Con gli occhi del mondo puntati sull'orrore di Gaza non si possono dimenticare altre disfatte di umanità. Lo fa Simama che in Swahili, significa stare in piedi, tirarsi su. È il nome che si prende un'associazione che ha sede a Modica, in provincia di Ragusa. Un gruppo di laici che viene da diverse parti d'Italia e che condivide l'esperienza comune di un viaggio, una lunga permanenza a Muhanga e nei villaggi limitrofi del Nord Kivu. È la regione ad est della Repubblica democratica del Congo, uno dei posti potenzialmente più ricchi del mondo. Se non fosse al centro d'appetiti occidentali per le risorse minerarie, quel coltan senza il quale le nuove tecnologie sarebbero al palo. Una regione che potrebbe sfamare con le sue risorse agricole e forestali un pezzo consistente dell'Africa, quella che non ce la fa a sopravvivere. Capita anche da quelle parti di avere un ceto politico che preferisce fare affari non proprio nell'interesse del suo popolo, che si autoalimenta con il susseguirsi di cleptocrazie rapaci. Il risultato finale è il solito, l'economia del paese se ne va a rotoli, i conflitti non danno tregua, il Congo è lo scenario di quello che può essere considerato uno dei più grandi disastri umanitari del secolo. Il Nord Kivu è teatro delle scorribande di gruppi armati, spesso senza un preciso progetto politico, assai più di frequente al servizio di precisissimi potenti interessi. Nelle zone rurali i servizi più elementari praticamente non esistono o sono al collasso. La sistematica violenza armata, l'instabilità, la privazione d'ogni diritto, delle libertà fondamentali, sta conducendo ad un esodo massiccio delle popolazioni che abbandonano i campi, in definitiva tutto ciò che rappresenta la cultura e la ricchezza di quel paese.
L'approccio di Simama alla questione del Nord Kivu viene dall'esperienza sul campo, un'esperienza che taluni operano da mezzo secolo. Non un'esperienza “canonica” di volontariato, quanto di più lontano ci sia dalla predisposizione di fondi e opere infrastrutturali calate dall'alto ed eterodirette. È esperienza di condivisione, di vita insieme, quella che apre lo scenario ad un altro modo di essere solidali, attraverso l'ascolto, la comprensione di quanto le energie delle donne e degli uomini del Nord Kivu siano stupefacenti, la loro cultura ricca. Da quelle parti ci sono intelligenze e risorse che non possono essere mortificate dalla consuetudine di semplici elargizioni. Quello che serve è dare voce a quelle energie, far conoscere davvero quale condizione si vive lì, mettere insieme i progetti che servono davvero, a cominciare da sanità, istruzione, sviluppo agricolo, lasciandone la gestione non a caritatevoli occidentali dalle loro capitali opulente, ma alle stesse popolazioni locali. Quello che serve è dare sicurezza, non costringere nessuno a fuggire, è necessario che chi sta lì non sia obbligato ad abbandonare la sua casa dove c'è tutto ciò che serve per vivere una vita dignitosa. Proprio in questa prospettiva, Simama, ogni anno, nella terza settima di ottobre aderisce all’iniziativa mondiale “Congo Week” organizzata da Friends of the Congo, proprio con l’obiettivo di rompere il silenzio sul conflitto e promuovere la consapevolezza della ricchezza culturale e naturale di questa terra, ricordata solo quando serve sfruttarla.
La manifestazione inizia il 18 ottobre, alle 18.00, con il Vernissage “Il Congo si presenta”, una mostra delle opere di Daniel Kambere Tsongo, a cura dell'A/telier (“non luogo di situazioni e contemporaneità”, via Pizzo, n. 42 Modica Alta – RG).
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Daniel Kambere Tsongo è nato nel 1963 e si è diplomato all'Accademia di Kinshasa. Ha esposto a Brazzaville, in Guinea Equatoriale, a Dak'Art nel 1996, al Centro Vallone di Bruxelles, a Liegi, Beizing e al Centro Culturale Francese di Kinshasa. È scomparso nel 2009 ma nella sua breve vita è stato pittore di pace, ha fatto della sua arte lo strumento per far “guerra” alla guerra, agli scontri violentissimi nel suo paese, ha armato i bambini dei suoi villaggi di pennelli e colori anziché di fucili, ha offerto loro una prospettiva altra rispetto a chi li voleva piccoli soldati al servizio di banditi senza scrupoli ed interessi lontani. Questa lotta per la pace Daniel l'aveva nel sangue, come il legame con la sua terra martoriata di cui sapeva riprodurre la sorpresa di colori vividi, di immagini tradizionali traghettati con competenza tecnica raffinata in una trasposizione contemporanea che sorprende. La cultura e l'arte per Daniel non sono neutrali, rappresentano lo strumento della rinascita, l'arma più potente di cui i giovani dispongono. Il suo è stato un messaggio di pace, un segnale di pace per la sua terra, ma è espresso con una profondità tale da diventare linguaggio universale. La costruzione di un'arte così caratterizzata non è mai stata semplice e sterile rivendicazione d'appartenenza. Le sue pennellate sembrano diventare vampe infuocate, denuncia ardente, talvolta quei colori forti spiazzano, paiono rabbiosi, celano indignazione autentica, ma anche voglia di riscatto; il fuoco ed il sangue si confondono, si sovrappongono, si permeano l'uno nell'altro. Le sue mostre hanno riscosso successi in Francia, in Belgio, negli Stati Uniti, avrebbe potuto accettare quella come prospettiva per se stesso. Ma dalla sua terra non è fuggito, ha capito che quello era il suo posto, lavorare coi bambini per costruire pace attraverso l'arte lo rende, rispetto al contesto, rivoluzionario. Sa bene che è lì che si deve stare, i giovani africani devono riconquistare l'orgoglio dell'appartenenza alla propria terra, ricostruire la memoria delle proprie radici, cercare in quelle le ragioni del proprio riscatto. Daniel non s'arrende all'idea ineluttabile della fuga dall'Africa: "Voglio esprimere la mia indignazione per le condizioni dell'emigrazione. Questo lungo viaggio di migranti illegali dal Sud al Nord deve mettere alla prova la comunità internazionale... i poveri dovrebbero pagare per la gestione disastrosa degli stati africani? Chi è responsabile degli stupri, della corruzione, del saccheggio delle risorse naturali e minerarie? Chi fa la guerra e chi sono le vittime? Chi si fa beffe dei diritti umani di fronte alla miseria e alla disperazione di molti candidati all'uscita?”. Quello della fuga, aggiunge in un'intervista, pare ormai “il passaggio obbligato per sopravvivere di fronte alla miseria degli africani tentati da nuove avventure”.