Nel dopoguerra Fortini decise di stabilirsi a Milano. Tra le ragioni di questa scelta ce n’è una che ricorre con costanza durante tutto il suo percorso biografico: l’insofferenza verso l’aristocratico ambiente intellettuale fiorentino, il cui emblema ricorrente è l’immagine imperturbabile di Eugenio Montale seduto al caffè delle Giubbe Rosse mentre in Europa si svolgeva la tragedia della Seconda Guerra Mondiale[1].
A questa immagine corrisponde una concezione della cultura di tipo liberale, privilegio di pochi colti, i soli in grado di potere accedere alle conoscenze importanti e di determinare, per questa via, gli orientamenti fondamentali del pensiero. Le masse analfabete sono mute e non è conveniente interrogare quel mutismo, capire di quali visioni del mondo è portatore. Le masse sono sentite come magma indistinto, come plebe irrazionale e, nel caso si fossero avvicinate alle idee socialiste e comuniste, come portatrici di un cieco odio di classe, destinato ad un’evoluzione rovinosa e priva di qualsivoglia prospettiva razionale, equilibrata, moderna. Fortini interpreterà magistralmente tale mutismo in un breve testo apparso nel 1965 sulla copertina del disco Le canzoni di Bella Ciao.
Qualche volta, dagli affreschi e dai quadri, i loro visi ci fissano. Ma dai libri quasi mai ne intendi la voce. Le loro generazioni hanno formato la lingua che parliamo, la sintassi dei nostri pensieri, l’orizzonte delle città, il presente. Ma la coscienza che anno dopo anno, mietitura dopo mietitura e pietra dopo pietra, essi formavano ai signori e ai padroni, quella coscienza non li riconosceva. Li ometteva. Confondeva le loro voci con quelle degli alberi o degli animali da cortile. Questi canti sono stati uditi – quando sono stati uditi – tutt’al più come voce di una cultura separata e arcaica; ma noi oggi sappiamo che essi esprimono un mondo di dominati in contestazione e in risposta.[2]
Alla concezione di un sapere per pochi, inaccessibile e inattingibile, contro quanti credono che «potere e verità siano una cosa sola», che il «”sapere” non è quel che si comunica ma quel che non si comunica»[3], Fortini oppone, fin dagli anni della sua esperienza a “Il Politecnico”, l’idea di un sapere comune, concezione che nel 1971, in occasione della prima lezione del corso di Storia della critica letteraria all’università di Siena, forse anche influenzato da alcune pagine di Virginia Woolf, definirà come «il problema del common reader, ossia della comunicazione bidirezionale fra specialista e lettore opposta a quella paternalistica o da confraternita»[4].
L’idea di un sapere comune si sarebbe realizzata attraverso una trasformazione dei rapporti di produzione che avrebbe creato le condizioni – nel processo di costruzione del comunismo «inteso anche come pedagogia generalizzata, come concezione del mondo (nel senso gramsciano della parola)»[5] – di un’autentica socializzazione delle conoscenze, in una prospettiva in cui sia consentito di «insegnare tutto a tutti» (Comenio).
Accesso alla conoscenza per scoprire la verità
Tra gli ispiratori di questa sensibilità fortiniana al sapere comune antispecialistico[6], ci fu, tra gli altri, anche Antonio Gramsci. La lettura dei Quaderni, in ordine al problema degli intellettuali e dell’organizzazione della cultura, è stata per Fortini molto importante e percorre sotterraneamente parti centrali della sua opera. Va sottolineata, in particolare, l’importanza che Gramsci assegna alla “mediazione” intellettuale, considerata essenziale per la costruzione del consenso e per l’esercizio dell’egemonia, sia nella società civile, sia nella “società politica o Stato”. Non va dimenticato, infatti, che per Gramsci i mediatori intellettuali non erano soltanto i “colti” della tradizione umanistica, ma pure i parroci delle campagne, i maestri elementari, i giornalisti di provincia, così come i diplomatici, i militari, i giudici, i burocrati che operano all’interno della società politica e dello Stato o gli scienziati e i tecnici che operano all’interno della moderna industria capitalistica.
E allo studio della “fabbrica del consenso” – come la definisce Noam Chomsky[7] – Fortini ha dedicato gran parte delle sue energie intellettuali. «L’intellettuale-massa – scrive nel 1990 – di cui vent’anni fa si parlava è, sociologicamente parlando, realtà consolidata da più di un decennio e paradossalmente il vecchio problema gramsciano degli intellettuali e della organizzazione della cultura torna a riproporsi»[8].
Conoscenza, accesso alla conoscenza e divulgazione della conoscenza implicano, ricorda Edward Said, ancora sulla scia di Gramsci, saper “dire la verità”, non nell’attesa di un remoto “sol dell’avvenire”, ma nell’asprezza dello scontro presente, nel “qui e ora” dell’irriducibile esistenza fisico-biologica e storica dei soggetti[9]. Questa verità Fortini la diceva e la voleva dire principalmente a quelli a lui più vicini. Negli anni successivi alla fine della guerra, erano, ad esempio, le verità sui processi staliniani degli anni Trenta, di cui egli venne a conoscenza nel periodo dell’esilio in Svizzera. Le verità, quindi, con le conoscenze implicate, dovevano essere divulgate, dovevano circolare in un rapporto il più possibile orizzontale tra i soggetti. C’è in Fortini una funzione pedagogica, educativa, insopprimibile nella attività dell’intellettuale marxista, che va difesa e coltivata. Una funzione che si accompagna costantemente alla necessità di una memoria selettiva, di un passato da attualizzare criticamente in vista di un futuro.
Il nesso tra funzione pedagogica e funzione della memoria volontaria, in altre parole il ricordo come storia nella prospettiva di una prassi di trasformazione del presente, è un tratto decisivo, per dir così, del Fortini “educatore intenzionale”, cioè della sua esperienza di insegnante di italiano e storia negli istituti tecnici di Lecco, Monza, Milano e di docente universitario a Siena.
Un lavoro, quello dell’insegnamento, che Fortini ha sempre esercitato con scrupolo e dedizione:
«Se non è azzardato l’accostamento, il suo modo di vivere l’esperienza dell’insegnamento aveva qualcosa a che fare con il suo modo di vivere l’esperienza della poesia: l’accoglimento delle convenzioni e della loro connotazione di dominio valeva come tragico primum, passibile di “straniamenti” combattivi, non di volontaristiche falsificazioni. Della dialettica, anche come docente, era la categoria della mediazione a non lasciargli sonni tranquilli[10]». Un lavoro su cui solo di recente si è cominciato a indagare e su cui sarebbe importante sviluppare ulteriori ricerche[11], in particolare per gli anni 1964-1971, quando egli insegnò nella scuola superiore e si fece – come ebbe a dire – “intellettuale frate”:
«Nel ’64, a quarantasette anni, sono stato licenziato quasi contemporaneamente da Olivetti e da Einaudi. Avevo debiti, una bambina piccolissima. È stato un brusco declassamento. Mi ricordai che molti anni prima avevo vinto un concorso come professore, feci la scuoletta a Lecco. Bene: se non avessi fatto quell’esperienza tremenda e positiva, non avrei capito nulla. Mi trovai a contatto di gomito con tanti giovani che si occultavano nell’insegnamento: era la generazione del ’68. Scoprii la bellezza di essere intellettuale-frate, non prete: fra Cristoforo, non il cardinale Borromeo[12]».
Un lavoro, quello dell’insegnamento, accompagnato dalla realizzazione di un’antologia scolastica in cui sono fortemente rappresentati autori non occidentali, scrittori, pensatori e politici del Terzo mondo[13], a riprova del grande interesse per i problemi internazionali che Fortini aveva già dimostrato nel 1956 scrivendo un magistrale reportage dalla Cina popolare[14] e che confermerà nove anni dopo con la pubblicazione di una antologia per l’editore Laterza in cui ritroviamo buona parte della cultura internazionalista del ’68[15]. Un lavoro accompagnato da molteplici contatti con insegnanti e studenti ai quali concedeva, senza supponenze mandarinali, accademiche, di partito o di ceto intellettuale, accoglienza nella sua casa milanese per lunghe e appassionate letture e discussioni[16]. Un lavoro accompagnato, infine, da numerosi interventi sull’insegnamento della lingua e della letteratura, da recensioni sui manuali rivolti alle scuole[17]: spesso Fortini si chiedeva le ragioni dell’aristocratico disprezzo di gran parte dei nostri intellettuali verso i libri di testo per le scuole, unica lettura – ricordava – per milioni di italiani, libri di testo che non venivano considerati degni di essere recensiti nelle pagine culturali dei giornali.
Fortini, in linea con tanta tradizione del marxismo pedagogico, assegnava alla scuola e alla formazione un ruolo importantissimo nella strutturazione cognitiva dei soggetti. Egli considerava i processi educativi né spontanei né anti-autoritari, ma fortemente connotati socialmente e dotati di una propria “costrittività” necessaria, come “le catene che danno le ali” di Valery, a conseguire autonomia e conoscenza.
La scuola, il pensiero critico, l'influenza del pensiero gramsciano
Il testo Da un diario inesistente del 20 maggio 1969 è un esempio eloquente della concezione educativa di Fortini. Prendendo spunto da un’appassionata lettera di una studentessa che lamenta incomprensioni affettive da parte del docente, Fortini esplicita con grande chiarezza la sua concezione pedagogica, che mette al centro di ogni relazione educativa non astratte anime che si compenetrano ma oggetti di studio, di lavoro, di manipolazione, “cose” da fare insieme, solo dalle quali è possibile ricavare qualcosa. Il tutto con una lucida consapevolezza della distinzione di funzioni (e siamo nel ’69, cioè nel pieno della contestazione studentesca) tra docente e allievo.[18]
Due anni dopo si rivolge alla propria classe, a proposito di un caso disciplinare, con esplicita durezza:
«Mi chiedo e vi domando se si ritiene che oggi, [...] sia possibile e utile contestare per intero l’istituzione scolastica, come è stato fatto nel 1968-69, proporne l’abbattimento integrale. [...] La lotta alla scuola, nell’impotenza delle Nuove Sinistre, ha [...] aiutato a produrre una massa di dequalificati e di ignoranti. [...] Ritengo che sarebbe da parte vostra atto di maturità politica riconoscere che nella situazione presente taluni elementi della vecchia legalità scolastica – come fare i compiti, studiare, seguire lezioni e avere un rapporto corretto con gli insegnanti – possono essere non solo utili ma preziosi per mantenere una certa area nella quale possa formarsi il maggior numero possibile di persone capaci di capire il mondo e la società e di intervenirvi[19]».
La critica ai teorici della “descolarizzazione” – Descolarizzare la società è il testo chiave di Ivan Illich del1972[20] – si accompagna in Fortini alla distinzione fra “autorità” e “autoritarismo”:
«Scambiando autoritarismo con autorità gli studenti rischiano di dimenticare che non c’è autorità più cieca di quella che non è avvertita come tale. [...] Autorità è la voce, nello stesso tempo, dell’accordo e della gerarchia dei valori che sull’accordo si fonda. Hai l’autorità di un pensiero, di una verità, di un esempio. Finché non viene contestata in nome di una più alta, c’è l’autorità della propria esperienza; c’è quella del proprio passato irreversibile. Autoritarismo è invece l’insieme dei modi con i quali si impone una data gerarchia di valori. L’autorità accettata è stata sempre imposta? Sì, dalla forza del padre, del maestro, del signore, eccetera; ma solo fino a quando, contestata, non viene sostituita da un’altra autorità, quella che si è venuta costituendo nel corso della contestazione e che è l’altro nome della libertà. Questo credo possa essere il più semplice discorso sulla autorità. E va rammentato perché c’è oggi la tendenza ad opporre, all’autorità, l’eguaglianza[21]».
Non si può omettere, a commento di questa breve rassegna, di richiamare ancora una volta Antonio Gramsci e quello che il pensatore sardo chiamava “il conformismo dinamico”. Si tratta di un autore, lo abbiamo già detto, che ha molto contato nelle riflessioni fortiniane su questi temi. Di scuola ed educazione Gramsci parla in diversi luoghi dei Quaderni, ma è nel Quaderno 12 che lo fa in maniera più organica. Il pensatore comunista connette la questione dell’educazione a quella degli intellettuali: una sovrastruttura necessaria alle classi dominanti per il consenso e per la coercizione. In questa prospettiva è molto marcato il rilievo che egli assegna ai sistemi educativi come forme della riproduzione sociale (in ciò risultando forti le consonanze con un maestro della sociologia critica contemporanea: il francese Pierre Bourdieu). Tra i principali temi che emergono dalla ricerca gramsciana, ricordiamo i seguenti: la distinzione tra scuola attiva e scuola creativa, il nesso educazione-istruzione in polemica con l’idealismo, la rivendicazione di una scuola unitaria di base di cultura generale, la polemica contro l’oratoria e il dilettantismo, la nozione di conformismo dinamico, l’impegno dello Stato nella promozione dell’istruzione pubblica, l’educazione civile e scientifica in lotta contro le concezioni folcloristiche dell’ambiente di provenienza degli allievi, la categoria della mediazione, lo studio come lavoro necessario ad acquisire un abito di concentrazione fisico-muscolare indispensabile per la ricerca, la critica contro la concezione professionalizzante della scuola che perpetua e cristallizza le differenze sociali, la necessità di educare alla relazione con le diversità.
Nel Quaderno 12, steso nel 1932 e intitolato Appunti e note sparse per un gruppo di saggi sulla storia degli intellettuali, Gramsci scrive:
«La scuola creativa è il coronamento della scuola attiva: nella prima fase si tende a disciplinare, quindi anche a livellare, a ottenere una certa specie di “conformismo” che si può chiamare “dinamico”; nella fase creativa, sul fondamento raggiunto di “collettivizzazione” del tipo sociale, si tende a espandere la personalità, divenuta autonoma e responsabile, ma con una coscienza morale e sociale solida e omogenea. Così scuola creativa non significa scuola di “inventori e scopritori”; si indica una fase e un metodo di ricerca e di conoscenza, e non un “programma” predeterminato con l’obbligo dell’originalità e dell’innovazione a tutti i costi. Indica che l’apprendimento avviene specialmente per uno sforzo spontaneo e autonomo del discente, e in cui il maestro esercita solo una funzione di guida amichevole come avviene o dovrebbe avvenire nell’Università. Scoprire da se stessi, senza suggerimenti e aiuti esterni, una verità è creazione, anche se la verità è vecchia, e dimostra il possesso del metodo; indica che in ogni modo si è entrati nella fase di maturità intellettuale in cui si possono scoprire verità nuove»[22].
E ancora: «Conformismo significa nient’altro che ‘socialità’, ma piace usare la parola conformismo appunto, per urtare gli imbecilli» (Quaderno 14, p. 29 bis); «La disciplina […] non annulla la personalità e la libertà […] Battere l’accento sulla disciplina, sulla socialità, e tuttavia pretendere sincerità, spontaneità, originalità, personalità» (Quaderno 14, p. 30); «L’individuo è originale storicamente quando dà il massimo di risalto e di vita alla ‘socialità’, senza cui egli sarebbe un “idiota”» (Quaderno 14, p. 29 bis).
Queste riflessioni rivelano una profonda affinità con quanto andava scrivendo negli anni 1928-1930 il più originale pensatore marxista latinoamericano, José Carlos Mariàtegui:
«Esiste una possibilità di progresso e di libertà solamente all’interno del dogma. [...] L’eresia individuale è sterile. In generale, la fortuna dell’eresia dipende dai suoi elementi o dalle possibilità che ha di diventare un dogma o di entrare a far parte di un dogma. Il dogma, qui, è inteso come la dottrina di un cambiamento storico. E, come tale, mentre avviene il cambiamento, cioè finché il dogma non si trasforma nell’archivio o nel codice di un’ideologia del passato, niente garantisce quanto il dogma la libertà creatrice, la funzione germinativa del pensiero. Nella sua speculazione, l’intellettuale ha bisogno di appoggiarsi ad una credenza, ad un principio, capace di renderlo un fattore della storia e del progresso. È allora che la sua forza creativa può lavorare con la massima libertà consentita dalla sua epoca. [...] Il dogma non impedì a Dante, nella sua epoca, di essere uno dei più grandi poeti di tutti i tempi. [...] Il dogma ha il valore di un tracciato, di una carta geografica. [...] Il dogma non è un itinerario, ma una bussola per il viaggio. [...] Per pensare con libertà, la prima condizione è abbandonare la preoccupazione per la libertà assoluta. Il pensiero ha un gran bisogno di un itinerario e di un obiettivo. Pensare bene è, in larga misura, una questione di direzione o di orbita[23]».
Dialogando periodicamente con un gruppo di studenti milanesi al tempo della prima Guerra del Golfo, Fortini proponeva nel recupero della memoria e nella contemporanea descrizione del presente una via per resistere in questi anni di sconfitta:
«Studiare, restare uniti, guardarsi intorno, descrivere la propria condizione di vita con l’obiettivo di “sapere, far sapere, saper fare e fare[24]».
Sono stati questi gli ultimi insegnamenti per contrastare la dissipazione del presente, il rumore di fondo che destruttura i soggetti, toglie loro l’autocoscienza e la possibilità di ribellarsi. Quando Fortini invita gli insegnanti a occuparsi anche dei linguaggi pubblicitari per difendersi dalla menzogna, per alfabetizzare criticamente i giovani di fronte alle nuove forme di dominio ideologico, non fa altro che assegnare alla scuola quel ruolo di mediazione non passiva che i liberisti vorrebbero finalmente far cessare.
Quello che mi piacerebbe fosse è: una riduzione dei consumi. Con aumento dell’attenzione. […] Secondo me, la linea di avvenire dell’igiene mentale passa attraverso la diminuzione delle sollecitazioni: meno immagini, meno parole, meno musiche, meno tutto[25].
Nota del curatore
Questo testo ripropone, con lievi modifiche, lo scritto apparso in L’ospite ingrato, Società/conoscenza/educazione, Anno ottavo I / 2005, Quodlibet, Macerata 2005 e poi pubblicato come postfazione nel volume di L. D’Angelo, P. Massari, L. Pallini, a cura di, Allora comincerò… Franco Fortini nel ricordo dei suoi studenti, Bordeaux, Roma 2024.
Tra i tanti aspetti dell’opera e dell’impegno intellettuale e politico di questo protagonista della vicenda intellettuale italiana ed europea del secondo dopoguerra, abbiamo deciso di privilegiare il suo impegno educativo, prima come insegnante di Lettere negli Istituti tecnici di Milano e provincia poi come docente di Storia della critica letteraria presso l’università di Siena. Si tratta di una dimensione, quella educativa, che attraversa anche tanta parte della sua opera poetica e saggistica e che Fortini considerava gramscianamente molto importante nella prospettiva di una socializzazione democratica del sapere in nome di una prospettiva marxista che ha sempre assegnato un valore centrale all’istruzione come bene in sé, ai processi educativi volti alla crescita intellettuale e civile delle persone.
Tra i diversi contributi su questa dimensione dell’opera di Fortini, segnaliamo quattro recenti pubblicazioni:
[1] «Alle Giubbe Rosse nulla è cambiato, ormai da anni. Verso le sette di sera arrivano i letterati e i pittori, siedono, dopo un cenno di saluto alla compagnia, nelle sedie di vimini del marciapiede e della piazza o nella saletta interna fra gruppi di vecchi signori che giuocano a scacchi. Parlano rado, con voci soavi [cfr. Inferno, IV, 114, n.d.r.], una universale stanchezza dipinta sui volti. Ci sono tutti, o quasi tutti, anche perché nessuno di loro è stato riconosciuto idoneo o per alte protezioni o perché affetto da acuto nervosismo o perché l’epidermide – uno di costoro mi ha detto, in tutta serietà – si irrita prodigiosamente a contatto del panno grigioverde. Talvolta, qualcuno corregge le bozze di una antologia di poeti tedeschi o commenta ironicamente le novità comparse in libreria; perché escono ancora libri. Eugenio Montale siede immobile, socchiude gli occhi, soffia piano. […] Come nelle riviste letterarie è buon gusto non discorrere della guerra se non per vaghi, angosciosi cenni, così nelle brevi conversazioni si parla degli avvenimenti – l’avanzata russa, l’occupazione di Catania, il bombardamento di Roma – come di cose lontanissime, strani rumorosi fatti, materia bruta», in F. Fortini, Sere in Valdossola, Venezia, Marsilio, 1985, p. 21. L’edizione critica de La guerra a Milano. Estate 1943, si legge nel commento a cura di Alessandro La Monica, Pacini Editore, Pisa 2017.
[2] F. Coggiola, Un nastro di scena. I testi di Fortini per lo spettacolo “Bella Ciao”, in Il de Martino, “La meta che non so”: Franco Fortini, n. 4, 1995.
[3] F. Fortini, Sere in Valdossola, Venezia, Marsilio, 1985, p. 12.
[4] F. Fortini, Per la prima lezione del corso di storia della critica letteraria all’università di Siena (15 novembre 1977), in Indici per Fortini, a cura di C. Fini, L. Lenzini e P. Mondelli, Firenze, Le Monnier 1989, p. 9. Cfr. V. Woolf, Il lettore comune, Elliott, Roma 2022.
[5] Intervista a Franco Fortini, a cura di M. De Filippis, “La ragione possibile”, I, 1, maggio 1990; poi in Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di V. Abati, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 577.
[6] Che non significa, naturalmente, rifiuto dello specialismo ma della sua ideologia. Come dirà nella prefazione all’antologia laterziana del 1965, rivolta «a quella parte di ciascuno di noi che nella ricerca e serietà specialistica ama la serietà della ricerca senza credere nell’ideologia dello specialismo» (F. Fortini, Profezie e realtà del nostro secolo, Bari, Laterza, p. VII).
[7] Cfr. N. Chomsky e E.S. Herman, La fabbrica del consenso, Milano, Tropea, 1998.
[8] F. Fortini, Extrema ratio, Milano, Garzanti, 1990, p. 92.
[9] Cfr. E. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano 1995.
[10] P. Cataldi, Ricordi di un laureando, “Testimonianze”, XXXVIII, 2 (372), febbraio 1995, p. 67.
[11] Ricco e argomentato è il saggio di E. Zinato, La battaglia per il “sapere comune”: Fortini e l’insegnamento, “Allegoria”, VIII, 21-21, 1996, pp. 204-221. Nello stesso numero è apparso un inedito di Fortini dal titolo redazionale Sull’insegnamento della letteratura. Si veda, inoltre, la comunicazione di A. Allegra e L. Giustolisi, Fortini, l’insegnamento e la formazione, letta al convegno catanese su Fortini (Proteggete le nostre verità: memoria, eredità, generazioni, Università di Catania 9-10 dicembre 2004), ora in Dieci inverni senza Fortini. Atti delle giornate di studio nel decennale della scomparsa, a cura di L. Lenzini, E. Nencini, F. Rappazzo, Quodlibet, Macerata 2006, pp. 335-345. Vanno inoltre ricordati gli ottimi lavori di Chiara Trebaiocchi, Re-schooling Society. Pedagogia come forma di lotta nella vita e nell’opera di Franco Fortini, Pacini Editore, Pisa 2024, di Lorenzo Tommasini, Educazione e utopia. Fortini docente a scuola e all’università, Quodlibet, Macerata 2023, il quale ha anche curato Franco Fortini, Corsi universitari, Firenze University Press-USiena Press 2024 (accessibile gratuitamente online) e di L. D’Angelo, P. Massari, L. Pallini, a cura di, Allora comincerò… Franco Fortini nel ricordo dei suoi studenti, Bordeaux, Roma 2024.
[12] Rabbie e speranze, intervista a cura di R. Minore, “Il Messaggero”, 7 gennaio 1984; poi in Un dialogo ininterrotto cit., p. 345.
[13] Cfr. A. Vegezzi e F. Fortini, Gli argomenti umani, Napoli, Morano, 1969. Al 1972 risale una seconda edizione ampliata con letture di storia antica e medievale.
[14] F. Fortini, Asia Maggiore, Torino, Einaudi, 1956, ristampato in Id., Asia Maggiore. Viaggio nella Cina e altri scritti, a cura di D. Santarone, postfazione di E. Masi, manifestolibri, Roma 2007.
[15] F. Fortini, Profezie e realtà del nostro secolo, Bari, Laterza, 1965. Cfr. D. Santarone, “Profezie e realtà del nostro secolo”: un manuale critico di educazione alla mondialità, in L’ospite ingrato, Globalizzazione e identità, Anno terzo / 2000, Quodlibet, Macerata 2001, pp. 183-191.
[16] Così il cantautore Angelo Branduardi ricorda il suo ex professore: «Con lui ho avuto un rapporto bellissimo tra i 16 e i 18 anni, quando ero studente. […] La sua scuola era quasi una bottega rinascimentale. Lui ci invitava a casa sua il pomeriggio e ci leggeva grandi poeti e anche le sue poesie. […] Era un uomo molto sicuro e anche molto umile. Non aveva grandi competenze musicali e mi chiedeva continuamente indicazioni e precisazioni musicali. Molti anni dopo quell’incontro che mi ha segnato alla fine degli anni Sessanta ho trovato un foglietto con scritto ‘non perdetelo il tempo ragazzi’. È stata la prima frase di domenica e lunedì che poi ha dato il titolo al mio album del 1994. So che ha sempre seguito con interesse le cose che facevo e io non ho mai dimenticato le sue poesie e il suo grande rispetto per l’arte e la poesia. Tra tutte ricordo in maniera particolare le poesie di Foglio di via» (Parole d’amore. Intervista a Angelo e Luisa Branduardi, a cura di P. Jachia).
[17] Cfr. F. Fortini, Un materiale prepotente, “Corriere della sera”, 26 aprile 1989; Le scorribande della critica, “Il Sole 24 ore”, 13 settembre 1992; Nel labirinto delle antologie, “Il Sole 24 ore”, 29 agosto 1993.
[18] In “Linea d’ombra”, I, marzo 1983, pp. 59-60.
[19] F. Fortini, Su un caso disciplinare, “Azimut”, V, 26, novembre-dicembre 1986.
[20] Cfr. I. Illich, Descolarizzare la società, Mondadori, Milano 1972.
[21] F. Fortini, Il dissenso e l’autorità, in Questioni di frontiera, Torino, Einaudi, 1977, pp. 57-58.
[22] A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 1537.
[23] J. C. Mariàtegui, Difesa del marxismo, Roma, Fahrenheit 451, 1996, pp. 89-90.
[24] Andrea, Elisabetta, Enrico, Ettore, Grazia, Marco, Pour encourager les autres, “Il de Martino”, 4, 1995, p. 99.
[25] F. Fortini, Canzone e poesia, in “Il de Martino”, cit., pp. 48-49.