Attualità

11 settembre 2021

Quando il mondo si è fermato

«Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all'altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete: “Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene”. Il problema non è la caduta, ma l'atterraggio.» (La Haine, 1995)

«Una persona cade a capofitto dopo essere saltata dalla Torre Nord del World Trade Center. È stato uno spettacolo orribile che si è ripetuto nei momenti in cui gli aerei hanno colpito le torri.» (The New York Times, 12-11-2001)

«Tra i "falling men" anche una promessa del calcio afghano. Zaki Anwari è morto dopo aver tentato la fuga in aereo.» (Ansa, 19 agosto 2021)

La voce narrante di Hubert, in apertura del film La Haine, rappresentava le inquietudini che attraversavano le nostre metropoli al termine del Novecento (il film esce nel 1995) poco anni dopo la caduta del Muro di Berlino. I conflitti che attraversavano le nostre società avevano confini nuovi, tutti interni. Non più l’Est contro l’Ovest, ma le banlieue contro gli arrondissement del centro parigino, le periferie metropolitane, i confini della globalizzazione. E forse non a caso i tre protagonisti del film sono un ebreo bianco (Vinz), un algerino musulmano (Saïd) e un “nero” (Hubert). Il Novecento si chiudeva con un globo lastricato di guerre e di conflitti sociali localizzati e irrisolti: le periferie francesi e Los Angeles, Mogadiscio, il tracollo balcanico, la prima Guerra del Golfo per citarne solo alcuni. Drammi che vennero interpretati come gli ultimi scossoni di un vecchio mondo che moriva, nella speranza che un nuovo ordine globale democratico stesse finalmente nascendo. Anche se, a ben guardare, le divisioni etiche e religiose implicate nel processo di dissoluzione jugoslava, con gli scontri tra cattolici, ortodossi, quindi musulmani lasciavano presagire che altri scenari erano in movimento. A guardarli a ritroso, tutti quegli eventi erano il preludio di un caos che, in maturazione già da tempo, gettava le sue ombre sul nuovo secolo. In effetti c’era già chi profilava - e promuoveva - nuove inimicizie: ben oltre la fine della storia di Francis Fukuyama (1992), la globalizzazione assumeva il volto del nuovo scontro delle civiltà di Samuel Huntington (1996).

Per chi ha vissuto i drammi dei primi decenni del nuovo secolo, questa voce narrante richiama alcune delle immagini più strazianti del “nostro” 11 settembre: uomini e donne che precipitano dalle torri gemelle nell’estremo tentativo - come in un impossibile lancio di dadi - di darsi salvezza. In particolare, ricordiamo una delle foto scattate da Richard Drew dell’agenzia Associated Press, quella in cui la sagoma di un uomo con le braccia allineate al corpo e una gamba ripiegata si staglia sulle linee verticali di una delle due torri. L’11 settembre ci parve un vero e proprio attacco “al cuore dell’impero”: il World Trade Center, lo stesso Pentagono, rappresentavano l’inimmaginabile che si faceva reale. Di qui in poi, per quasi un ventennio le nostre metropoli sono state colpite da attentati e distruzioni per noi difficili da comprendere: non era certamente nuova la pratica terroristica, ma lo sembravano gli obiettivi e la logica suicida di queste violenze. Attentati che ci apparivano distanti dalla divisione destra/sinistra che ancora caratterizzava il terrorismo europeo o dalle contese nazionalistiche o etniche che avevano accompagnato i processi di decolonizzazione, il conflitto nord-irlandese e in fondo anche la storia di quello israelo-palestinese. Se è vero che le ragioni di tutte queste ostilità erano certamente più complesse, queste rassicuranti caselle analitiche avevano comunque permesso di razionalizzare e dare forma alla caoticità della storia della seconda metà del secolo. A fronte di queste certezze, l’11 settembre è stata una rottura: le categorie del passato, la nostra capacità di interpretazione dei fenomeni, sembravano non avere più presa. Cosa è, e cosa vuole, al Qaida?

Proseguendo il commento alle tre citazioni in esergo, la terza immagine è ci riporta ad oggi. Uomini perlopiù giovanissimi, figli delle vittime di quella lotta al terrorismo lanciata dopo l’11 settembre in Afghanistan, che traditi dagli “Occidentali” nelle loro aspirazioni di libertà e benessere, hanno tentato una impossibile fuga aggrappati alle ruote di un aereo in volo. Sappiamo oggi che le radici e le basi operative di Al Qaida non erano in Afghanistan, e sappiamo pure quanto fossero false e strumentali le posizioni di chi voleva esportare la democrazia con le armi. E conosciamo anche gli esiti della lunga “guerra al terrorismo”: innanzitutto le centinaia di migliaia di morti - nella grandissima maggioranza civili - vittime di bombardamenti, attentati, miseria, quindi il ritorno dei Talebani. Tutta la storia recente del Medio Oriente è segnata dalla devastazione delle “Torri Gemelle” e dalle guerre che ne sono seguite. Ed oggi, come ieri, New York e Kabul vedono uomini e donne cadere nelle maglie di una storia che sembra per noi non avere più senso, almeno non avere più un senso “politico”, se con questo termine pensiamo a un orizzonte storico, una visione, che orienta il presente verso il futuro.

Interpretato nell’arco storico che dall’89 ci conduce al ritiro della coalizione internazionale dall’Afghanistan lo scorso agosto, l’11 settembre 2001 si rivela quindi come un vero e proprio punto di singolarità storica, che non può essere ridotto alla sua drammatica spettacolarità, o nei confini della sicurezza globale, della geopolitica, delle nuove relazioni tra potenze. Non vi sono dubbi che la reazione in Afghanistan, al pari di quella in Iraq, fosse stata motivata dalla volontà statunitense di controllare le fonti energetiche mediorientali, dai tentativi di costruire nuove egemonie regionali e reti di alleanze, dagli interessi del complesso militare-industriale, dall’affermarsi dei tratti ideologici di quel “destino manifesto” che ha segnato l’ideologia neo-con statunitense ed europea.

L’11 settembre porta a termine un decennio densissimo e violento, quello che va dal 1989 al 2001 appunto, in cui si è imposto un nuovo ordine mondiale e si sono ridisegnate le geografie globali. Questo ordine ha visto emergere, come sua nemesi, la figura del “fondamentalista”, dell’attentatore suicida. E forse non è una storia, questa, diversa da quella che ha portato, a Genova, a spazzare via, con la violenza, un orizzonte alter-mondialista che aveva tentato di praticare e pensare altro. L’ordine che si andava imponendo non ammetteva fratture, tuttavia il reale si impone sempre sull’immaginario. In tal senso, dietro la figura ambigua e contradditoria del fondamentalista non vi era affatto una sorta di “medievalismo barbarico” di ritorno, ma l’emergere di una soggettività inedita, profondamente politica e globalizzata. Il terrorista islamico ha costituito una forma distruttiva e sostanzialmente conservatrice di “reazione globalizzata” alla “globalizzazione”. Non è un caso che gli esiti siano stati il rafforzamento degli autoritarismi e dei nazionalismi, dei militarismi, delle egemonie economiche e politiche.

L’11 settembre ci ricorda allora che, orfani dei grandi orizzonti ideali che hanno segnato il Novecento, noi siamo obbligati ad attraversare il nostro tempo sia nell’assenza di grandi visioni storiche, quanto di soggettività collettive che possano incarnare queste visioni. Al culmine dell’euforia globalista della fine del Novecento, parafrasando Gramsci, quegli attentati hanno mostrato quanto “il vecchio mondo stesse morendo” e come, mentre quello nuova tardava a comparire, nel chiaroscuro che si apriva “nascevano i mostri”. Contro questi mostri - niente affatto “alieni” - la memoria di ciò che è stato e di tutto quanto ne è seguito deve richiamarci a sforzi di comprensione storica, ma anche di azione politica e di pratica educativa, che sappiano far dare forma a quel mondo nuovo che stenta a comparire, ma che forse cova sotto le ceneri del presente.