Attualità

21 maggio 2025

I referendum e le ragioni del sì

La dignità del lavoro merita il nostro voto

Per comprendere pienamente le ragioni e i contenuti dei referendum in materia di lavoro per i quali si voterà l’8 e 9 giugno prossimi, occorre un breve riferimento preliminare al contesto nel quale si inseriscono. Bisogna partire da una constatazione: è in atto da molto tempo, e di recente con particolare accelerazione, la demolizione di molte tutele del lavoro e dei diritti dei lavoratori che furono faticosamente costruiti nel nostro Paese, a partire almeno dagli anni sessanta, grazie all’ iniziativa e al sostegno unitario delle organizzazioni sindacali. Da allora tante cose sono certamente cambiate nel mercato del lavoro, nell’organizzazione del lavoro, nei comportamenti e nelle aspettative dei lavoratori, soprattutto dei giovani ed è giusto, dunque, che anche le tutele e i diritti possano e debbano essere aggiornati. Tuttavia, vi sono almeno due limiti invalicabili che non possono e non devono essere superati. Il primo riguarda l’intangibilità di alcuni diritti che non solo sono sanciti dalla Costituzione, dai trattati internazionali e dai trattati dell’Unione ma che, ancor prima, stanno a tutela e a fondamento di una società coesa e solidale. La dignità del lavoro, la stabilità dell’occupazione, la possibilità di essere tutelati contro gli arbitri del più forte sono valori innanzitutto etici, prima ancora che giuridici, che costituiscono il presupposto per una vita libera e dignitosa e che sono indispensabili per possedere quello “zainetto” di diritti economico-sociali che ciascun cittadino dovrebbe portare con sé fin dalla nascita, per esercitarli poi nella vita sociale e familiare. Il secondo limite è la salvaguardia della condivisione nel proporre e nell’attuare i cambiamenti che di volta in volta possono essere necessari, condivisione che non può avere una dimensione soltanto individuale ma deve passare attraverso la proposta, il vaglio, il consenso delle rappresentanze collettive dei lavoratori. Entrambi questi limiti sono stati abbondantemente calpestati da vari governi e da diverse maggioranze politiche che si sono susseguiti da almeno un ventennio senza, peraltro, che si verificassero i vantaggi e i progressi che erano stati promessi per giustificarne l’avvento. Sono anni che vengono immesse nel sistema dosi massicce di flessibilità in entrata e in uscita dal mercato del lavoro e sono anni che, nonostante i proclami, l’economia italiana ristagna con bassa crescita e bassi salari. L’intento comune dei referendum dell’8 e 9 giugno è dunque, a parere di chi scrive, quello di invertire questa tendenza, di porre un limite al degrado delle tutele e dei diritti, di ampliare la consapevolezza e la partecipazione dei cittadini sui problemi del lavoro e di creare le condizioni per cominciare a costruire, con la reale partecipazione delle parti sociali, un percorso diverso per il futuro prossimo.

Il licenziamento senza giusta causa è un sopruso

Il primo referendum riguarda l’abolizione integrale del d.lgs. n. 23 del 4 marzo 2015, uno dei decreti emanati in applicazione del cosiddetto Jobs act (in realtà L. 10 dicembre 2014, n. 183). Al centro del referendum sta, naturalmente, la questione della tutela contro i licenziamenti individuali illegittimi in quanto intimati, prevalentemente, senza giusta causa o giustificato motivo. Tutto nasce, come è noto, con l’emanazione dello Statuto dei lavoratori che all’art 18 prevedeva che «il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento a norma dell’art 2 della legge 604/1966, o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro». La tutela ripristinatoria (detta anche “reale”) ha avuto vita abbastanza lunga ma tutt’altro che facile. Già poco dopo l’approvazione dello Statuto hanno cominciato a infittirsi critiche e accuse, più o meno fantasiose, di essere all’origine della renitenza ad assumere da parte delle imprese o della stessa piccola dimensione diffusa delle imprese italiane. Mentre si faceva strada una crescente tendenza alla flessibilità “in entrata” nel mercato del lavoro attraverso la pirotecnica produzione di forme di lavoro sempre più flessibili non si attenuava sull’altro versante la pressione per introdurre maggiore flessibilità “in uscita” attraverso i licenziamenti. La strada della tutela reale si faceva, insomma, sempre più accidentata: gli episodi per tentare di demolirla sostituendola con un indennizzo pecuniario sono stati numerosi, a partire dal referendum proposto dal partito radicale nel 2000 e respinto dagli elettori, alla proposta di modifiche avanzata dal governo Berlusconi pochi anni dopo, fino ai cosiddetti “contratti di prossimità” escogitati da un altro governo di centro-destra nel 2011.

Tuttavia, il primo reale punto di svolta sulla questione è intervenuto nel 2012 con la cosiddetta "Riforma Fornero", la legge n.92/2012. Questa legge ha riscritto l’art 18 non eliminando in toto la tutela reale ma circoscrivendola a situazioni determinate ed estendendo ai casi rimanenti una tutela di natura esclusivamente economica che, pur in presenza di un licenziamento illegittimo, lascia in essere l’estinzione del rapporto di lavoro. In pratica, la tutela ripristinatoria viene limitata ai casi di licenziamento discriminatorio, ovvero intimato in concomitanza con il matrimonio o in violazione dei divieti previsti in caso di maternità, al licenziamento nullo perché determinato da un motivo illecito o inefficace perché dichiarato in forma orale. La tutela ripristinatoria si applica inoltre (semplificando una materia comunque complessa) nei casi in cui il giudice verifica l’insussistenza del fatto contestato, o che il fatto contestato rientra nelle condotte punibili con una sanzione conservativa, ovvero per l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. In tutti gli altri casi la sanzione per il licenziamento ingiustificato è un risarcimento di natura meramente economica.

Evidentemente non soddisfatto del risultato ottenuto con la "Riforma Fornero", il governo Renzi ha completato la demolizione dell’art. 18 per i lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore della riforma. Il decreto n. 23 del 4 marzo 2015 (cosiddetto sul lavoro a “tutele crescenti”: e il paradosso è già nel nome) impone, come regola dominante la mera tutela economica in caso di licenziamento illegittimo, mentre la tutela ripristinatoria viene ristretta ai casi di licenziamento discriminatorio o nullo. È escluso, si badi bene, dalla tutela ripristinatoria il caso di licenziamento irrogato quando nel codice disciplinare che si applica nell’azienda era prevista, per il fatto verificatosi, una sanzione di tipo conservativo. In sostanza, nella stragrande maggioranza dei casi di licenziamento illegittimo il licenziamento ha comunque corso, salvo l’erogazione di una indennità proporzionata all’anzianità di servizio.

Il decreto 23/2015 ha subìto alcune variazioni a opera della legge, ed è stato oggetto di alcune sentenze della Corte costituzionale, che non ne hanno però modificato sostanzialmente l’impianto: esse sono anche all’origine della particolare complessità del quesito che si trova sulla scheda del referendum.

L’affermarsi del sì al referendum non potrà, ovviamente, riportare all’essenziale disciplina originaria dello Statuto. Essa porterà tuttavia al ripristino delle tutele previste dalla legge del 2012 che sono, come abbiamo visto, certamente più garantiste di quelle attualmente in vigore.

L’importanza di avere un arbitro tra le parti

Il referendum numero due si riferisce alla legge 604/1966 che riguarda le unità produttive fino a quindici dipendenti (o cinque, se si tratta di aziende agricole). L’articolo 8 di questa legge prevede che, quando risulti accertato che il licenziamento è stato irrogato senza giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro possa scegliere tra la riassunzione del lavoratore (che è ovviamente cosa ben diversa dalla reintegrazione) ovvero un risarcimento compreso tra 2,5 e 6 mensilità della retribuzione globale di fatto con riguardo al numero dei dipendenti, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio e al comportamento delle parti. L’indennità può arrivare fino a 14 mensilità per i lavoratori più anziani e nelle imprese con più di 15 dipendenti. Si tratta, come si vede, di sanzioni estremamente miti per l’impresa, e estremamente povere per il lavoratore ingiustamente licenziato. Il trattamento di favore verso la piccola impresa e la discriminazione rispetto al trattamento riservato alle imprese maggiori è da sempre motivato con la sua presunta debolezza economica: un dato probabilmente giustificabile quando la legge 300 vide la luce, ma è tutto da verificare nelle attuali condizioni di mercato, nelle quali la forza o la debolezza delle imprese andrebbero quantomeno verificate con un mix di indicatori, e non con il mero dato dimensionale. In ogni caso, il quesito referendario propone di eliminare l’indicazione tassativa del massimo dell’indennità erogabile, lasciando al giudice la valutazione sull’equo indennizzo per il licenziamento irrogato senza giusta causa o giustificato motivo.

Un sì contro la precarietà del lavoro

Anche il terzo referendum che riguarda i contratti a termine ha alle spalle una storia lunga e complessa che è possibile qui soltanto sintetizzare. All’origine sta una legge (n. 230/1962) che proibiva sostanzialmente il ricorso ai contratti a termine fatta eccezione per alcune ragioni estremamente circoscritte. Erano gli anni del boom economico e dei primi governi di centro-sinistra, ma anche anni caratterizzati da una sostanziale assenza di tutele contro i licenziamenti. Con il trascorrere del tempo, i cambiamenti nel sistema produttivo e nell’organizzazione del lavoro insieme all’accrescersi delle tutele “in uscita” dal mercato del lavoro indussero a liberalizzare in parte la disciplina dei contratti a termine affidandola però (gli anni ottanta e in parte novanta furono quelli della “concertazione”) ai casi previsti dalla contrattazione collettiva introducendo dunque, su questa come su altre materie, una “flessibilità” controllata e contrattata. Il punto di svolta arrivò, anche qui, nei primi anni del secolo attuale, con una legge promossa dal governo di centro-destra che poneva fine al filtro sindacal-collettivo sulle causali ammesse per il ricorso al contratto a termine liberalizzando sostanzialmente la materia affidata a generiche «ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo». Da allora è iniziato lo “scivolo” verso provvedimenti che hanno reso il ricorso al contratto a termine non più un’eccezione collegata a ragioni specifiche e ben definite ma un succedaneo del contratto a tempo indeterminato. Il d.lgs n. 81 n. 2015, di cui il referendum chiede la modifica attraverso l’abrogazione di alcune sue parti, introduceva la possibilità di stipulare un contratto a temine fino a dodici mesi senza la necessità di introdurre alcuna causale, e una durata superiore ma non eccedente i 24 mesi in presenza delle causali generiche già ricordate. Il referendum, eliminando alcune parti degli articoli 19 e 21 del decreto, propone di sottoporre il ricorso ai contratti a termine ai casi previsti dalla contrattazione collettiva, oltreché per la sostituzione di lavoratori assenti, prosciugando almeno in parte una delle “fonti” principali della precarietà lavorativa del nostro paese.

Nessuna impunità per gli incidenti sul lavoro

Il quarto referendum, infine, riguarda l’art. 26 del d.lgs n. 81/2008, che disciplina la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Come è ben noto (drammaticamente noto) la sicurezza nei luoghi di lavoro ha, tra le altre ragioni (in particolare la scarsità dei controlli), un versante particolarmente debole rappresentato, appunto, dal fenomeno degli appalti di manodopera che, spesso a cascata, inseriscono nel ciclo produttivo persone dipendenti da imprese diverse da quella che affida loro specifiche attività o lavorazioni. Appunto per questo l’articolo 26 della legge 81 impone al datore di lavoro dell’impresa committente numerosi obblighi di natura organizzativa, preventiva, informativa, di collaborazione e coordinamento tendenti a minimizzare i rischi che possono derivarne ai dipendenti delle imprese appaltatrici. Il quarto comma dell’articolo in questione stabilisce, come ulteriore garanzia, che l’imprenditore committente risponda in solido con l’appaltatore o il subappaltatore per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali nonché per i danni per i quali il lavoratore dipendente dalla ditta appaltatrice non risulti indennizzato presso Inail o Ipsema. A ciò si aggiunge tuttavia un’ulteriore previsione secondo cui «le disposizioni di questo comma non si applicano ai danni conseguenti dai rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici». Questa frase, invero sibillina, ha dato luogo ovviamente a diverse incertezze interpretative di cui vi è traccia sia nella dottrina che nella giurisprudenza e rappresenta comunque un varco nel quale possono intrufolarsi esenzioni immotivate degli obblighi previsti per legge. Il referendum ne propone l’abrogazione eliminando eccezioni d’incerta valenza ed efficacia e riportando il baricentro dei contratti d’appalto e subappalto integralmente sotto l’egida degli obblighi previsti dall’articolo 26 della legge.

L'autore

Mario Ricciardi

Giuslavorista