Cultura

08 luglio 2021

Capire il mondo nella sua complessità: la sfida di senso che Edgar Morin lancia da decenni a chiunque si occupi di lavoro e di sindacato

È nota a tutti l’attenzione che Edgar Morin ha dedicato nel corso della sua lunga vita alla capacità del movimento operaio di promuovere analisi, nella giunzione con gli intellettuali e gli studenti delle università, e, mediante il conflitto, provocare trasformazioni sociali. Ed è noto il suo rifiuto di usare il termine “sinistra” con l’articolo determinativo “la” come se nel percorso storico-intellettuale ve ne fosse stata una sola. Da questa consapevolezza, che è insieme filosofica, storica e politica, deriva la costante pro-vocazione di Morin, il suo costante richiamo, a tutti i movimenti dei lavoratori sparsi nel mondo, e in particolare in Europa, a ricostruire, sempre e di nuovo, corrette analisi sociali ed economiche. Capire il mondo nella sua complessità è una sfida di senso che Edgar Morin lancia da decenni a chiunque si occupi di lavoro e di sindacato. E da qualche anno, la sua insistenza sul senso del sapere e della conoscenza, dell’istruzione e della formazione, accompagna la riflessione del sindacato che in particolare in quei settori ha trovato in lui un decisivo pensatore di riferimento, come lo è Antonio Gramsci, e come lo è Bruno Trentin.

Non a caso, leggendone in controluce esistenze e riflessioni, si possono tracciare tra Edgar Morin e Bruno Trentin forti e fruttuose analogie. Nati in Francia a distanza di appena 5 anni l’uno dall’altro, entrambi scelsero giovanissimi l’impegno nella Resistenza al nazismo e al fascismo, ed entrambi, per tutta la loro vita intellettuale, coltivarono la passione per la filosofia francese e il pensiero illuminista, ma soprattutto coltivarono l’ansia per la liberazione dei lavoratori e dei popoli oppressi. Ma le analogie non si fermano qui, perché il medesimo sostanziale background culturale condurrà entrambi a rileggere in modo straordinariamente fecondo e ancora oggi attuale, gli avvenimenti del 1968-69, il maggio nelle università e i conflitti nelle fabbriche. Per Morin furono “la breccia” che condusse al cambiamento sociale e in parte anche della sua traiettoria filosofica. Per Trentin essi furono “la breccia” per cambiare non solo la Cgil, ma attraverso la Cgil la condizione operaia.

Bastano poche frasi per assumere le loro feconde analisi sul biennio 1968-69 perfino come elementi programmatici per la lotta verso un mondo nuovo, di persone consapevoli, libere e autodeterminate. In fondo, Morin nell’impegno filosofico e Trentin nell’impegno sindacale coltivavano entrambi lo stesso sogno: contribuire a un’umanità libera, uguale e solidale, seguendo in ciò il più compiuto ideale illuministico. Morin scrive che “l’università è contemporaneamente il bastione più forte della società borghese (forma i quadri) e il suo anello più debole, perché in essa gli studenti sono la maggioranza e possono diffondervi lo spirito rivoluzionario”. È chiaro quindi perché la rivoluzione poteva e doveva partire da lì per poi, eventualmente, diffondersi nelle fabbriche, nella politica e nella società. A chi parla però semplicemente di rivoluzione, nel senso di scardinamento della società e ribaltamento del potere, Morin oppone un’altra visione, che egli chiama “la breccia”. I movimenti del maggio ’68, almeno in Francia, non hanno costituito il sovvertimento della società, un colpo di stato o il diffondersi del comunismo, ma hanno semplicemente avvertito il mondo di quello che sarebbe potuto accadere; hanno dimostrato che gli strumenti per portare al ribaltamento ci sono, che “la breccia” nel sottosuolo della comunità è ormai aperta, e “la diga” può crollare da un momento all’altro. E proseguendo con le analogie, ecco il motivo per cui Trentin, anni dopo, parlando nell’ultimo capitolo della lezione del “biennio rosso”, nell’intervista a Guido Liguori, insiste: “Sono convinto che le difficoltà della sinistra nell’intendere la portata dei movimenti antiautoritari del ’68 e nel salvaguardare questa loro connotazione originaria risiedano nella sua riluttanza ad accettare che, soprattutto in una società complessa, la battaglia per la conquista di nuovi diritti civili, sociali e di cittadinanza, può diventare l’elemento motore di una politica e non più soltanto l’eventuale coronamento dello sviluppo economico e sociale”.

Già, come si trasforma una società complessa? Questo è il tarlo che accompagnerà le straordinarie esistenze di Morin e Trentin, ed è nella ricerca delle risposte giuste a questo interrogativo che Morin trasformerà filosofia e sociologia, e Trentin la Cgil (e con essa l’intero movimento sindacale italiano). Si può riassumere anche come la domanda di più democrazia e di superamento delle inadeguatezze della democrazia a sé stessa e alle sue promesse interne, che, nella seconda metà del Novecento, cessa di alimentare i movimenti "totalitari" della prima metà del secolo. Una domanda che può assopirsi, ma sempre latente e pronta a riemergere e riesplodere come accadde nella primavera di cinquantatre anni fa. La risposta, allora, è proprio in ciò che unisce, sia pure a distanza, Edgar Morin e Bruno Trentin: l’idea del sapere come emancipazione e motore dell’innovazione autentica, non di quella che crea altri subalterni e sottoposti, e del lavoro “intelligente e informato”, unica ricchezza sovrana dell’umanità nell’era della globalizzazione, del primato dell’uguaglianza delle opportunità sull’uguaglianza dei risultati (in termini di distribuzione del reddito). Il progetto, che unisce Morin e Trentin è la necessità del riconoscimento collettivo di una sorta di “utopia laica”. Vuole dare a ciascuno i mezzi per realizzare al meglio le proprie aspirazioni personali. Questo ciascuno non è soltanto ricco o povero, ma è anche debole o forte, e lo è soprattutto se “sa” o “non sa”. Di questo progetto, la Cgil, ma l’intero sindacato, è interprete fedele nella concretezza del suo agire quotidiano, grazie a Edgar Morin e a Bruno Trentin.

Brano tratto dal saggio nel volume 100 Edgar Morin, Mimesis Edizioni, Milano 2021.

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L'autore

Pino Salerno