La rivista

Dibattito pedagogico

Dalla critica della meritocrazia al diritto all'istruzione

Premessa

L’iniziativa di Proteo si propone di sviluppare una critica alla meritocrazia per riaffermare la centralità del diritto all’istruzione.

Criticare la meritocrazia rappresenta un momento necessario, ma se ci si ferma a questo si rischia di restare sul terreno di gioco dell’avversario. È indispensabile opporre alla meritocrazia un’antitesi vigorosa, una diversa prospettiva: quella del diritto all’istruzione. Una Scuola della Costituzione parla il linguaggio dei diritti, non quello meritocratico.

Iniziamo col notare che il termine “merito” è stato usato in modi diversi nel corso del tempo. Nell’immediato Dopoguerra, nella conferenza intitolata Contro il privilegio dell’istruzione (1946), Calamandrei aveva opposto il merito al privilegio, sostenendo che l’istruzione non doveva essere appannaggio delle classi abbienti, bensì degli alunni capaci anche se privi di mezzi. Questa posizione era diffusa tra le forze progressiste, e influenzò la stessa formulazione dell’art. 34 della Costituzione. In questa fase, le diseguaglianze socioeconomiche erano fortemente marcate, così tutelare i ragazzi che avevano buoni risultati scolastici a dispetto delle loro umili origini pareva la frontiera democratica più avanzata. Pertanto, in questa fase, invocare il merito – che veniva concepito in termini di doti naturali – aveva una funzione progressiva. Tuttavia, in questo modo si accettava che la grande maggioranza degli alunni di estrazione popolare fosse destinata a una scolarità breve.

Una ventina d’anni dopo, in Lettera a una professoressa (1967), don Milani – di fronte ai massicci fenomeni di selezione scolastica – denunciava gli esiti discriminatori della concezione delle doti naturali, tacciandola di essere una teoria razzista, e opponendole l’idea che tutti i ragazzi sono idonei per studiare. Spetta alla scuola organizzare le condizioni adeguate d’apprendimento per tutti e per ciascun studente. Questa posizione influenzò in modo sensibile gli atteggiamenti della scuola progressista, spostando l’attenzione dal merito all’eguaglianza. Questo spostamento fu però costantemente osteggiato dalle forze conservatrici.

Passato un altro ventennio, col volume La ricreazione è finita (1986), Bottani – un ricercatore dell’Ocse – avanza poi la tesi del fallimento delle riforme egualitarie degli anni Sessanta-Settanta (in parte ispirate al pensiero di don Milani), asserendo che le dinamiche mondiali dell’economia impongono di mettere al centro la questione della qualità dell’istruzione, anziché quella dell’eguaglianza formativa. Siamo ai primi passi della rivoluzione neoliberista. Il merito riconquista la scena, assumendo la funzione di una giustificazione ideologica delle diseguaglianze sociali e dei dislivelli degli esiti scolastici. Si entra gradualmente nell’epoca della meritocrazia: il merito viene elevato a criterio assoluto di giustizia sociale. Questa è l’epoca in cui viviamo attualmente.

La critica della meritocrazia

In realtà, sembra difficile dare una definizione precisa del merito. In linea generale, il merito rappresenta un requisito per l’attribuzione di qualcosa (un premio, un riconoscimento ecc.), con la clausola che tale requisito deve essere riconducibile all’individuo (non sia, cioè, imputabile a fattori esterni come la fortuna o l’aiuto di terzi). Ma queste indicazioni sono vaghe, e lasciano spazio a varie interpretazioni. Qui mi soffermerò soltanto sull’interpretazione più forte, che vede il merito come una virtù dell’individuo, con una rilevante connotazione morale. In questo senso, il merito dipende dall’individuo in quanto chiama in causa il suo valore, quanto egli vale non solo sotto uno specifico riguardo (intellettuale, atletico ecc.), ma anche in senso morale. Sebbene sia quella socialmente predominante, questa interpretazione soffre però di rilevanti aporie. Appare pacifica solo a un esame frettoloso, ma se viene analizzata si rivela disseminata di limiti e difficoltà.

Una prima difficoltà riguarda il nesso tra il merito e le capacità. In Una teoria della giustizia (1971), Rawls ha evidenziato l’indifferenza morale del possesso di capacità. Queste ultime o sono innate (doti naturali) o sono dovute alla stimolazione ambientale. Se si ritiene che le capacità siano doti innate, allora si deve concludere che non vi è alcun merito nell’essere stati favoriti dalla lotteria genetica, nell’aver ricevuto un buon corredo ereditario. Si deve parlare piuttosto di fortuna. Se invece le capacità sono il frutto della stimolazione degli ambienti sociali in cui il soggetto si è sviluppato, la questione non cambia. Non vi è alcun merito nell’essere nato in un contesto socio-famigliare avvantaggiato (anche in questo caso, si tratta di fortuna). Anzi, appare ingiusto che altri soggetti debbano patire ambienti sfavoriti.

Per cercare di ovviare a queste difficoltà, si riferisce il merito alle prestazioni fornite dall’individuo nel quadro della competizione con gli altri. Prevalere è il segno del merito. Il lavoro scolastico deve allora funzionare come una gara tra gli studenti, nella quale ognuno di loro sia stimolato a mostrare il meglio di sé. Tuttavia, una gara è equa soltanto se tutti i concorrenti partono dalla stessa linea. Se alcuni partono avvantaggiati dai corredi familiari (genetici o ambientali), la gara è truccata, e i vincitori sono predestinati. Perciò, non vi è alcun merito in una simile vittoria.

Rimane però la possibilità di stimare il merito sulla base dell’impegno fornito. Si può parlare di merito se il risultato conseguito è il frutto dello sforzo personale. Questa idea è viziata dal ritenere che il grado d’impegno sia semplicemente dovuto alla buona o della cattiva volontà. Tale assunzione implica che l’impegno e il disimpegno siano configurabili come una scelta del soggetto (la kantiana autonomia della volontà), e ricadano quindi sotto la sua responsabilità. L’autonomia della volontà non è però un dato iniziale, bensì l’esito di un processo educativo, di una crescita personale. L’ambiente socio-famigliare influenza non solo le capacità, ma anche gli atteggiamenti verso il lavoro scolastico. E, nuovamente, non vi è alcun merito nell’essere nato in una famiglia sensibile verso la scuola e prodiga di incoraggiamenti. E nemmeno demerito in caso contrario.

Nel loro insieme, queste aporie mostrano la problematicità del concetto di merito. Agitare il merito per giustificare le diseguaglianze sociali e scolastiche, tacendo la problematicità di questo concetto, ha un significato del tutto ideologico: serve a mascherare l’iniquità di tali diseguaglianze.

La meritocrazia consiste in questo uso ideologico del merito, che viene assolutizzato ad unico criterio di giustizia sociale. In questa prospettiva, la scuola viene vista come terreno di una gara aperta a tutti (l’eguaglianza delle opportunità), e la carriera scolastica viene basata sulla capacità (o talento); col corollario che ciascuno è responsabile di ciò che ottiene: se si risulta tra i perdenti, si deve incolpare solo sé stessi.

Il neoliberismo ha portato al massimo grado il principio meritocratico, estendendo la concorrenza all’intera vita sociale, e concependo così la scuola come una palestra di allenamento alla competizione. Ovviamente, tacendo sul carattere iniquo di una gara inficiata dalla disparità dei punti di partenza (e dalla diseguaglianza dei sostegni in itinere). In questo modo, gli svantaggi sono trasformati in demeriti.

Secondo i partigiani della meritocrazia, questa – oltre ad essere giusta – assicura la massima efficienza del sistema sociale. Ma le cose stanno davvero così? Il primo a parlare di meritocrazia, il sociologo inglese Young (La nascita della meritocrazia, 1958), la presentava come una distopia, come un mondo da incubo. Recentemente, nel volume La tirannia del merito (2020), Sandel ha descritto in modo icastico le effettive conseguenze sociali della meritocrazia. Essa produce l’esaltazione e l’arroganza dei vincenti, e l’umiliazione e il risentimento dei perdenti. Questi fenomeni tendono a corrodere la coesione sociale, a portare a una disgregazione delle comunità. E su questo sfondo di risentimento e disgregazione crescono i fermenti populisti di destra, come il trumpismo. Benasayag e Schmit, nel volume L’epoca delle passioni tristi (2006), hanno osservato che le dinamiche della competizione neoliberista hanno dato al futuro il carattere della minaccia, anziché quella della speranza. Le ansie, le angosce, le paure di fallimento sono diventate patologie sociali, e come tali innervano anche l’esperienza scolastica dei nostri studenti. Si potrebbe osservare che, nel nostro Paese, a tutto questo, si aggiunge una meritocrazia contraffatta, che maschera privilegi e nepotismi, e in cui le carriere continuano a essere basate sulle reti di conoscenze familiari, anziché sul talento. Allora, l’esito è quello del disinganno e del cinismo, che già Leopardi nel Discorso sullo stato presente dei costumi italiani (1824), vedeva come una tara del carattere nazionale. Il disinganno prodotto dal persistere delle carriere basate sulle conoscenze sociali e sul favoritismo porta a non prendere in modo serio questo Paese, a considerarlo cinicamente, oppure a cadere nella rabbia e nella sfiducia. E questi sentimenti sociali tendono a minacciare la stessa scuola e l’università.

La Scuola della Costituzione e il diritto all’istruzione

Alla triste concezione meritocratica della scuola, intendiamo opporre una differente prospettiva: quella del diritto all’istruzione che caratterizza una Scuola della Costituzione.

A questo proposito, è cruciale il nesso tra l’art. 3 (comma 2) e l’art. 34. L’art. 3 costituisce il contesto per l’interpretazione l’art. 34: la rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona e la sua piena partecipazione alla vita politica, sociale ed economica del Paese trova una risorsa fondamentale nella scuola e nell’istruzione. Il diritto all’istruzione sancito dall’art. 34 va letto come il diritto alla liberazione dall’ignoranza e all’emancipazione dell’intelligenza, senza le quali non vi è autentica possibilità né di pieno sviluppo umano, né di effettiva partecipazione alla vita socio-economico-politica. Soltanto la scuola può garantire una piena crescita intellettuale ed etico-sociale dei giovani e infrangere gli ostacoli che gli ambienti sociali possono aver creato al loro sviluppo. Inoltre, se – come affermato nella dottrina costituzionale – il secondo comma dell’art. 3 stabilisce un principio di eguaglianza sostanziale tra i cittadini, l’impegno all’effettiva realizzazione di tale eguaglianza vincola il modo di intendere il diritto all’istruzione sancito dall’art. 34, che non può allora essere limitato al mero diritto d’accesso a scuola – che di per sé rappresenta una condizione puramente formale della possibilità di sviluppo umano –, ma va inteso come diritto di tutti ad essere effettivamente istruiti in senso sostanziale, e quindi come il dovere di assicurare a tutti l’acquisizione della conoscenza e lo sviluppo della propria intelligenza.

Lo scopo è l’uguaglianza dei risultati formativi, non quella della mera opportunità. Uguaglianza relativa, non assoluta, che non implica che tutti sappiano le stesse cose, bensì che certe cose siano sapute da tutti. Sono le conoscenze e le competenze fondamentali per la formazione del cittadino che devono essere garantite a tutti in modo sostanzialmente equivalente.

Il questo quadro non c’è spazio per la meritocrazia. Il criterio di una scuola giusta è quello del bisogno: a ciascuno secondo il suo bisogno. Don Milani ha scritto che non c’è cosa più ingiusta che fare parti uguali tra diseguali. La scuola deve dare di più a chi ha di meno per riassorbire (o almeno limitare il più possibile) gli scarti culturali iniziali.

A questo scopo, la scuola deve adottare una cultura pedagogica democratica e inclusiva: tutti gli scolari sono pienamente educabili, completamente capaci di conquistare le conoscenze e le competenze fondamentali della formazione scolastica. Compito della scuola è organizzare le condizioni didattiche adeguate a mettere ogni alunno in grado di padroneggiare questi apprendimenti fondamentali, attraverso procedure didattiche opportunamente individualizzate. Beninteso, l’ufficio della scuola non si esaurisce nell’assicurare condizioni propizie per l’apprendimento del sapere consolidato. La sua tensione democratica la deve portare a sviluppare anche lo spirito critico, la capacità di pensare con la propria testa, attraverso la strategia della ricerca e le attività creative. Ma sul profilo metodologico di una scuola democratica sarebbe necessario un discorso lungo e articolato.

Concludendo, Proteo è per una Scuola della Costituzione, volta a realizzare il programma dell’art.3; per una scuola del diritto all’istruzione, capace di formare adeguatamente i futuri cittadini, promuovendo così il pieno sviluppo umano delle persone e la crescita civile e democratica del nostro Paese.

L'autore

Massimo Baldacci

Professore di pedagogia generale all'Università di Urbino e presidente nazionale di Proteo Fare Sapere

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