La rivista

Politiche educative

Guerra e pedagogia della pace

Con la caduta dell’Unione Sovietica era stata proclamata la “fine della storia” (Fukujama, 1992). La democrazia liberale - si diceva - trionfava a livello planetario, e non aveva più alternative. E dopo questo sarebbe venuta anche un’età di pace. Ma la storia non si è chiusa, e i suoi sviluppi hanno dissipato l’illusione della fine delle guerre. La conflittualità internazionale è cresciuta, e le guerre sono tornate a insanguinare territori posti ai confini dell’Europa. Eventi bellici che colpiscono gravemente la popolazione civile, e interrogano perciò drammaticamente la nostra coscienza. Qui non voglio entrare nel merito di questi conflitti (sui quali vi sarebbe molto da dire). Intendo pormi soltanto il problema di quale possa essere la risposta pedagogica al fenomeno della guerra. Può ancora avere senso l’idea di un’educazione alla pace? Oppure le reiterate guerre e il coro mediatico che le accompagna - tendendo non di rado a legittimarle - mostrano l’inanità di una tale prospettiva? Per abbozzare un tentativo di risposta, che non pretende di certo di essere conclusiva, esaminiamo rapidamente due strade verso la pace.

Le condizioni oggettive per la pace. Immanuel Kant
La prima è quella di individuare e realizzare le condizioni oggettive di possibilità della pace. A questo proposito, rimane paradigmatica la prospettiva etico-politica tracciata da Kant nell’opera Per la pace perpetua (1795). Secondo il filosofo di Königsberg, lo stato naturale dell’uomo non è la pace, ma la guerra. La pace va promossa attraverso un impegno storico, volto a realizzarne le condizioni oggettive. E qualora quest’ultime non siano soddisfatte, non sarebbe concesso «altro posto alla pace perpetua che non il grande cimitero del genere umano». L’alternativa della storia è quella tra pace duratura e autodistruzione del genere umano. E in un’epoca in cui gli armamenti sono sempre più micidiali, e gli arsenali atomici continuano a incombere sul mondo, queste parole rappresentano un serio monito per tutti gli uomini. Kant individua condizioni di tipo politico-giuridico, che riguardano il diritto internazionale e cosmopolitico. In particolare, il secondo articolo definitivo indica che «il diritto internazionale deve fondarsi su una federazione di liberi Stati» (Kant, 2012, pp. 59 et passim). Quindi, una condizione della pace è rappresentata dalla formazione di una comunità universale, che tuttavia non consiste in uno Stato mondiale (o nella supremazia planetaria di una qualche superpotenza), ma in una libera federazione dei popoli, secondo un universalismo che non cancella le identità nazionali. A questo proposito, si potrebbe pensare che la realizzazione storica di questa idea sia da vedere nell’Organizzazione delle nazioni unite, e - pur con tutti i limiti di questo organismo - almeno in parte è così. Tuttavia, Kant escludeva una pace imposta da una qualche potenza mondiale, che si potrebbe sempre trasformare in un dispotismo planetario. Di fatto, però, le due linee che egli ha indicato come alternative si sono affermate parallelamente: accanto a quella “federativa” che ha portato all’ONU, è rimasta quella che vede superpotenze in grado di agire militarmente (e che più di una volta hanno agito in questi termini) al di fuori di un mandato delle Nazioni unite. In questo modo, si è creata una contraddizione nelle condizioni per la soluzione pacifica dei contrasti internazionali: essa è garantita dal concerto delle nazioni o è imposta con la forza da una qualche superpotenza (sia essa l’America, la Russia o la Cina), che si riserva l’arbitrio di agire militarmente anche al di fuori di tale concerto? Questa contraddizione indebolisce gravemente la credibilità dell’ONU e del diritto internazionale (anche se, in ogni caso, rimane fortemente dubbia la legittimità di operazioni unilaterali di “polizia internazionale”). Così, l’universalismo che dovrebbe fondare la pace appare incrinato e compromesso (Losurdo, 2016), e il terzo al di sopra delle parti che dovrebbe comporre i contrasti internazionali appare in buona misura ancora irrealizzato (Bobbio, 1989).

Le condizioni soggettive per la pace. Maria Montessori
La seconda strada è quella di individuare e promuovere le condizioni soggettive di possibilità della pace. In questo senso, rappresenta un elevato esempio la prospettiva etico-pedagogica tracciata da Maria Montessori (1970). Nel pieno della “catastrofe” sociale e culturale degli Anni Trenta (Polany, 1974) - che avrebbe portato alla Seconda guerra mondiale -, ella tenne una serie di conferenze sulla pace: la prima a Ginevra nel 1932, l’ultima a Londra nel 1939. Secondo la pedagogista marchigiana, la realizzazione della pace (vista non come semplice assenza di guerra, bensì nei termini di una umana concordia) dipende essenzialmente dall’educazione. In particolare, ella indica la via per promuovere la pace nella liberazione del rapporto adulto/bambino da ossessioni autoritarie. La pace, infatti, non può realizzarsi se i bambini crescono nell’esempio del forte che è autorizzato a prevaricare sul debole. In altre, parole, l’educazione alla pace richiede di educare alla non violenza del rapporto umano, intendendo in questo caso per violenza non solo quella fisica, ma anche quella psicologica. Soltanto in questo modo si svilupperà una propensione soggettiva a rapportarsi in modo pacifico con i propri simili. A suggello di questa concezione, nel medesimo periodo, la Montessori formulava anche la prospettiva dell’educazione cosmica, fondata sull’idea dell’armonia universale tra tutti gli esseri viventi. Ovviamente, qui si dovrebbe aprire anche un discorso sulla lezione di Aldo Capitini (e quindi su quella di Gandhi), sulla sua prospettiva di una educazione alla non violenza, ma dobbiamo però rinunciarvi per ragioni di spazio.

Educazione alla pace e universalizzazione della giustizia
In linea generale, vi sono dunque due vie per la pace: una è quella etico-politica (esemplificata da Kant), l’altra quella etico-pedagogica (esemplificata da Montessori). La prima è di tipo maggiormente realistico, la seconda di tenore essenzialmente utopico. Si potrebbe pensare che una educazione alla pace consista nel seguire la seconda via. Tuttavia, all’educazione alla pace deve essere riconosciuto un carattere complesso, che in una certa misura abbraccia entrambe queste strade. La prima riguarda le condizioni oggettive della pace, la seconda quelle soggettive. Pertanto, che siano entrambe necessarie è facilmente comprensibile. Ma in che senso anche la realizzazione delle condizioni oggettive può ricadere nella sfera dell’educazione alla pace?

Nella Prefazione al volume Per la pace perpetua, Veca (2012) ne indica il motivo ispiratore nell’idea di una universalizzazione della giustizia. Parimenti, Losurdo (2016) indica nella realizzazione di un universalismo autentico la condizione di possibilità della pace. In altre parole, senza giustizia tra i popoli non è possibile una pace durevole. La giustizia deve assumere una dimensione mondiale: finché da qualche parte i diritti sono calpestati non vi sarà pace. Queste considerazioni fanno comprendere la necessità dell’impegno etico-politico contro le ingiustizie che lacerano il nostro mondo, della partecipazione alle iniziative e ai movimenti dediti a promuovere la giustizia e il rispetto dei diritti. E questo porta a ritenere che l’educazione alla pace debba includere anche l’educazione all’impegno etico-sociale (Bertin, 1975). I care era il motto della scuola di Barbiana: imparare a prendere a cuore le questioni di giustizia, contro l’indifferenza e il menefreghismo (e si deve ricordare anche la difesa dell’obiezione di coscienza da parte di don Milani; si veda L’obbedienza non è più una virtù). Educazione alla e nella non violenza e educazione all’impegno etico-sociale per affermare i diritti e la giustizia sono perciò le due facce dell’educazione alla pace. E ciò chiarisce anche che non si tratta semplicemente di educare alla mitezza, e tanto meno di abituare a starsene in pace, cioè a rimanere estranei ai conflitti e alla larga dai problemi che ne derivano. L’educazione alla pace implica l’impegno nella lotta alle ingiustizie. Lotta non violenta, condotta con le armi della testimonianza etico-civile, ma distante da una “pacifica” indifferenza.  Si potrebbe però osservare che quanto detto adesso è legato soprattutto a un conflitto asimmetrico, nel quale una parte - approfittando della propria maggiore forza - commette una ingiustizia verso l’altra. Allora chi non è direttamente coinvolto ha comunque la responsabilità morale di prendere posizione a favore della parte oppressa, e lottare in modo non violento al suo fianco (si rammenti l’etica della responsabilità di Sartre (1980): chi non fa nulla contro l’ingiustizia, di fatto, la accetta; e, quindi, se ne rende in una certa misura corresponsabile).

Educazione alla pace, educazione alla ragione
Cosa dire però del conflitto che deriva dallo scontro di istanze in sé legittime ma che stentano a trovare una composizione? In che modo, in questo caso, si può manifestare l’universalità della giustizia? Secondo il filosofo morale neokantiano Hare (2006), in concreto, l’universalità corrisponde alla reciprocità, ossia a ritenere eticamente legittime solo quelle situazioni nelle quali si accetterebbe uno scambio di ruolo con l’altro (perciò, la tortura non lo è). Cioè, la realizzazione dell’universalità richiede la capacità di riconoscere le ragioni dell’altro. In assenza di questo i conflitti tendono a degenerare e a sfociare nella violenza. Pertanto, occorre la capacità di riconoscere le ragioni dell’altro, senza la quale non vi può essere reciprocità, né universalismo. La “ragione” potrebbe essere definita proprio nei termini di una tale capacità. Di conseguenza, una educazione alla ragione (Bertin, 1975) appare necessaria per saper affrontare in modo non violento le situazioni di conflitto tra istanze legittime che possono insorgere nella vota sociale e politica. A questo scopo, però, non basta una ragione monologica, occorre che essa assuma un carattere dialogico. Soltanto nel dialogo vi può essere il riconoscimento reciproco delle rispettive ragioni, e soltanto dal dialogo può nascere la ricerca di una soluzione capace di conciliare le differenti istanze.

L’educazione alla pace sembra così articolarsi in un complesso di aspetti e direzioni, tra cui sembrano ineludibili: l’educazione nella e alla non violenza; l’educazione alla responsabilità e all’impegno etico-politico; l’educazione alla ragione e al dialogo. Si tratta di una strada lunga e impegnativa, e che non può promettere nulla di certo; può soltanto contribuire a creare alcune condizioni per la possibilità della pace. Senza la realizzazione di una comunità internazionale in cui regni universalmente la giustizia, la pace perpetua è probabilmente destinata a restare un ideale utopico. Tuttavia, se vengono a mancare tali condizioni, il flagello della guerra potrebbe estendersi ancora di più. L’educazione alla pace continua perciò ad avere senso: senza di essa lo spettro kantiano del cimitero del genere umano è destinato a diventare un rischio reale.

Riferimenti bibliografici

G.M. Bertin (1975), Educazione alla ragione, Armando, Roma.

N. Bobbio (1989), Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e sulla guerra, Sonda, Torino.

A. Capitini (1962), La non violenza oggi, Edizioni Comunità, Milano.

A. Capitini (1967-1968), Educazione aperta, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze.

F. Fukuyama (1992), La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano.

Gandhi (2008), Per la pace, Feltrinelli, Milano.

R.M. Hare, Scegliere un’etica, Il Mulino, Bologna.

I. Kant (2012), Per la pace perpetua, Feltrinelli, Milano (1795).

D. Losurdo (2016), Un mondo senza guerre, Carocci, Roma.

don L. Milani (s.d.), L’obbedienza non è più una virtù, Libreria editrice fiorentina, Firenze.

M. Montessori (1970), Educazione e pace, Garzanti, Milano.

K. Polanyi (1974), La grande trasformazione, Einaudi, Torino (1944).

J.P. Sartre (1980), L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano (1943).

Scuola di Barbiana (1967), Lettera a una professoressa, Editrice libraria Fiorentina, Firenze.

S. Veca (2012), Prefazione a Kant (2012).

L'autore

Massimo Baldacci

Professore di pedagogia generale all'Università di Urbino