Cultura

08 luglio 2021

Edgar Morin narratore del globale e del locale

Edgar Morin è un narratore del globale e del locale, del generale e del singolare.

Non ha mai rifuggito dalle prospettive più ampie, dalle visioni più sintetiche, dai punti di vista più panoramici. Ma ha posto la sua attenzione anche sui dettagli più minuti della vita quotidiana, sui modi in cui le idee prendono corpo nei vissuti e nelle esperienze di ogni persona.

Ha vissuto in profondità il ritmo e il senso della pulsazione storica del dopoguerra: le prime istituzioni europee comuni, le conquiste di libertà nei costumi e nei modi di vita, le nuove culture giovanili (Mai 1968. La brèche, 1968), i nuovi linguaggi globali (soprattutto la musica), i viaggi e gli incontri con altri stili di vita. Comprese più di ogni altro come, al di sotto di tante mode passeggere, al di sotto dell’etichetta “controcultura”, si stesse generando una nuova sensibilità alla dimensione planetaria della condizione umana (Journal de Californie, 1970). Ha creato nuovi campi di ricerca per la sociologia e l’antropologia, quando erano snobbati dal mandarinato accademico: l’industria culturale, la comunicazione (L’Esprit du temps, 1962). E il cinema, che come lui stesso ha osservato, non solo ha risvegliato in lui “l’interrogativo chiave di ogni filosofia” (Le cinéma ou l’homme imaginaire, 1956, p. 6; Les Stars, 1957), ma anche gli ha consentito di sviluppare un approccio transdisciplinare e complesso, perché “non c’è disciplina che il cinema non tocchi in profondità e che non rimetta in discussione. Il cinema è tale da rimettere in discussione ogni scienza che lo metta in discussione” (Le cinéma, un art de la complexité, 2018).

Dopo la fine della Guerra fredda, attraverso la catena di eventi culminati nel crollo del Muro di Berlino, parve delinearsi l’orizzonte di una “fine della storia”. Ma lui, al contrario, seppe subito leggere quegli eventi come segni di un impetuoso scongelamento, di “un nuovo inizio” della storia, che poneva ora la sfida inedita di una politica e di un pensiero della complessità. Ben al di là di ingenui irenismi, prospettò i rischi e colse l’ambivalenza di questo “nuovo inizio” (Un nouveau commencement, 1991). Sulla nuova età si affollavano grandi promesse, ma anche grandi minacce. Ha disegnato lucidamente l’inedito quadro: il pianeta è spinto da un quadrimotore spaziale (scienza, tecnica, industria, profitto) fuori controllo, che rischia di trascinare impetuosamente il mondo in un divenire cieco; tutti i frammenti di umanità sono ormai in irreversibile e istantanea interdipendenza, ma l’interdipendenza non ha creato la solidarietà; sono in comunicazione, ma le comunicazioni non creano la reciproca comprensione; l’accumulo delle informazioni non crea la conoscenza, e l’accumulo delle conoscenze non crea la comprensione; nello stesso tempo in cui si sono realizzati innumerevoli processi di unificazione, si sono anche sviluppate formidabili disgregazioni, regressioni, chiusure, nazionali, etiche, religiose.

Ha colto in profondità la mutazione antropologica: la minaccia nucleare e la minaccia ecologica che gravano sulla biosfera avevano fatto dell’umanità una comunità di destino (Terre-Patrie, 1993; Notre Europe, 2013; Changer de voie, 2020). Ha instancabilmente lavorato per fare emergere la consapevolezza di questo destino comune, per illuminare il caos degli eventi, le loro interazioni e retroazioni.  Ha individuato uno dei maggiori ostacoli a questa coscienza planetaria nella frammentazione dei saperi, che rende incapaci di cogliere proprio l’irriducibile complessità, cioè la molteplicità di dimensioni intrecciate, dei problemi fondamentali. La sua epistemologia della complessità delinea un metodo di integrazione dei saperi, che ha come scopo la connessione delle conoscenze, e una scienza con coscienza (Science avec conscience, 1982), consapevole delle proprie possibilità e dei propri limiti, nonché dei valori impliciti che veicola o che potrebbe veicolare. Testimonianza di questa sua straordinaria avventura intellettuale sono i sei volumi dell’imponente opera filosofico-epistemologica La Méthode (La nature de la nature, 1977; La vie de la vie, 1980; La connaissance de la connaissance, 1986; Les Idées. Leur habitat, leur vie, leurs moeurs, leur organisation, 1991; L’humanité de l’humanité. L’identité humaine, 2001; Éthique, 2004). E di questa opera viatico fu Le paradigme perdu. La nature humaine (1973), a tutt’oggi insuperato manifesto del progetto di una antropologia globale e complessa, volta a concepire e a rigenerare l’unità umana, “cento per cento natura e cento per cento cultura”, perduta e andata in frantumi attraverso lo specialismo disciplinare.

Ha, di conseguenza, anche lanciato l’allarme educativo: i sistemi di insegnamento continuano a separare, a disgiungere le conoscenze che dovrebbero invece essere interconnesse, continuano a formare menti cieche ai contesti ed esperti che privilegiano una sola dimensione di problemi complessi. Il che lo ha portato a scrivere testi che delineano i principi di una riforma dell’educazione, adeguata a rispondere all’urgenza vitale dei nostri giorni: “educare all’era planetaria”, perché ogni individuo e ogni comunità si possa fare carico della condizione di Cittadinanza Terrestre (La tête bien faite, 1999; Relier les connaissances, 1999; Les sept savoirs indispensables à l’éducation du futur, 2000; Enseigner à vivre, 2014). E proprio questi testi consentono di rivolgere un nuovo sguardo retrospettivo sulla sua opera, che ci appare oggi come una grande pedagogia per il nuovo cittadino planetario, i cui modi di pensare possano essere all’altezza delle s!de dei nostri tempi, sempre più complesse e diversificate. Nell’orizzonte di questa riforma, ha delineato il progetto di una antropo-politica, in grado di affrontare i problemi oggi totalmente ignorati dalla politica tradizionale: un progetto delineabile nella consapevolezza che ogni riforma politica sarà indissociabile da una riforma di civiltà, da una riforma di vita, da una riforma di pensiero, da una riforma spirituale (Introduction à une politique de l’homme, 1965; Une politique de civilisation, 1997). Ed è in questo stesso orizzonte che ha delineato la “via” di una politica dell’umanità planetaria che abbia come missione più urgente quella di solidarizzare il pianeta (La Voie. Pour l’avenir de l’humanité, 2011).

Dinanzi ai rischi ambientali a lungo termine, dall’inquinamento al sovraffollamento, dal caos climatico alla distruzione della biodiversità, dai conflitti di civiltà e di religione agli egoismi nazionalisti e al rischio nucleare, che minacciano il nostro pianeta, Edgar Morin risponde con la visione di una “Terra-Patria”, di una comunità planetaria in cui il senso di appartenenza oltrepassi tutti i confini fra etnie, fra nazioni, fra culture e fra civiltà, perché senza confini sono i pericoli a cui siamo esposti. Il perseguimento di tale visione richiederà, per lui, una metamorfosi ancora inconcepibile e improbabile. Tuttavia, argomenta, è proprio questa constatazione disperante che comporta un principio di speranza, motivato da una consapevolezza che ci viene dalla conoscenza delle grandi soglie dell’evoluzione umana: “sappiamo che le grandi mutazioni sono invisibili e logicamente impossibili prima della loro comparsa; sappiamo anche che esse compaiono quando i mezzi dei quali un sistema dispone sono divenuti incapaci di risolvere i suoi problemi. Così possiamo sperare che, pure ancora inconcepibile e improbabile, la metamorfosi non sia impossibile”. La Via che delinea è anche un appello alla volontà di fronte alla grandezza della sfida: “sebbene quasi nessuno ne abbia ancora coscienza, non si è mai avuta una causa così grande, così nobile, così necessaria, della causa dell’umanità per sopravvivere, vivere e umanizzarsi”.

Questo appello ci riporta all’intreccio indissolubile della sua vita e del suo pensiero, che sono oggi più che mai una straordinaria occasione per riflettere sulle crisi e sulle potenzialità antropologiche del nostro tempo. E il filo rosso di questo intreccio è una continua ricerca di fraternità, dal cui desiderio si è sentito trascinato a vivere e a pensare il “suo” secolo.

Ha scritto: “Come non ho mai potuto vivere senza amore, non ho potuto vivere senza fraternità. Le mie esperienze di fraternità sono i momenti più belli della mia vita” (La fraternité, pourquoi?, 2020). Sì, queste poche, semplici parole riassumono meglio di ogni altro discorso il senso di una vita e il senso di un pensiero fra i più straordinari dell’ultimo secolo.

Brano tratto dal saggio nel volume 100 Edgar Morin, Mimesis Edizioni, Milano 2021.

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L'autore

Mauro Ceruti