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Tempi moderni

Giacomo Puccini, tra genio e sregolatezza

Torre Del Lago, piccolo borgo toscano adagiato sulla costa della Versilia, è ormai luogo consacrato alla memoria del grande compositore Giacomo Puccini. Qui, sulle sponde del Lago di Massaciuccoli, sorge la Casa-Museo che per trent’anni fu la sua residenza.  Entrando a Villa Puccini si legge in un bassorilievo dello scultore Antonio Maraini:

«La Musa che piange il Maestro la Musica che sopravvive al Maestro».

A 100 anni dalla scomparsa le sue opere sono testimonianza di un’epoca ancorata alla cultura del melodramma italiano; oggi memoria storica di un intero popolo che, nell’Opera Lirica si è a lungo identificato.

Nel 2024 i luoghi di cultura e i teatri più prestigiosi del mondo gli hanno offerto un meritato tributo, a cominciare da Lucca, sua città natale, la Scala di Milano, l’Arena di Verona, il Metropolitan di New York, solo per citarne alcuni.

Un inizio difficile

Una dinastia di musicisti, organisti e maestri di musica sono i suoi antenati, (una sorte comune a quella di J. S. Bach), una discendenza che da cinque generazioni disegna il suo destino. Sebbene inizialmente il suo temperamento non sembri essere particolarmente incline allo studio della musica, sarà proprio nella musica che egli lascerà il segno. 

Le cinque sorelle: Iginia, Nitteti, Ramelde, Ottilia, Tomaide, e il fratello Michele furono gli affetti più cari della sua vita. Una famiglia numerosa che, in assenza del padre, morto prematuramente, ebbe non poche difficoltà economiche.

Per intercessione della dama di corte, la Marchesa Pallavicini, mamma Albina ebbe l’occasione di rivolgersi alla Regina Margherita di Savoia, “Madre di tutti i poveri” (Giuseppe Tarozzi, 1972, p. 14), che prese a cuore il progetto di aiutare il giovane Giacomo concedendogli un sussidio utile per il prosieguo degli studi musicali.

Un’epifania con l’opera e con l’amore per il teatro avvenne nel 1876. Da Lucca raggiunge Pisa a piedi per assistere alla rappresentazione di Aida di Giuseppe Verdi, opera da cui rimase letteralmente folgorato.

Giovanotto spavaldo e squattrinato lascia la sua amata Lucca per raggiungere Milano, città che gli aprirà le porte al successo. A cominciare dall’ammissione in Conservatorio, dove gli fu assegnata la classe di Amilcare Ponchielli, l’autore della Gioconda, poi al legame con Pietro Mascagni, suo compagno di studi che più tardi comporrà Cavalleria Rusticana. Infine, proprio Milano sarà la città del suo primo debutto al Concorso Sonzogno e la città di Giulio Ricordi, figura di riferimento per tutta la sua vita, confidente e stimato amico. 

A Milano, la svolta

Sono anni di grande fermento culturale, i giovani intellettuali si affiliano presto a quel movimento culturale della Scapigliatura che, ispirandosi ai poeti maledetti della vicina Francia, sfida i canoni della borghesia e si prepara a vivere una ventata di rinnovamento. Troviamo tra i seguaci, i rappresentanti della Giovine Scuola: Ruggero Leoncavallo, Arrigo Boito librettista di Verdi, Ferdinando Fontana, primo librettista di Puccini, Alfredo Catalani, suo amico e suo rivale da sempre.

L’angoscia esistenziale, la sofferenza per le miserie umane, amore e morte vivono in un connubio indissolubile. Le prime opere, Le Villy ed Edgar, non si impongono facilmente all’attenzione del pubblico e della critica, spesso avara di giudizi entusiastici nei confronti delle sue opere.

Si trattava pur sempre di comporre all’ombra di un gigante dell’opera nella storia della musica di tutti i tempi come Giuseppe Verdi.

Ma nel 1890 con Manon Lescaut si consacra finalmente Giacomo Puccini, l’operista italiano.

Il successo e la vita turbolenta

Il suo riscatto sociale si conferma quando l’allora critico musicale G. B. Shaw scrive su The World: «Mi sembra che Puccini, più che qualsiasi altro suo rivale, sia il più probabile erede di Verdi». (Giuseppe Tarozzi, 1972, pag. 41).

Arriva il successo economico. Da questo momento si abbandona al lusso sfrenato, compra terreni, case, ville, automobili, fucili di ogni tipo, barche, motoscafi, conduce una vita dissoluta; asseconda tutti i suoi piaceri e la sua vanità!

Piace molto alle donne, semplici, giovani sartine, cameriere, concubine, quasi un richiamo al catalogo di mozartiana memoria.

Le donne sono una costante, sognatrici e femme fatal, seducenti sì, ma vendicative. 

Dell’animo femminile canta passioni amorose, turbamenti; tragici epiloghi di una vita in cui l’unica salvezza a una condanna morale è il suicidio o la morte; l’angoscia consumata tra tormento ed estasi.

Iniziano gli scandali per una relazione extra coniugale con Elvira Bonturi che, divorata dalla passione per il compositore, abbandona il tetto coniugale portando con sé la piccola figlia Fosca. La vita sentimentale ruota intorno ad Elvira. Vivono travolti da una passione amorosa e morbosa, inasprita da violente gelosie, culminate con il suicidio, in casa Puccini, della cameriera Doria Manfredi, accusata da Elvira di essere l’amante del Maestro.

In questi anni difficili, sembra che la sua storia e i suoi drammi si consumino sul palcoscenico della vita e le donne, vere e proprie eroine, entrino ed escano dalla scena con il medesimo impeto con il quale si mostrano e si congedano dal vivere.

«La mia vita è un sacco di melanconia»

Dal vastissimo documento epistolare – sono state riconosciute 12.000 lettere, ma si suppone ne abbia scritte almeno 20.000 (Cesari, Giuggioli, 2022) – si potrebbe raccontare non solo il vissuto del compositore, ma tutta la storia dell’Italia borghese e contadina, la stessa che lentamente comincia a prendere le distanze dai temi patriottici cari a Verdi.

Non fu tanto il verismo a interessarlo, quanto la possibilità di raccontare se stesso, la semplice quotidianità, la giovinezza e le passioni sentimentali, insomma storie cariche di passione e sensualità tese a conquistare il piacere del popolo e portarlo a teatro. Scrive al suo librettista Luigi Illica: «Ti dissi di voler far piangere, è qui tutto. Ma credi che sia facile? Prima di tutto dove si pesca? E la fantasia nostra trova la cosa sacrosanta? Eterna? Non cerchiamo originali mosse, non lambicchiamoci il cervello in ricerche di nuovo. L’amore e il dolore sono nati col mondo e le movenze tanto dell’uno quanto dell’altro le conosciamo bene».

Il palcoscenico è il confine sfumato, ma essenziale dove rappresentare la quotidianità della vita stessa. La musica lega immagine, drammaturgia, arte scenica, tenendo insieme in un fitto intreccio di trama e ordito, la narrazione poetica e la melodia. 

Niente intellettualismi, sofisticate psicologie dei personaggi di fin de siècle, convive solo piacere e dolore, la piccola borghesia è sulla scena.

Il suo non è un mero dettato di situazioni sentimentali, ma un’evocazione di nostalgia e di rimpianto.

«La musica? Cosa inutile. Non avendo libretto, cosa me ne faccio della musica? Ho quel gran difetto di scriverla solamente quando i miei carnefici burattinai si muovono sulla scena. Potessi essere un sinfonico puro. Ingannerei il mio tempo ed il mio pubblico. Ma io? Nacqui tanti anni fa, tanti, troppi, quasi un secolo… e il Dio Santo mi toccò col dito mignolo e mi disse: scrivi per il teatro bada bene – solo per il teatro – e ho seguito il supremo consiglio». (Lettera a G. Adami).

Musica e libretto. La costruzione dell’opera

Il sodalizio artistico con i suoi librettisti Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, seppur tormentato da ripetute e continue ingerenze del compositore sulla scrittura e la drammaturgia, si conferma di assoluto successo.

A Giacosa il compito di lavorare sulla metrica, a Illica la parte creativa, la forza della drammaturgia; l’uno in antitesi con l’altro. La Santissima Trinità, Puccini è l’artefice, il Doge come lo definì l’editore Giulio Ricordi.

Puccini è inflessibile: impone la drammaturgia, la scelta dei personaggi, il testo, le parole, la musica. Lui crea, sostituisce, compone, aggiunge e sottrae le parti, rimaneggia continuamente il testo.

«[…] Io sono sicuro di inchiodare il mio pubblico e di non mandarlo via scontento, facendo così. E avremo allo stesso tempo un taglio nuovo di opera e bastante per tenere una serata. Scrivo anche a Illica. Mi dica due parole. Io sono fermo nel proposito e vado avanti nel lavoro». (Emiliano Sarti, Il mio mistero è chiuso in me. Vita e opere di Giacomo Puccini, dream book, lll ed., luglio 2023, pag.103). Questo è ciò che scrive in una lettera indirizzata a Giulio Ricordi dopo la prima di Madame Butterfly. L’editore non ha dubbi, si fida e si affida totalmente alle certezze ed ai capricci di Puccini.

Fu forse a causa del suo carattere testardo e risoluto, che naufragò anche la possibilità di una collaborazione con Gabriele D’Annunzio, con il quale ebbe in comune la passione per le donne, i motori, la mondanità e l’amore per il teatro. Fu al poeta che dichiarò di voler raccontare «il grande dolore in piccole anime». Dal canto suo il Vate risponde entusiasticamente: «spero di poter offrire al Maestro Puccini un poema ove il più ardente soffio umano attraversi le visioni della più insolita poesia».

Quel che resta tra i due è solo un copioso carteggio. Due personalità troppo ingombranti sulla stessa scena…

Eloquente leggere dalla penna dello stesso compositore che, in una lettera alla sorella Ramelde, così si commiata: «nevrotico, isterico, linfatico, degenerato malfattoide, erotico musico-poetico cardiaco fratello G. Puccini».

Una produzione di opere immortali

Seduto al pianoforte, sigaretta in bocca, fiore all’occhiello, sguardo al lago, alla pace, alla quiete, scrive capolavori indimenticabili come Boheme, Tosca, Butterfly, la Fanciulla del West, opera che debuttò nel 1910 al Metropolitan Opera House di New York. Sul palco due leggende italiane: Enrico Caruso e Arturo Toscanini. 

La stessa fortuna ebbero Il Tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi, il Trittico che nel dopoguerra debutta al Met di New York. Era il 1918.

Gioca con l’orchestrazione a cui riserva un’ambientazione più intima, cameristica, affidata a pochi strumenti da cui emerge quel cantabile struggente, sofferto, che culmina in un Tutti orchestrale di grande forza e slancio emotivo caro al grande Verdi di cui fu incontrastato erede.

Puccini continua sulla scia del Maestro: l'orchestrazione densa, la centralità del coro, la massima attenzione alla melodia, ma il suo sguardo è rivolto a Wagner, il cui stile si è già svelato in Bohème, e che poi avrà il suo climax in Turandot, dove si mostrano i primi accenni alla dodecafonia, all’utilizzo di sonorità più aspre, dissonanti, all’introduzione di bitonalismi.

La melodia si dispiega in tutta la sua bellezza, la melodia è la luce, un continuo chiaro-scuro per raccontare ancora una volta, la fragilità umana, e soffocare nell’oscurità dell’animo la principessa dal “cuore di ghiaccio”: Turandot.

Un’ opera di lunga e tormentata gestazione, in cui si respira finalmente aria di redenzione e felicità! Una favola dal sapore esotico, rimasta la grande incompiuta nella storia dell’opera lirica.

Sembra un segno del destino, il sopraggiungere della malattia, una diagnosi potente come un macigno: un cancro alla gola. Un finale tragico, come nel suo stile. Siamo chiamati a teatro, sulla scena sembra di assistere al dramma de l’Uomo dal fiore in bocca. 

Continuerà a scrivere privato per sempre della voce, quel tratto distintivo che ha caratterizzato i personaggi che lo hanno reso immortale. 

Muore in una clinica di Bruxelles il 29 novembre 1924.

Fatalità o presagio pensare che pochi giorni prima della sua dipartita avesse scritto le ultime battute per la morte di Liù, la giovane schiava in Turandot.

Nel Duomo di Milano, durante le esequie, risuona il Requiem che scrisse per la sua opera giovanile Edgar. A dirigere l’orchestra e il coro del Teatro alla Scala il Maestro Arturo Toscanini.

Nell’aprile del 1926, due anni dopo la sua morte, alla Scala di Milano, la Prima della sua ultima creatura. Sul podio un commosso Toscanini lascia la bacchetta: «L'opera finisce qui, perché qui è morto il Maestro».

Milano 15 luglio 2024, Turandot al Teatro alla Scala trionfa con un finale a sorpresa, lo stesso della sua prima rappresentazione. Il capolavoro di Puccini all’ improvviso è avvolto dal silenzio. A rischiarare il buio del palcoscenico saranno le mille piccolissime lampade votive che adornano i palchi e la platea.

Una scelta che fa discutere un po’, soprattutto i puristi dell’opera…

La musica riprende con il finale completato da Franco Alfano, in accordo con il figlio di Puccini, Antonio, e Toscanini.

La grande incompiuta Turandot, opera senza fine, ma segno tangibile della fine del melodramma italiano.

Bibliografia

  • Adami Giuseppe, Giacomo Puccini, Milano, Il Saggiatore 2022 (II ristampa).
  • AA,VV.. Enciclopedia della musica, Garzantina, Milano, Garzanto, 1972.
  • Cesari Francesco, Giuggioli Matteo (a cura di), Epistolario di Giacomo Puccini, vol. III, Firenze, Olschki, 2022.
  • Rugarli Giampaolo, La divina Elvira, Venezia, Marsilio, 1999.
  • Sarti Emiliano, Il mio mistero è chiuso in me. Vita e opere di Giacomo Puccini, Pisa, DreamBook edizioni, 2020. 
  • Tarozzi Giuseppe, Puccini la fine del Belcanto, Milano, Bompiani, 1972. 
  • Venezi Beatrice, Puccini contro tutti, Milano, Utet, 2024.

L'autore

Roberta Epifani

L'autore

Govinda Gari