Cultura

01 dicembre 2022

Federico Caffè, a trentacinque anni dalla sua sparizione

La figura di Federico Caffè suscita allo stesso tempo ammirazione, rispetto e curiosità.

Ammirazione per una vita dedicata alla politica economica, agli studi, alla formazione di giovani. Rispetto per la qualità dei contributi forniti, sia in campo accademico sia su temi più concretamente collegati alla politica e alle scelte economiche. E curiosità per le modalità con cui trentacinque anni fa il professore è “scomparso”, non lasciando traccia di sé. In questi trentacinque anni più volte il caso è stato affrontato, se ne sono cercate motivazioni e testate ipotesi. Il tutto anche perché Caffè è caratterizzato da un numero impressionante di “allievi”, molti dei quali di indubbio successo: da Acocella ad Amoroso, da Franzini a Schiattarella, da Tiberi a Tarantelli, ucciso da un attentato delle BR dentro la Sapienza nel 1985, ad altri che alla carriera accademica hanno associato incarichi e responsabilità (tre nomi tra tutti: Guido Rey all’Istat, Ignazio Visco alla Banca d’Italia e, soprattutto, Mario Draghi, in vari ruoli e sedi). Allievi non associabili a un’unica corrente di pensiero ma tutti ispirati dalla scuola keynesiana del loro “maestro”.

Ed è appunto alla categoria di maestro che si richiama Daniele Archibugi nell’ultimo volume appena uscito (“Maestro delle mie brame. Alla ricerca di Federico Caffè”, Fazi editore) che ricostruisce in forma narrativa la vicenda della scomparsa su cui poi ha innestato commenti e considerazioni. Daniele ha tutti i titoli per parlarne in prima persona in quanto non è solo stato uno degli ultimi allievi, ma anche uno di quelli che gli è stato umanamente più vicino. Figlio di Franco Archibugi, amico di Caffè sin dal 1945 e testimone di nozze dei suoi genitori, Daniele ha unito alla frequentazione universitaria un rapporto personale, anche se caratterizzato dalle differenze di età e di caratteri e comportamenti.

Sull’ultimo numero 2022 (n.4, ottobre-dicembre, attualmente in stampa) della rivista cartacea Articolo 33, viene presentata una lunga intervista che tocca diversi aspetti presenti nel volume. Ne anticipiamo brevemente i contenuti.

In primo luogo il perché questo libro a trentacinque anni di distanza, viene motivato con la volontà di chiudere una ferita ancora aperta, e collegato alla scomparsa del padre di Daniele, Il già citato Franco, a 94 anni, appena due anni fa. Con l’occasione è riemerso un carteggio tra i due pieno di annotazioni economiche, politiche, musicali (uno degli interessi di Caffè) e questo ha portato alla volontà di fermare i ricordi anche per renderli disponibili a terzi.

Ma è forse sulle “lezioni”, e sulla loro attualità, che si concentra l’attenzione dell’autore. La prima è che il settore pubblico italiano - dalla scuola all’università, dalla sanità alla amministrazione pubblica - è pieno di veri e propri eroi sconosciuti. Ci sono un sacco di persone che lavorano nel settore pubblico con passione e abnegazione, spesso circonvenendo gli ostacoli amministrativi. Lui era uno di questi. Raccomandava a tutti i suoi colleghi ad impegnarsi di più per superare i problemi. E’ stato un buon amico dei Sindacati, e della CGIL in particolare, a cui ha offerto suggerimenti, idee, contributi senza alcun protagonismo. Oltre all’impegno individuale Caffè era anche un sostenitore dell’impresa pubblica, sebbene non fosse cieco nei confronti delle distorsioni associate alle partecipazioni statali. Era favorevole alla nazionalizzazione dell’energia elettrica voluta dal primo centro-sinistra nel 1962 - uno dei cavalli di battaglia di Pietro Nenni e di Riccardo Lombardi. Finalmente si riusciva a portare l’elettricità nelle parti più periferiche dell’Italia, e a prezzi abbordabili, visto che era stata introdotta una tariffa nazionale unica. Eppure, segnalava anche che questa nazionalizzazione era stata una sorta di “congiura degli errori”, ad esempio privando la nuova impresa di un adeguato fondo di dotazione.

Critiche che non si sarebbero certo indirizzate al sostegno alle “privatizzazioni”, molte delle quali avvenute sotto la direzione del suo più celebre allievo, Mario Draghi, quando è stato Direttore Generale del Tesoro dal 1991 al 2001, e quando Caffè era già scomparso.

Caffè aveva per anni lavorato presso la Banca d’Italia, conosceva assai bene gli strumenti della politica monetaria non solo dal punto di vista teorico, ma anche con la sua pragmaticità abruzzese. Aveva studiato le crisi finanziarie del passato, intratteneva i suoi allievi sulle vicende delle monete esistenti nell’Italia del ‘700. Insomma, ha insegnato ai suoi allievi che la politica monetaria non dipende solamente da fattori tecnici ed economici, ma anche da aspetti sociali, politici, psicologici.

Alla domanda finale se questo libro possa rappresentare la parola fine nella ricostruzione del suo rapporto col “Maestro”, Daniele risponde:” Sono continuamente assalito da ondate di ricordi, ho iniziato a rileggere i suoi scritti e continuo ad imparare nuove cose. Insomma, il suo spirito benevolente continua ad aleggiare nella mia vita. Ma soprattutto, mi ricordo di Caffè ogni volta che un giovane bussa alla mia porta. Lui aveva il grande talento di saper ascoltare i giovani, di capire quali fossero i loro desideri e aspirazioni, e soprattutto dare loro quella fiducia di cui ogni giovane ha bisogno. Non è certo facile, ma ogni volta che entra una ragazza o un ragazzo nella mia stanza, provo ad essere al suo livello”.

L'autore

Alberto Silvani