare alla verità per tentativi che coinvolgevano l’esistenza».4, Non deve dunque stupire se in Eduardo la contaminazione dei “generi” conviva con una concezione della dialettica della vita, realizzata attraverso la contrapposizione dei personaggi, in primis quello di Luca Cupiello e della moglie Concetta. Il primo, dedito totalmente al culto del presepio, è una sorta di monade che insegue una visione meramente idealistica e trascendente della famiglia; la seconda, prototipo di una dimensione prosaica della vita, è la classica espressione della madre che, per necessità, è portatrice di una visione disincantata e crudamente realistica della vita. I personaggi minori, a loro volta, sono delle esistenze che, seppure immerse nei loro piccoli - o grandi - drammi quotidiani, sono parte integrante dello spirito generale della commedia. In tale contesto i figli, ad esempio, appaiono legati a doppio filo alla madre. Non a caso contestano in modo insistito e monocorde il padre, del quale rifiutano l’entusiasmo monomaniacale per il presepe, ovviamente inteso nel suo senso simbolico.

Ebbene, dallo scarto che si viene a determinare tra il piano ideale e quello reale si insinuano le forme del dramma, di cui è artefice la figlia Ninuccia. Luca infatti, in un nesso tra causa ed effetto, dapprima si ammala, poi, alla fine del terzo atto muore per le conseguenze, senza tuttavia mai deflettere dal suo visionario incondizionato amore per il “presepe”. Per i Cupiello, insomma, il Natale non è stata l’occasione quasi taumaturgica - nonché lungamente attesa - per la quale, come è nello spirito di quella specifica festa, l’odio dovrebbe convertirsi in amore, il pianto in riso, l’egoismo in partecipazione. Al contrario, è stato il momento rivelatore perché uscissero allo scoperto tensioni e contrasti, evidentemente pregressi e mai effettivamente metabolizzati.

A conferire un alone tutto particolare alla commedia ha infine contribuito non poco l’adozione, da parte di Eduardo, del vernacolo. A proposito di tale sua scelta stilistica, molti anni dopo, in una Nota premessa alla sua traduzione della Tempesta di William Shakespeare, parlando del Natale in casa Cupiello, egli avrebbe osservato: «Quanto al linguaggio, come ispirazione ho usato il napoletano seicentesco, ma come può scriverlo un uomo che vive oggi; sarebbe stato innaturale cercare una aderenza completa ad una lingua non usata ormai da secoli. Però… quanto è bello questo napoletano antico, così latino, con le sue parole piane, non tronche, con la sua musicalità, la sua dolcezza, l’eccezionale duttilità e con una possibilità di far vivere fatti e creature magici, misteriosi, che nessuna lingua moderna possiede più».5

Questa esigenza di “attualizzazione” stilistica, così fortemente avvertita, trova d’altro canto riscontro nelle varie edizioni del Natale, con le quali Eduardo ha cercato di avvicinare il dialetto napoletano all’italiano, onde rendere la commedia accessibile a un pubblico più vasto, di dimensione insomma nazionale.6

La struttura “aperta” della commedia e il suo significato
Dal punto di vista della critica, ci sono molte ragioni per affermare che la commedia Natale in casa Cupiello rappresenta uno spartiacque all’interno della produzione teatrale di Eduardo. In essa infatti appaiono, seppure in nuce, taluni motivi topici che poi caratterizzeranno alcuni dei capolavori successivi, da Napoli milionaria! (1945) a Filumena Maturano (1946), per giungere fino a Le voci di dentro (1948).7

La prima di queste ragioni è rappresentata dal modo in cui Eduardo rappresenta i suoi personaggi. Questi appaiono come chiusi in una sorta di solipsismo, che - temperato da una permanente vena di “umorismo” - si rifà, come rileva Giammusso,8 a Luigi Pirandello, conosciuto da Eduardo nel 1933.

La seconda ragione riguarda, come si è detto, il contrasto tra sogno e realtà. Se da una parte è giusto affermare, come fa Anna Barsotti,9 che «l’anti-eroe Cupiello si ostina fino alla morte a costruire le scene del suo Presepe familiare e sociale», dall’altra è lecito sostenere che un altro anti-eroe, il Gennaro Jovine di Napoli milionaria!, attende con stoico realismo - in un’Italia quale è quella cupa e incerta del secondo dopoguerra - lo svolgimento degli eventi alla luce della celere espressione “Ha da passà ‘a nuttata”.

Con riferimento a Natale in casa Cupiello, c’è poi anche una terza ragione, la quale è sicuramente la più problematica di tutte. Essa riguarda il carattere “aperto” della commedia. Originariamente concepita come atto unico, essa, come è noto, era stata scritta soprattutto per soddisfare i  gusti di un pubblico semplice e senza pretese, qual era quello che era uso frequentare il teatro dell’avanspettacolo. 10 E in tale veste il Natale fece il suo esordio nel Cinema-Teatro Kursāal di Napoli, il 25 dicembre del 1931, rappresentato dalla famiglia-compagnia “Teatro Umoristico I De Filippo”.11. Va anche detto che la commedia, che avrebbe dovuto essere recitata per soli nove giorni, resterà in cartellone fino al successivo 21 maggio 1932, a seguito dell’inaspettato successo di pubblico ottenuto. Di conseguenza Eduardo, nel 1932/33 - dopo che i De Filippo, abbandonato il “genere” dell’avanspettacolo, erano passati a recitare presso il Sannazzaro di Napoli -, si decise di aggiungere, all’originario atto unico, un secondo atto.12 La composizione dell’atto conclusivo, il terzo, avvenuta probabilmente nel 1934, oltre ad essere stata più laboriosa, era stata anche contrastata da Peppino, il fratello di Eduardo.

Quest’ultimo, nel 1936, così riepilogherà la genesi e lo sviluppo di quella sua prima commedia: «Questo mio lavoro è stato la fortuna della compagnia, dopo Sik-Sik, s’intende. Ebbe la sua prima rappresentazione al Kursāal di Napoli; allora non era che un atto unico, ed è tanto strana la sua storia che vale la pena di raccontarla. L’anno seguente, al Sannazaro, teatro della stessa città, scrissi il primo atto, e diventò due. Immaginate un autore che scrive prima il secondo atto e, a distanza di un anno, il primo. Due anni fa venne alla luce il terzo; parto trigemino con una gravidanza di quattro anni! Quest’ultimo non ebbi mai il coraggio di recitarlo a Napoli perché è pieno di amarezza dolorosa, ed è particolarmente commovente per me, che in realtà conobbi quella famiglia. Non si chiamava Cupiello, ma la conobbi».13

Ebbene, ad onta della composizione stratigrafica nonché della varietà dei “generi” trattati - che in sequenza vanno dalla “farsa” al “dramma” –, il Natale mantiene una indubbia unità di tempo, “costituita dalla ‘soggettività’ di Luca”, e una  sostanziale “omogeneità”, che così vengono ulteriormente esplicitate dalla Barsotti nella Nota storico-critica premessa alla raccolta eduardiana da lei curata per Einaudi:14 «Nella diacronia strutturale del testo, ciascuno dei tre tempi  simula appunto una “tappa” del viaggio esistenziale del protagonista, compresso in poche significative giornate, come dimostra anche l’indicazione puntigliosa dell’orario: le nove del mattino del 23 dicembre; le 21 circa della Vigilia; tre giorni dopo quella disastrosa Vigilia di Natale [il corsivo è nel testo]».15 

Ma, al di là di talune modifiche apportate da Eduardo al copione - riguardanti sia le didascalie che il testo - un aspetto è davvero di capitale importanza, in quanto afferisce al significato generale da attribuire alla commedia: esso riguarda il finale. Ad esempio, nella versione televisiva del 15 gennaio 1962, a Ninuccia che, quasi a conclusione del III atto, chiede al dottore quali siano le condizioni del padre colpito da ictus, il dottore non si limita solo a esprimere un parere di carattere professionale; lascia anche intravvedere un barlume di speranza riguardo a un possibile decorso positivo della malattia del padre. Vi aggiunge poi un profilo psicologico del malato che, concepito secondo un nesso di causa ed effetto, cerca in qualche modo di connettere la monomania visionaria di Luca alla malattia: «Cara Ninuccia, io ti conosco bambina… non ti posso ingannare. Luca Cupiello è sempre stato un grande bambino che considerava il mondo un enorme giocattolo… quando ha capito che con questo giocattolo si doveva scherzare non più da bambino ma da uomo… non ha potuto. L’uomo in Luca Cupiello non c’è. E il bambino aveva vissuto già troppo».

Nella versione televisiva del 25 dicembre 1977, invece, che segue il testo della raccolta della Barsotti,16 a Ninuccia che chiede notizie del padre, il dottore risponde, a mo’ di conforto: «Non bisogna disperare. Certo la batosta l’ha avuta piuttosto pesante, ma ho visto dei casi peggiori che si sono risolti abbastanza bene». Poi però, parlando separatamente con il fratello di Luca, Pasquale, che gli chiedeva se il giorno successivo sarebbe passato a visitare il malato, gli risponde pessimisticamente, non nascondendogli la verità: «E che vengo a fa’? […] Solo un miracolo…. Ma non ce la può fare».

A proposito di questa duplice conclusione Giammusso,17 dopo aver evidenziato come lo stesso Eduardo, in quegli anni, avesse espresso più di qualche perplessità sulla fine da riservare al protagonista della commedia, da parte sua ha osservato: «Luca muore e deve morire anche se suscita pietà. […] Egli è vittima per essersi prestato al gioco di illusioni infantili. Il presepe è una specie di droga […] che paralizza la fantasia e distoglie dalla realtà del vivere quotidiano. […] Con un sorprendente ribaltamento ideologico, l’autore dice che Luca è colpevole perché non si dà conto della situazione precaria in cui si trova […] e che il suo presepe è il simbolo del popolo incosciente dei propri problemi. L’inversione di significato è ancora più marcata qui che in altri casi nella lunga vita di Eduardo».

La questione della conclusione, come facilmente si comprende, non è dunque di dettaglio. È al contrario di sostanza, in quanto investe il giudizio riguardante il “genere” - comico o drammatico? - entro il quale ascrivere la commedia.   

Il genere “tragi-comico” in Natale in casa Cupiello
Anna Barsotti, 18 ad esempio, ha optato per una classificazione mediana, parlando di “tragi-comico”. Ella ha poi osservato: «Natale in casa Cupiello si trasforma nella drammatizzazione sempre più esclusiva del “soggettivo “Presebbio” del protagonista. Una costruzione del mondo quotidiana ed utopica (come è quella dei tradizionali presepi napoletani». 

Ella poi, onde rendere ancor più verosimile il suo giudizio sul “genere”, istituisce un’ardita analogia tra il mondo fantastico di Luca Cupiello e quello “folle” di Don Chisciotte: 19 «Come Don Chisciotte - ella ha osservato -, Lucariello è un costruttore di sogni: in ciò si differenzia dagli altri, da coloro che ai sogni non vogliono credere (Nennillo) o non credono più (Concetta)». Infine, con riferimento a Don Chisciotte, rifacendosi al pensiero di Propp aggiunge:20 «Don Chisciotte è una figura spiccatamente positiva […] ma per la sua completa incapacità di adattarsi alla vita egli è ridicolo». Il “cavaliere dalla triste figura” insomma, per la studiosa, non è comico «per le sue qualità positive», ma «per quelle negative»; quelle stesse che hanno fatto di lui “una figura universalmente popolare”.

Nel caso del Natale ci permettiamo tuttavia di osservare, che, dal punto di vista formale, la definizione di “tragi-comico” dovrebbe essere corretta con quella, a nostro parere più congrua, di ’“umoristico”, da interpretare, ben inteso, in senso pirandelliano. Tale “genere” infatti, fondato sul “sentimento del contrario”,21 è quello che maggiormente dispone lo spettatore tanto al riso quanto al pianto, così come per l’appunto accade - almeno ci sembra - seguendo le vicende della famiglia Cupiello.

Dal punto di vista del contenuto, inoltre, pur ritenendo fondata l’analogia proposta dalla Barsotti, crediamo che debbano anche essere messe in evidenza le differenze dei due personaggi in questione.  “Lucariello” infatti condivide con il grande hidalgo l’età ma non il blasone, il candore ma non la cultura, il sogno ma non l’eloquenza. In più, mentre Don Chisciotte agisce nel più rigoroso rispetto del codice cavalleresco, anacronisticamente “attualizzato” in ragione della sua “follia”, Luca si muove sull’abbrivio di una passione sconfinata, a tratti quasi allucinata, per il presepe. Non a caso il punto di caduta di tale differenze è quella che riguarda il differente modo in cui i due si dispongono ad affrontare “l’ultimo passaggio”. Mentre infatti “il cavaliere dalla triste figura”, da “pazzo” che era, rinsavisce prima di morire, Luca, al contrario, non rinsavisce neppure di fronte all’estremo, rimanendo fedele, fino alla fine, quello che era sempre stato: un visionario.

Il destino individuale di Luca assume poi una sua ben più specifica consistenza se viene rapportato alla temperie storica di cui esso è parte. Va infatti ricordato che i tre atti della commedia furono composti - e rappresentati - tra il 1931-1934, in dialetto, quando il fascismo si era ormai saldamente insediato, trincerandosi dietro la propagandistica roboante triade di “Dio Patria Famiglia”. 

Ebbene, se osservata dalla prospettiva eduardiana, la famiglia rappresentata nel Natale ci appare quanto meno come la “parente povera” di quella triade, minata com’era da talune crepe “strutturali” che ne evidenziavano, al di là di ogni retorica, la crisi di cui era vittima.

Ma c’è un altro elemento, più storico-letterario che sociologico, che deve essere attentamente considerato: è quello che attiene alla dimensione della “popolarità” in arte. Proprio negli anni in cui Eduardo scriveva il Natale, Antonio Gramsci, nei Quaderni del carcere, così enunciava il suo Concetto di nazionale-popolare”: «Non esiste, di fatto, né una popolarità della letteratura artistica, né una produzione paesana di letteratura “popolare” perché manca una identità di concezione del mondo tra “scrittori” e “popolo”, cioè i sentimenti popolari non sono vissuti come propri dagli scrittori, né gli scrittori hanno una funzione “educatrice nazionale”, cioè non si sono posti e non si pongono il problema di elaborare i sentimenti popolari dopo averli rivissuti e fatti propri».22

Ebbene, se applicato a Eduardo - uomo e scrittore, regista ed attore - tale giudizio, trova un suo innegabile inveramento. Chi più di lui, infatti, come dimostra un po’ tutta la sua produzione artistica, ha cercato di unire lo “scrittore” al “popolo” e, soprattutto, ha “elaborato” i sentimenti non in astratto, ma in concreto, “dopo averli rivissuti e fatti propri”? Tale connubio viene vieppiù rafforzato se si tiene conto della “funzione” da assegnare alla letteratura secondo le linee teoriche elaborate dal grande intellettuale sardo, il quale, in Il pubblico e la letteratura italiana, ulteriormente precisava: «La letteratura deve essere nello stesso tempo elemento attuale di civiltà e opera d’arte, altrimenti alla letteratura d’arte viene preferita la letteratura d’appendice che, a modo suo, è un elemento attuale di cultura, di una cultura degradata quanto si vuole ma sentita vivamente».

Ed è proprio in questa luce che va inquadrata un po’ tutta la produzione teatrale di Eduardo, a proposito della quale Giorgio Prosperi ha affermato: «De Filippo rappresenta coi suoi personaggi, anzi col suo personaggio, lo stupefatto aggiornamento della maschera di Pulcinella di fronte agli egoismi, alle ingiustizie, alle assurdità logiche della società contemporanea. Con Eduardo il teatro popolare, che ha un ruolo contrappuntistico così rilevante nella storia del teatro italiano, si solleva dai conflitti elementari in chiave comica o tragica, che gli erano propri, per sfiorare, e a volte centrare, una realtà più complessa, una tematica più sottile, una psicologia più accorta; e dal dialetto tende infatti alla lingua (Le voci di dentro) con un processo interno che lo avvicina, senza svisarlo, alle manifestazioni più mature del teatro contemporaneo».23

Sul piano comparativo, ci è utile infine ricordare quanto uno studioso teatrale di assoluto prestigio, quale è stato Silvio D’Amico, ha scritto a proposito del dramma pirandelliano Sei personaggi in cerca d’autore, che è di poco antecedente al Natale: «Qui […] si vuole esprimere la tragedia della ‘incomunicabilità” tra uomo e uomo: della impossibilità, per ciascun essere umano, di uscire dal suo io, o da quello che crede il suo io, per manifestarsi a un altro nella propria realtà. Perciò, se scoprire allo specchio la vanità della propria maschera significa non poter più vivere, la tragedia dell’uomo è tuttavia proprio questa, che per illudersi di vivere l’uomo non ha altra risorsa se non affidarsi a cotesta maschera, a cotesta larva, come gli altri (o lui stesso) l’hanno forgiata».24

Ebbene, in contrasto con tale complesso processo psicologico, c’è da dire che Luca - il cui «attaccamento ad una “concezione paternalistica e patriarcale della famiglia” non comporta più la ‘mitica’ “riunione dei suoi membri” nel riconoscimento del “predominio dell’anziano”»25 non riesce affatto a scoprire “allo specchio la vanità della propria maschera”. Al contrario, nel più assoluto solipsismo, ne reitera il significato. Egli - non più che una parodia grottesca del pater familias tradizionale - non cessa insomma di indossarla fino all’ultimo, quasi a conferma della persistente bellezza del sogno, cui l’uomo, pur riconoscendolo irrealizzabile, non può rinunciare. E, del resto, come avrebbe potuto fare altrimenti? Troppo seducente era nel personaggio di Luca quell’utopia alla cui ombra era vissuto, troppo resistente il filo doppio che lo legava alla speranza.

Ed è forse proprio in ragione di questa problematica, rimasta come si è detto aperta e inconclusa, che la commedia ha riscosso un successo di popolo che sembra non avere limiti di tempo. Lo dimostra il fatto che, in anni passati, più volte Natale in casa Cupiello è stato rappresentato in televisione, in prossimità del Natale, quando non addirittura alla vigilia o a Natale stesso, facendo così riflettere, più che allietare, diverse generazioni di italiani. Quasi a riprova, verrebbe da dire, che senza il Natale non sarebbe stato Natale e che la famiglia, al di là del suo “mito”, non sarebbe stata la vera famiglia. Così come del resto accade, al di là delle finzioni, per molti altri aspetti della semplice e cruda vita umana.    

Invitiamo chi vuol avere maggiori informazioni sul presepe napoletano, con riferimento agli aspetti storici e antropologici, a consultare la bibliografia “non ragionata” che conclude il libro di Edoardo Petrone Suggestioni presepiali. Viaggio a Napoli nei luoghi del presepe tra sacro e profano, ieri, oggi e domani, La Valle del tempo Edizioni, Napoli 2023.

De Simone Roberto: Il Presepe popolare napoletano, Einaudi 1998;
Niola Marino: Il Presepe con illustrazioni della Scarabattola, L’Ancora del mediterraneo 2005;

Widmann Claudio, La simbologia del Presepe, Edizioni Magi 2004;
Niola Marino –Moro Elisabetta: Il Presepe, il Mulino 2022;
Canzanella Claudio, Razzullo e la Sibilla, La stamperia del Valentino 2006;
Presepe Napoletano, edizione numerata, di Franco Di Mauro, in formato 33x45, 1997.


[1] G. Marotta, L’oro di Napoli, Bompiani, Milano 1947.

[2] M. Giammusso, Vita di Eduardo, Mondadori, Milano 1993.

[3] Ora in Le poesie di Eduardo, Einaudi, Torino 1975.  Vale la pena di ricordare che Eduardo aveva intrapreso la sua carriera di scrittore, regista ed attore teatrale a partire dai primi anni Venti.

[4] E. Flaiano, “L’Europeo”, 1. settembre 1966.

[5] E. De Filippo, Nota del traduttore, in W. Shakespeare, La tempesta, traduzione in napoletano di E. De Filippo, Einaudi, Torino 1984. Anche il fratello di Eduardo, Peppino, allontanandosi a sua volta dal dialetto stretto, nelle sue opere si era adoperato a “creare un teatro di parlato italiano medio, con inflessioni dialettali (ma non soltanto napoletane)”. Si veda R. De Monticelli, in “Corriere della Sera”, 27.1.’80, ora in L’attore, Garzanti, Milano 1988.

[6] Una prova di questo “avvicinamento” è rappresentata dalle trasposizioni televisive della commedia a distanza di quindici anni l’una dall’altra. In quella del 15 gennaio 1962, della durata di 109 minuti e andata in onda in bianco e nero, gli attori si esprimono in italiano, costellato qua e là di inflessioni dialettali. Invece in quella del 25 dicembre 1977, a colori e della durata di 103 minuti, il linguaggio dominante è il vernacolo napoletano.  

[7] La prima delle tre commedie fu rappresentata, per la prima volta, al Teatro San Carlo di Napoli il 25 marzo 1945, a guerra ancora in corso; la seconda al Teatro Politeama, sempre di Napoli, il 7 novembre 1946; la terza al Teatro Nuovo di Milano, il 1° dicembre 1948.  

[8] M. Giammusso, Vita di Eduardo, op. cit.

[9] Si veda A. Barsotti, Introduzione a E. De Filippo, Cantata dei giorni pari, a cura di, Einaudi, Torino 1998. La suddivisione delle opere in Cantata dei giorni pari (che raggruppa tutta la sua produzione fino allo scoppio della seconda guerra mondiale) e Cantata dei giorni dispari (di cui fanno parte le commedie scritte dopo il 1940) è stata operata dallo stesso Eduardo negli anni Cinquanta. La prima raccolta raggruppa tutta la produzione fino allo scoppio della seconda guerra mondiale; la seconda raggruppa le commedie scritte dopo il 1940. Tale divisione è stata operata dallo stesso Eduardo, rispettivamente in data 1958 e 1951. 

[10] Come dice il nome stesso, questi spettacoli, all’incirca della durata di 45 minuti, precedevano - ma per lo più seguivano - la proiezione del film in quel giorno in programma.

[11] Detta compagnia era composta dai tre fratelli De Filippo, Eduardo, Peppino e Titina.

[12] Esso corrisponde al primo atto dell’edizione definitiva, pubblicata in tre atti.

[13] In realtà, la data di composizione del terzo atto appare alquanto incerta. Essa, forse, risale al ’43.La Barsotti, in Eduardo, Einaudi, 2003, parla genericamente di figlio “sviluppatosi completamente nel successivo decennio di vita della compagnia”. Quanto ai due protagonisti della commedia, Luca e Concetta, Eduardo sembra essersi rifatto ai suoi nonni.

[14] A. Barsotti, Introduzione a E. De Filippo, Cantata dei giorni pari, op. cit.

[15] Nella sua ricostruzione, l’autrice si rifà alle didascalie che Eduardo ha scritto come premessa ad ogni singolo atto.

[16] Il testo della Barsotti è anche lo stesso del volumetto unico pubblicato da Einaudi nella “collezione di teatro”: -E. De Filippo, Natale in casa Cupiello, Einaudi, Torino 1979.

[17] M. Giammusso, Vita di Eduardo, op. cit.

[18] Così la Barsotti in Introduzione alla Cantata dei giorni par, op. cit. La studiosa, nel suo giudizio, dice di essersi ispirata alle teorie di J. M. Lotman, La struttura del testo poetico, Mursia, Milano 1976.

[19] A. Barsotti, Ibidem.

[20] V. Ja Propp, Comicità e riso, Einaudi, Torino 1976.

[21] Si veda il saggio di L. Pirandello, L’umorismo, Mondadori, Milano 1976, ed. orig 1908.

[22] A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, vol. III, Torino 1975.

[23] G. Prosperi, in Italia, “Enciclopedia dello Spettacolo”, VI, col. 643.

[24] D. D’Amico, Storia del teatro drammatico, vol. II, Garzanti, Milano 1960

[25] Così A. Barsotti, in Introduzione a E. De Filippo, Cantata dei giorni pari, op. cit.

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David Baldini