Politiche educative

30 novembre 2022

A scuola di...contraddizioni

Che l’Italia abbia un rapporto a dir poco idiosincratico con il mutamento sociale, ed in particolar modo con i processi della modernità, credo sia cosa fin troppo risaputa.

Andando un po’ in ordine sparso ed in ambiti disomogenei, si trovano esempi dappertutto: le famiglie fiorentine più ricche nel ‘600 risultano a tutt’oggi ancora le più ricche; il primo Presidente della Corte Costituzionale (dopo le dimissioni di Einaudi), Azzariti, aveva presieduto il Tribunale della razza e progettato l’ordinamento giuridico del fascismo (il suo busto nel palazzo della Consulta è stato rimosso solo di recente); sempre nel regime, l’insegnante era pressochè l’unico impiego pubblico, su buona scala, per il genere femminile (l’angelo del focolare), e ad oggi le donne rappresentano l’82,9% del comparto. Potremmo facilmente continuare...  

Mi viene in mente questo pensando appunto alla scuola, sulla quale i tentativi di cambiamento strutturale ed organico si avvitano inesorabilmente in un nulla di fatto e della cui impotenza è sufficiente un minimo di sensibilità in materia per rendersene conto. Quattro riforme negli ultimi vent’anni parlano chiaro (in Germania, forse, per trovarne altrettante occorre arrivare all’epoca di Bismark), più aggiustamenti e contro-aggiustamenti vari, che lasciano generalmente solo il nome del promotore/ice.

Come possono generarsi le condizioni affinchè, per la forza delle cose, si passi ad un nuovo paradigma, quasi nel senso descritto da T. Kuhn ne "La struttura delle rivoluzioni scientifiche?" (il Regolamento dell’autonomia e quello della contabilità non sono certamente arrivati a tanto). Il vecchio Marx vedeva nell’esplosione delle contraddizioni un motore decisivo a questo fine (le forze produttive verso i rapporti di produzione); la teoria dei sistemi di Luhmann indicava una soglia critica nell’incapacità dei sottosistemi di auto- riprodursi. Temo che la scuola italiana sia zeppa delle prime ed in seria marcia verso la seconda.

Cercare contraddizioni nella vita scolastica è purtroppo un esercizio agile e me ne vengono in mente diverse.  

Una letteratura, anche osservata, che parla di “individualizzazione” e “personalizzazione” dell’insegnamento (un’endiade non del tutto cristallina, ma ci siamo capiti) con le classi che contano anche 27 studenti o più (disabilità inclusa che ne prevede normativamente fino a 20), in barba ai livelli di differenziazione sociale che abbiamo davanti e che richiederebbero un PDP per ognuno; la misera retribuzione dell’insegnante a fronte della stucchevole litania su una professione “fondamentale per lo sviluppo del Paese”; l’inarrestabile ipernormativismo quale contrappeso alla mancanza di qualsiasi controllo sulla qualità del lavoro. E ancora: gli esili strumenti e possibilità con cui si pensa che gli istituti scolastici riescano a rispondere alle domande innescate da un disagio sociale giovanile che cresce in tutte le sue espressioni, per non dimenticare la proliferazione di metodi didattici, al cospetto delle rilevazioni OCSE che indicano risultanze sempre peggiori sui livelli di apprendimento raggiunti, e concludendo, per non stancare, con l’innominabile balletto di versioni dell’esame di maturità, che non mutano in nulla la sua struttura, quando la solennità del sostantivo richiederebbe intenzionalità e proposte di alto valore. Produrrà quel nuovo paradigma l’irruzione del merito piantata nella denominazione del ministero? Mi viene in mente sempre Marx, quando sosteneva che per cambiare qualcosa lasciandone inalterata la sostanza, si procedeva col mutarne il nome. Il merito richiama il talento, per sua natura distribuito senza distinzioni di censo? Si, ma per come viene tematizzato, questo dono somiglia tanto, in astratto, ad un bene di consumo: anche se eccellente, in assenza di un canale di commercializzazione adeguato non diventa un prodotto, cioè il mercato non se lo prende (mi si perdoni il linguaggio antipatico). Ed il “canale di commercializzazione” idoneo deve crearlo la Repubblica, secondo quanto disposto nella seconda parte dell’articolo 3 della Costituzione, altrimenti la contraddizione con il contenuto dell’articolo 34 diventa esplosiva, ed il modo, del tutto ruvido e ideologico, con il quale il nuovo governo ha introdotto la questione, fa presagire più una gerarchizzazione meritocratica che un giusto riconoscimento delle capacità. A mio parere finirà in qualche ritocco normativo, lasciando il fiume scolastico scorrere come al solito.  

Ciò che ho cercato di rimettere assieme, spero contribuisca a definire quello che a me pare il quadro inerziale della scuola italiana, davvero poco scalfibile dalle risposte che la politica finisce per offrirgli: senza un “pensiero lungo”, senza i confini di un programma organico, con conseguente attività di policies svincolate dal primo e dai secondi, non di rado sparate a casaccio fino ad essere addirittura de-contestuali, come l’ormai retorica commedia della formazione di insegnanti e presidi.

Aspettiamo allora che le contraddizioni esplodano, che la scuola non trovi più le condizioni per riprodursi o che sia il tempo a prendere una decisione? Se saremo costretti a questo non saranno però né i vertici istituzionali né la debolissima “minacciosità legale” del personale della scuola a far “saltare il banco”, producendo un mutamento generalizzato; saranno forse gli studenti, gli studenti con le loro infinite vie di fuga, le loro passioni tristi, i loro linguaggi avari di parole, con le loro richieste di poter rimediare a fine maggio il disimpegno di un anno (a proposito di contraddizioni), con le loro disperse aristocrazie della critica. Contiamo su di loro?  

L'autore

Sauro Partini

Docente di discipline giuridiche ed economiche all' Istituto Tecnico per il Turismo "Marco Polo" di Firenze