Attualità

16 luglio 2021

Genova, vent’anni dopo

Sono già passati vent’anni da quegli indelebili giorni di Genova. Vent’anni che, a pensarci bene, sembrano molti di più per la densità di avvenimenti che li hanno caratterizzati. Solo per ricordare i più salienti, senza pretesa di esaustività: il crollo delle Torri Gemelle e le conseguenti guerre “al terrorismo” in Afghanistan e in Iraq; una crisi globale, iniziata come crisi del debito e diventata presto una crisi dell’economia reale, una crisi che da finanziaria si è fatta economica e sociale; un cambio di paradigma nel modello capitalista, con l’avvento delle piattaforme; una rivoluzione sul piano culturale legata alla diffusione dei social media (che a pensarlo adesso, lo slogan lanciato da Jello Biafra e fatto proprio da Indymedia “Don’t hate the media, become the media” ha un che quasi di preistorico). E per finire una pandemia che ha sconvolto il mondo e minato le certezze dell’umanità.

Come qualunque argomento di stretta attualità, lanciato come un sasso nello stagno della turbina dei social network, anche il ventennale di Genova non si sottrae alla polarizzazione che caratterizza il nostro presente. Ed in questi giorni è tutto un susseguirsi di argomentazioni a sostegno del “avevamo ragione noi!” contro “basta, è inutile autocelebrarsi”.

Credo sia necessario affrontare l’eredità di quella esperienza senza necessariamente prendere una posizione in questa polarizzazione, in fin dei conti fine a sé stessa, per analizzare attraverso una prospettiva critica cosa ha significato e cosa rimane, dopo vent’anni, dei protagonisti di quei giorni a Genova, racchiusi sotto la definizione ombrello di “movimento alterglobal”. Definizione, quella di “alterglobal”, che ho sempre preferito rispetto alle altre, proprio perché racchiude la visione di cui quel movimento era portatore, di un altro modello di globalizzazione, più che di un’opposizione ad esso.

L’eredità di Genova

Sostenere che dopo Genova il movimento alterglobal si sia liquefatto è frutto di una lettura superficiale e poco obiettiva dei fatti. La repressione e la violenza delle forze dell’ordine in piazza, la mattanza della scuola Diaz e le torture nella caserma di Bolzaneto - fatti così gravi da valere il poco invidiabile primato della “più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale” secondo Amnesty International - sono state sicuramente un duro colpo per la tenuta del movimento alterglobal, così come lo è stato l’attacco terroristico contro le Torri Gemelle, appena 6 settimane dopo le manifestazioni a Genova.

Ma dopo l’11 Settembre, il movimento alterglobal è stato capace di riallineare la sua agenda ai sopraggiunti cambiamenti dello scenario geopolitico, al mutato assetto globale che ha spostato l’attenzione non più sugli effetti nefasti della globalizzazione neoliberista bensì sul tema della guerra al terrorismo e sullo scontro tra civiltà (il clash of civilisations, teorizzato da Samuel Huntington nel 1992), portando il 15 febbraio del 2003 oltre 100 milioni di persone in 600 città del mondo a manifestare contro la guerra in Iraq, oltre 3 milioni soltanto a Roma. Ma non solo: pochi mesi prima, a novembre del 2002, Firenze era stata teatro del primo Social Forum Europeo, con la partecipazione di decine di migliaia di persone da tutta Europa. Furono anni di grande partecipazione, quelli successivi al 2001, e le istanze intorno a cui si è costruita quella partecipazione furono solo in parte intercettate e messe a valore dalle forze politiche che avrebbero dovuto rappresentarle.

Parte di quei temi e di quelle istanze, oggi, sono stati raccolti e rilanciati da Papa Francesco nei suoi discorsi rivolti ai movimenti popolari che, sotto l’egida delle «tre T» - tierra, techo, trabajo (terra, casa, lavoro) - hanno come obiettivo quello di riunire e mettere in rete le più rilevanti esperienze di lotta e rivendicazione a livello globale.

L’importanza dei corpi intermedi

L’eredità più importante che ci ha lasciato quella grande e strabordante esperienza di politica e umanità che sono state le giornate di Genova è testimoniato dal ruolo fondamentale che in quella fase hanno avuto i corpi intermedi della società: sindacati, associazioni, organizzazioni cattoliche, coordinamenti. Il supporto organizzativo di queste strutture, fondamentale e necessario per mettere in piedi eventi di quella portata, è stato fondamentale tanto quanto il loro contributo in termini di elaborazione dei contenuti, di mediazione tra sensibilità e prospettive che si sono (ri)scoperte diverse ma compatibili. E qui arrivo ad un altro punto per me fondamentale: l’alchimia di quella fase di mobilitazioni sfociata nelle giornate di Genova è stata possibile soprattutto grazie alla convergenza tra le due grandi culture politiche di massa del nostro paese, quella cattolica e quella di tradizione marxista e laica. Questa convergenza tra associazionismo di matrice cattolica e la variegata area dei centri sociali, dai Disobbedienti alle reti territoriali dell’ARCI alla Rete Lilliput ha permesso il costituirsi di reti organizzative e di comunicazione che potremmo definire “biodegradabili” - in quanto facilmente dissolvibili perché non definite da nessun accordo formale e create in molti casi in relazione ad iniziative o tematiche specifiche.

Questo aspetto fondamentale di convergenza e affinità, che ha fortemente connotato l’esperienza del movimento alterglobal, soprattutto in Italia, sì è però rilevato anche come un forte limite: le fasi di latenza del movimento, identificate dal compianto Alberto Melucci come momenti di sperimentazione ed elaborazione di nuovi significati e nuovi codici, sono state invece per il movimento alterglobal italiano negli anni successivi al 2001 frutto di tensioni interne che, nel tempo, ne hanno limitato portata dell’azione e spinta partecipativa. Un altro limite è stato quello di aver posto un eccessiva attenzione al prodotto dell’azione collettiva, al risultato tangibile, più che al processo di costruzione dell’azione stessa: come hanno compreso i movimenti apparsi una decina di anni dopo, dagli Indignados a Reclaim the Street,è necessario svincolare la logica produttivista dall’azione sociale, e rifiutarsi di introiettare l’imperativo della produttività nell’agire collettivo. Ed è proprio da questi limiti che, dopo vent’anni, firmatari e sottoscrittori dell’appello lanciato dal Genoa Social Forum devono ripartire.

Quanto successo durante quel luglio di venti anni fa, a Genova, e il movimento che ne fu protagonista sono stati oggetto della mia tesi di dottorato. I fatti di Genova hanno rappresentato molto più di un episodio chiave per la formazione politica della mia generazione. Sono il motivo che mi ha spinto a fare quello che oggi faccio, e sono.

L'autore

Emanuele Toscano