La rivista

Politiche educative

Collegialità e lavoro cooperativo

Il contesto

Le prime elezioni scolastiche si svolsero nel febbraio del 1975, nell’intervallo tra il contratto dei metalmeccanici con la conquista delle 150 ore (aprile 1973), il referendum sul divorzio del 1974, la strage di piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974) e le elezioni amministrative del 1975. Eventi storici utili per ricordare e comprendere il contesto storico in cui si realizzò quell’evento.

Non inspiegabilmente dunque parteciparono a quelle consultazioni elettorali scolastiche, 10.843.000 genitori, cioè il 70% degli aventi diritto; oltre il 90% dei docenti, 87% del personale ATA, il 67% degli studenti.

Nella tornata del 1977, mentre reggono bene le componenti del personale della scuola e degli studenti, la percentuale dei genitori scende sotto il 50%. In larga parte questa flessione è dovuta all’offensiva delle parrocchie, timorose di una svolta a sinistra di larghi strati popolari. Avanza inoltre la stanchezza per una partecipazione che stronca motivazioni e passioni dietro una coltre burocratica in cui nuota bene solo chi conosce a fondo quella cultura. Iniziava tuttavia a consolidarsi nella classe dirigente democristiana la consapevolezza che l’irrompere nella scuola pubblica di centinaia di migliaia di giovani che, senza la legge del 1962 sull’obbligo scolastico, non avrebbero mai frequentato la scuola avrebbe modificato profondamente la condizione della scuola italiana e di chi vi lavora.

Il decennio 1962-1972 fu pertanto decisivo per una trasformazione profonda della scuola italiana. Infatti, dopo la relazione al Parlamento sullo stato della Pubblica Istruzione in Italia (1964) e il varo del “piano Gui” per lo sviluppo della scuola, compare il distretto scolastico come ambito per la programmazione edilizia, l’insediamento in tutte le scuole di un Collegio docenti, rappresentanti di famiglie ed Enti locali nei consigli di amministrazione degli istituti tecnici e professionali. E poi l’annuncio della costituzione dei consigli scolastici provinciali e degli Uffici regionali del ministero.

Tra il 1970-73, il clima è segnato dalla protesta studentesca, partita dalle università, e dalle grandi lotte sociali sostenute dalle Confederazioni sindacali, Un clima incandescente per l’acutezza dello contro di classe e il deflagrare della strategia della tensione nel Paese.

 La Democrazia Cristiana cerca di reggere lo scontro, avallando l’appoggio elettorale del MSI. Il Ministro Scalfaro propone l’attuazione del distretto scolastico per cancellare la richiesta che sindacato ed Enti locali entrino nei consigli di istituto. Di fronte a questi diversivi, le Confederazioni CGIL, CISL e UIL annunciano uno sciopero generale. Il governo porta allora in Parlamento una proposta di legge delega che viene approvata nel 1973. Ci vorrà ancora un anno perché vengano emanati i decreti delegati. Un lungo anno nel corso del quale il mostro burocratico cerca di smussare tutte le parti più innovative dei provvedimenti in essere, Alla fine questa ambiguità apparirà tutta; viene introdotto un modello sospeso tra una rinnovata centralità del potere ministeriale e le istanze di partecipazione sociale che solleciteranno l’apertura della scuola verso il territorio e persino la richiesta di elettività del capo d’istituto (Aldo Capitini è in prima fila per questa innovazione). A sinistra si apre un dibattito che durerà molti anni. Mario Lodi, Bruno Ciari, Gianni Rodari e altri, pur non sottovalutando i rischi involutivi insiti nella normativa, furono protagonisti di un movimento per la partecipazione attiva negli Organi collegiali. Una parte della sinistra restò molto scettica se non addirittura contraria, Mario Gattullo, vedrà nei decreti delegati un rinnovato centralismo ministeriale e un rischio acuto di corporativizzazione della categoria docente; Aldo Visalberghi, pur denunciando tanti limiti, vedrà nei neonati organismi partecipativi l’avvio di un nuovo modello di scuola più orientato alla cultura anglosassone e di impronta deweyana.

Il dibattito storico è ancora aperto. A me preme sottolineare tre punti che talvolta sono sottovalutati.

Una nuova stagione nella scuola

L’introduzione degli organi collegiali nella scuola determinò un esodo imponente di capi di istituto e docenti. Bisogna ricordare che prima del 75 non c’erano né capi di istituto né docenti con un minimo di esperienza di gestione della discussione in gruppo. Un’intera categoria professionale, smarrita, intimorita, impaurita anche dai toni del dibattito politico e dai quotidiani del tempo. La cultura conservatrice gridò all’arrivo dei “carri armati di Occhetto” (Achille Occhetto era allora il responsabile scuola del PCI), al sovversivismo al potere. L'esodo che si produsse favorì l'indizione di nuovi concorsi nella scuola che si realizzarono nel corso degli anni 70-80. Migliaia di nuovi docenti entrarono nella scuola e molti capi di istituto vennero sostituiti da docenti di orientamento progressista che avrebbero determinato effetti rilevanti nella evoluzione della figura professionale del dirigente scolastico e promosso le prime forme associative di questa categoria (i collegi dei dirigenti e le associazioni di categoria) e un rilancio forte del tema dell’autonomia scolastica che troverà sviluppi determinanti alla fine degli anni 90.

Ma soprattutto la stagione degli Organi collegiali ebbe un effetto profondo nel sensibilizzare le forze politiche e sociali (la CGIL Scuola nasce nel 1967) sulla crescente importanza per il Paese e il mondo del lavoro della scuola pubblica e del diritto al sapere come fondamento di un nuovo modello sociale.

Questo ci consente una considerazione di fondo importante in questa fase di percezione della debolezza della democrazia. La democrazia è anche un percorso carsico, a volte sembra scomparire, poi riemerge. Le esperienze di democrazia partecipativa stanno dentro processi molecolari di lungo periodo. Per questo non bisogna mai recedere dai livelli di democrazia partecipativa conquistati e mai dimenticare che la democrazia va curata con la cultura e la capacità di progetto per il cambiamento.

Negli anni 70, un contesto molto intenso, complesso ma ricco di sollecitazioni al cambiamento, consentì il realizzarsi di biografie che hanno segnato la storia di tanti anni. Oggi sono le biografie del presente che debbono avvertire la necessità di produrre contesti capaci di energia trasformativa.

Alla ricerca della collegialità

La collegialità emerge dai decreti delegati, e soprattutto dall’avvio dell’autonomia scolastica, come conseguenza di un auspicato processo di cambiamento della scuola: dalla cultura dell’adempimento (procedura individuale e formalismo) alla cultura del processo (del fare didattica, della scuola come comunità professionale, del risultato).

Una scuola dunque che supera la dimensione individualistica del lavoro e si orienta verso una cultura della scuola come organizzazione, come gestione di un delicato processo in cui tutti concorrono a raggiungere un obiettivo discusso insieme. Collegialità è dunque il processo che realizza l’efficacia dell’autonomia (concetto di responsabilità); un processo in cui svolge un compito delicato e rilevante il dirigente scolastico che è responsabile della gestione delle risorse finanziarie e dei risultati del servizio.

Se e quanto questo processo si sia innervato negli attuali organi collegiali di scuola, potrebbe essere un interessante filone di ricerca. Vediamo i due “luoghi” principali in cui si svolgono i processi.

Il Consiglio di istituto è il luogo del contratto formativo con il territorio, il luogo che deve definire come meglio utilizzare le risorse disponibili e in cui realizzare l’autovalutazione di istituto. Dall'esperienza, nel corso del tempo, è emersa una riserva crescente sulla presidenza affidata “formalmente” a un genitore, quasi a compensarne un ruolo marginale e generico. Si avverte la mancanza di una formazione dei membri del Consiglio (saper lavorare insieme su obiettivi scelti e discussi e su materie, come il bilancio, che richiedono formazione e aggiornamento). Resta complicata anche la presenza degli studenti e il loro alternarsi ogni anno. Indiscutibile la centralità del dirigente scolastico.

Il Collegio docenti. È del tutto evidente che un gruppo di 100 persone (e oramai sempre più spesso ben più vasto) non può decidere un bel nulla e non potrà mai avere un significativo rapporto di forza con il dirigente. Occorre dunque lavorare a ipotesi per predisporre le condizioni organizzative in grado di dare efficacia certa alla componente docente. Molte scuole si cimentano con l’organizzazione in dipartimenti e commissioni, chiamati a predisporre i materiali da sottoporre al voto collegiale. Nei collegi più numerosi si affacciano proposte di elezione di una giunta (con compiti di predisposizione delle delibere) formata dai coordinatori eletti da commissioni e dipartimenti. Alcuni si spingono fino alla proposta di eleggere un docente come vicepresidente del Collegio, in grado di tenere in permanenza il rapporto con i docenti.

Tutti segnali, più o meno incerti, che segnalano le priorità che dovrebbero essere messe sotto la lente della riflessione e della sperimentazione sul campo. Una sperimentazione libera, senza vincoli dall’alto, documentata con cura.

La cultura del lavorare insieme

La premessa è che il lavoro collegiale richiede una cultura del lavorare insieme. Una cultura che ha a che fare con la capacità di ascolto, di proposta, di dissenso costruttivo, fedeltà ai patti e agli impegni co-decisi, autovalutazione stringente. “Collegialità” non è pertanto un espediente organizzativo e se dovesse ridursi a questo vorrebbe dire una sola cosa: aver consegnato tutto il potere decisionale al dirigente scolastico e ai suoi fiduciari.

Collegialità è dunque trasformare in profondità il lavoro docente. Definire ruoli e impegni precisi di ciascuno; far emergere in tal modo le differenze e i carichi di lavoro da rappresentare poi nella contrattazione di istituto, senza precipitare tutto in figure rigide e fisse. Sarà poi la sperimentazione sul campo a indicare eventuali ipotesi di modifiche strutturali, evitando soprattutto che, in uno scenario che dovesse rimanere indifferenziato e generico, siano poi altri, il dirigente scolastico o il ministro di turno, a decidere il futuro della professionalità dei docenti.

È tempo di mettere mano a una cultura, professionale e sindacale, capace di realizzare questo obiettivo fondamentale per realizzare un processo di cambiamento. E questa cultura deve nascere e svilupparsi dentro la scuola, avendo lo sguardo largo sulla società in trasformazione. Possono le RSU essere lo strumento capace di ricostruire un senso alle relazioni nella scuola, fino ad avere l’ambizione di essere in grado di proporre esperienze concrete di modifiche all’organizzazione della scuola?

Una riflessione preliminare sui limiti e le potenzialità di questa importante innovazione, sarebbe di grande aiuto.

L'autore

Dario Missaglia

Comitato tecnico-scientifico nazionale Proteo Fare Sapere.