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Buone pratiche

La nonviolenza gentile di Danilo Dolci a cento anni dalla nascita

Non è semplice provare a sintetizzare una vicenda complessa e articolata come quella di Danilo Dolci: attivista civile e nonviolento, poeta, educatore, sociologo… qualsiasi definizione rischia di illuminare solo in parte l’opera di una delle figure più interessanti e originali del nostro secondo Novecento.

Proverò, tuttavia, a segnalare almeno le tappe più rilevanti della sua vicenda, con l’auspicio che queste poche tessere di mosaico possano invogliare chi legge ad approfondirne la conoscenza attraverso i numerosi libri disponibili e i materiali consultabili online (i siti principali cui far riferimento sono: www.danilodolci.org  e www.borgodanilodolci.com).

Dalla nascita a Sesana al trasferimento a Trappeto

Danilo Dolci nasce cento anni fa, il 28 giugno 1924, a Sesana, un piccolo paese del nostro confine orientale, al tempo in provincia di Trieste e oggi in territorio sloveno. I primi studi li compie in Lombardia, dove la sua famiglia si trasferisce al seguito del padre, dipendente delle ferrovie. Avendo maturato una decisa avversione al fascismo, a diciannove anni tenta di darsi alla clandestinità per sottrarsi alla chiamata alle armi della Repubblica di Salò, ma viene scoperto e arrestato a Genova. Riuscito a fuggire, sfruttando un momento di distrazione dei carcerieri, e superata fortunosamente la linea del fronte, trova rifugio in un borgo dell’Appennino abruzzese, Poggio Cancelli.

Nel 1950, alle soglie della laurea in architettura al Politecnico di Milano, decide che non gli interessa un futuro in cui dovrà occuparsi solo di “costruire case per i ricchi”: lascia gli studi e aderisce all’esperienza di Nomadelfia, “la città dove la fraternità è legge”, fondata da don Zeno Saltini nell’ex campo di concentramento nazifascista di Fossoli, dove si sperimenta una forma di vita comunitaria e non esiste proprietà privata. Due anni dopo matura una decisione ancora più radicale: si allontana da Nomadelfia per trasferirsi nel paese più povero e bisognoso di soccorso che avesse mai visto: Trappeto, a metà strada tra Palermo e Trapani, nel Golfo di Castellammare. Nel piccolo borgo marinaro, oggi apprezzata meta turistica, il fenomeno del banditismo imperversava tra la miseria più estrema, la mortalità infantile superava il 10% entro il primo anno di vita, una fogna a cielo aperto divideva in due l’abitato, causando periodiche epidemie. Accanto alle prime iniziative assistenziali consentite dalla generosità di alcuni gruppi di sostenitori, si dà vita a una casa-asilo per i numerosi bambini che, orfani o con un genitore in carcere, trascorrevano le loro giornate in strada: l’attenzione alle tematiche educative rappresenterà, infatti, una costante dell’intera traiettoria di Dolci. Ma persino un’attività di questo tipo verrà guardata con sospetto e, addirittura, stroncata con un’operazione di polizia.

Il primo digiuno e lo sciopero alla rovescia

Dopo aver assistito personalmente all’ennesima morte di un bambino per fame, Dolci valuta che non è più sufficiente limitarsi alle sole iniziative di soccorso caritatevole fino a quel momento faticosamente portate avanti. Il 14 ottobre 1952, sul letto dove si era spento il piccolo Benedetto Barretta (il padre si trovava in carcere per aver rubato alcuni limoni!), dà inizio al primo dei suoi numerosi digiuni, che richiameranno grande attenzione da parte dei mezzi di informazione e dell’opinione pubblica. La protesta, al tempo del tutto nuova per il nostro Paese, viene interrotta dopo una settimana, quando, con l’aggravarsi delle condizioni di salute di Dolci, le autorità regionali – probabilmente timorose del clamore che avrebbe suscitato la sua morte – si impegnano pubblicamente a eseguire alcuni interventi urgenti, come la costruzione di una fogna. Agli occhi delle popolazioni della Sicilia occidentale diviene chiaro che il digiuno, la pratica dell’azione nonviolenta possono costituire un efficace strumento di trasformazione delle condizioni di vita.

Sono anni di attività sempre più frenetiche, di iniziative che si susseguono senza sosta. Nel 1955 esce per l’editore Laterza Banditi a Partinico (da qualche anno nuovamente disponibile in libreria), tradotto presto nelle principali lingue europee. Il libro, che denuncia le disperate condizioni di vita nella Sicilia occidentale, ma anche il profondo desiderio di riscatto di quanti fino a quel momento erano rimasti privi di voce, conta tre edizioni in pochi mesi. Al lettore risulta evidente che i “banditi” di Danilo Dolci non sono delinquenti, ma cittadini esclusi da ogni possibilità di guadagnarsi il pane onestamente, costretti sovente all’illegalità dal disinteresse e dall’ottusità delle classi dirigenti del tempo.

Se un lavoratore può manifestare il proprio dissenso scioperando, cosa può fare un disoccupato per rivendicare i propri diritti? Chi non ha un’occupazione – è la risposta di Dolci – può protestare lavorando. Il 2 febbraio 1956 centinaia di disoccupati, con alla testa Danilo Dolci, muovono dalla Camera del Lavoro di Partinico e si recano presso la “trazzera vecchia”, una strada interpoderale resa intransitabile dalla mancanza di manutenzione delle amministrazioni locali che avrebbero dovuto provvedervi, allo scopo di renderla di nuovo percorribile. Si tratta di rendere evidente a tutti che il lavoro c’è e che non mancano persone desiderose di compierlo. Lo “sciopero alla rovescia” viene, tuttavia, stroncato da una violenta carica delle forze dell’ordine: Danilo Dolci, con gli altri promotori della manifestazione, viene arrestato, incarcerato all’Ucciardone e sottoposto a processo. Nel Tribunale di Palermo, alla presenza di giornalisti delle principali testate italiane e internazionali, sfilano tra gli altri, quali testimoni per la difesa, Norberto Bobbio, Carlo Levi, Lucio Lombardo Radice e Elio Vittorini, mentre Piero Calamandrei, nelle vesti di avvocato, pronuncia – pochi mesi prima della sua prematura scomparsa – la sua ultima, memorabile arringa difensiva. Le carte del processo, insieme ad altri documenti sulla manifestazione, confluiranno in un libro, Processo all’articolo 4, pubblicato a tempo di record da Einaudi e recentemente tornato nelle librerie per i tipi di Sellerio. Per Dolci non è lui a essere sottoposto a processo, ma uno dei primi, fondamentali articoli della nostra Costituzione: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società».

Nel 1958, gli viene assegnato il Premio Lenin per la Pace, che Dolci, pur non essendo comunista, accetta, dichiarando di considerarlo un riconoscimento alle “vie rivoluzionarie nonviolente”. I soldi del premio consentiranno la nascita del “Centro studi e iniziative per la piena occupazione”, che costituirà nei decenni successivi un incisivo strumento di promozione economica e civile per l’intera Sicilia occidentale.

Se per qualcuno Dolci è soltanto un pericoloso sovversivo da denigrare e ostacolare con ogni mezzo, per tanti diviene un punto di riferimento. Da ogni parte d’Italia e da molti paesi europei, giungono in Sicilia centinaia e centinaia di volontari desiderosi di contribuire a un ambizioso programma di riscatto, «continuazione della Resistenza, senza sparare». Gli attestati di stima e di adesione alle sue attività si moltiplicano: da Ignazio Silone a Cesare Zavattini, da Italo Calvino a Aldo Capitini, da Aldous Huxley a Jean Piaget, da Bertrand Russell a Erich Fromm.

Il ruolo nefasto giocato dalla criminalità organizzata nel tentare di soffocare ogni sforzo di crescita civile, democratica ed economica risulta agli occhi di Danilo Dolci sempre più evidente, mentre per tanti rappresentanti delle istituzioni la mafia neppure esiste. Con ampio anticipo rispetto ad analisi molto successive alla sua, Dolci preferisce non rivolgere la sua attenzione solo al livello “militare” del fenomeno, ma punta il dito contro il rapporto solido e capillare intessuto con ampi settori della politica locale e nazionale, introducendo il concetto di “sistema clientelare-mafioso”. Tuttavia, le denunce precise e circostanziate rivolte a esponenti di primo piano della vita politica siciliana e nazionale (sulle quali si veda l’ampia documentazione raccolta in Spreco, 1960 e Chi gioca solo, 1966), costeranno a Danilo Dolci e al suo collaboratore Franco Alasia un processo per diffamazione e una durissima condanna a due anni di reclusione. Caratteristica essenziale di tutto il suo percorso è il peculiare metodo di lavoro: Dolci è fermamente convinto che nessun progetto, per quanto astrattamente valido, possa risultare efficace se calato semplicemente dall’alto, escludendo la partecipazione attiva, sin dalla prima fase di analisi, di chi vi è coinvolto. La trasformazione di una società non può essere imposta dall’esterno, ma richiede un processo di chiarificazione, maturazione, graduale assunzione di consapevolezza, individuale e di gruppo: è quello che Dolci definirà “autoanalisi popolare” e, in anni successivi, “metodo (o approccio) maieutico reciproco”. Rifiutando categoricamente l’idea di propinare “verità preconfezionate”, di insegnare agli altri cosa è giusto fare, tutte le principali iniziative promosse dal Centro prendono vita e si definiscono nel corso di riunioni, in cui i cittadini interessati (donne e uomini, adulti e bambini), accanto a esperti delle discipline più diverse, si interrogano e ricercano insieme le risposte ai propri bisogni. È così, nel corso di alcune di queste riunioni con contadini e pescatori, che matura l’idea di costruire un “grande bacile”, capace di raccogliere la pioggia che cade copiosa nei mesi invernali per poterla utilizzare nelle torride stagioni estive: la diga sul fiume Jato – la cui realizzazione richiederà oltre dieci anni di lotte, digiuni, manifestazioni popolari – si rivelerà non solo una fonte essenziale di crescita economica per il territorio, ma – spezzando il monopolio esercitato dalla mafia sulle modeste risorse idriche disponibili – uno straordinario strumento di emancipazione e sviluppo democratico e civile. L’acqua di tutti, “l’acqua democratica”, ha favorito la nascita di numerose cooperative e attività imprenditoriali prima impensabili e reso nuovamente evidente agli occhi della gente che l’azione nonviolenta è in grado di determinare un cambiamento radicale, profondo e duraturo: nell’ambiente e nella vita delle persone.

Il terremoto e Radio Sicilia Libera

C’è una data precisa che costringe drammaticamente il Centro a rivedere i suoi programmi: il 15 gennaio 1968 un violento terremoto sconvolge la Valle del Belice, causando centinaia di morti e la distruzione di interi paesi. In pochi mesi, dopo aver contribuito alle prime, più urgenti attività di soccorso alle popolazioni, viene predisposto e presentato pubblicamente un ambizioso e dettagliato progetto di Città-territorio, frutto (ancora una volta) del confronto di esperti del calibro di Bruno Zevi con gli abitanti dei paesi devastati dal sisma.

Dopo oltre due anni di interventi parziali e inefficaci, con i terremotati che vivono ancora nelle baracche e non intravvedono un punto di svolta, Danilo Dolci e i suoi collaboratori Pino Lombardo e Franco Alasia decidono di dare vita a una nuova clamorosa azione di protesta. In nome dell’articolo 21 della nostra carta fondamentale (“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”), in un tempo in cui ancora vigeva il monopolio pubblico dell’etere, avvia le sue trasmissioni la prima emittente privata italiana, “Radio Sicilia libera, la radio della nuova Resistenza”, con lo scopo di lanciare un accorato SOS in favore dei baraccati e dare direttamente voce ai lavoratori, alle donne, ai bambini del Belice, alle loro denunce e alle loro speranze. 27 ore: tanto dura la diffusione delle parole della Sicilia libera. Il 25 marzo 1970, alla disperata richiesta di soccorso, lo Stato risponde con un’imponente operazione di polizia. Le forze dell’ordine fanno irruzione nei locali del Centro ponendo termine alle trasmissioni, le apparecchiature vengono sequestrate, i responsabili denunciati.

Che tipo di futuro, che tipo di sviluppo vogliamo per la nostra terra? Negli anni Settanta, accanto a iniziative volte a valorizzare la cultura e le tradizioni artigianali locali e con la diga ormai pienamente in funzione, si approfondisce sempre di più la ricerca in ambito educativo. Sulla base di un’approfondita analisi dei bisogni e dei desideri dei bambini e delle famiglie e contando sul supporto di molti dei più importanti educatori (tra gli altri Paulo Freire, Aldo Visalberghi, Mario Lodi, Gianni Rodari, Gastone Canziani, Bogdan Suchodolski, Otto Klineberg), nasce il nuovo Centro educativo di Mirto, immerso nel verde della campagna di Partinico, accanto al corso di un torrente. Tutto, persino l’altezza delle finestre, è pensato a misura dei piccoli studenti. Annota Gianni Rodari: «Tre sono per lui i fondamenti di un nuovo educare. Anzitutto, il rifiuto della forma-lezione. Poi la constatazione che si sa veramente solo quanto si scopre e si riscopre. Infine, la maieutica come necessità di sviluppare in ciascuno la capacità di scoprire, di creare, di promuovere necessari conflitti. Ma non si tratta di passe-partout didattici, o di espedienti. La scuola che si muove su quella strada può avanzare solo in presenza di una forte utopia. […] È chiaro che non si parla più soltanto della vita della scuola, ma di quella dell’ambiente sociale, dell’intero mondo di cui essa fa parte». I libri che meglio documentano questo capitolo del percorso di Dolci sono: Chissà se i pesci piangono (pubblicato nel 1973, ma da qualche anno nuovamente disponibile nel catalogo dell’editore Mesogea) e Il ponte screpolato (1979). Oltre che nel Centro di Mirto, che ancora una volta dovrà fare i conti con l’ostilità di gran parte delle istituzioni e con le mille burocrazie del nostro paese, la ricerca di Dolci e dei suoi collaboratori si affina nel corso di numerosi laboratori maieutici e seminari di studio, ospitati, in ogni parte d’Italia e all’estero, da scuole, università, associazioni. Dolci muove dalla distinzione tra trasmettere e comunicare e tra potere e dominio, per denunciare i rischi di involuzione democratica delle nostre società e il tentativo di emarginazione di ogni area di effettivo dissenso e smascherare il controllo sociale esercitato attraverso la diffusione capillare dei mass-media. Ma, come sempre, non si ferma alla denuncia: Danilo Dolci si rivolge «all’educatore che è in ognuno al mondo» per proporre un’alternativa fondata sull’esercizio dell’azione nonviolenta, sulla sperimentazione della struttura maieutica nei più diversi ambiti, su un profondo ripensamento dei rapporti tra le persone e le comunità sulla base di relazioni ispirate al «reciproco adattamento creativo» (tra i numerosi libri che raccolgono gli esiti ultimi dell’attività e del pensiero di Dolci, mi limito qui a segnalare Nessi fra esperienza etica e politica, 1993; La struttura maieutica e l’evolverci, 1996 e Comunicare, legge della vita, 1997).

La mattina del 30 dicembre 1997 Danilo Dolci si spegne. Malgrado una lunga e dolorosa malattia, solo pochi giorni prima aveva sottoposto ai suoi collaboratori la proposta di una serie di iniziative pubbliche volte a denunciare la situazione della Base NATO de La Maddalena, istituita segretamente e senza alcuna autorizzazione parlamentare, in quel tempo sede di sommergibili nucleari statunitensi.

Quelle che ho provato a tracciare sono solo alcune delle tappe più significative di una vicenda che ha attraversato in modo originale e fecondo la seconda metà del secolo scorso. Chi vorrà potrà liberamente proseguirne l’esplorazione attraverso i libri, i film, i documenti disponibili. Tuttavia, a cento anni dalla sua nascita, non riesco a immaginare un modo migliore per rendere omaggio alla memoria di Danilo Dolci, se non quello di tentare di ripartire dai tanti temi, dalle tante lotte e, soprattutto, dal suo peculiare metodo di lavoro, che, pur in un contesto radicalmente mutato, mi paiono profondamente connessi alle principali questioni dei nostri giorni.

L'autore

Giuseppe Barone

Vicepresidente del Centro per lo Sviluppo Creativo Danilo Dolci e coordinatore del Comitato scientifico del Borgo Danilo Dolci. Autore di numerosi saggi e articoli, le sue pubblicazioni più recenti sono Danilo Dolci, una rivoluzione nonviolenta (Altreconomia, 2024) e La forza della nonviolenza. Bibliografia e profilo biografico di Danilo Dolci (terza edizione ampliata, Dante & Descartes, 2024).

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