I Decreti delegati che hanno istituito gli organi collegiali appartengono a una stagione molto diversa dall’attuale. A una fase – quella degli anni Settanta – in cui il clima politico-culturale era ancora favorevole alle forze progressiste, che venivano da importanti conquiste sociali. Sul piano scolastico si possono ricordare la scuola media unificata, la scuola materna statale, il tempo pieno. Su un piano più generale il divorzio, lo Statuto dei lavoratori, le 150 ore (il cui spirito era intrinsecamente connesso ai DDL: in entrambi i casi si trattava di superare la divisione tra scuola e mondo del lavoro).
Il tema della partecipazione sociale alla gestione della scuola s’innestava in questo orizzonte di riforma democratica della vita sociale e politica del Paese, e ne rappresentava una coerente prosecuzione nella direzione dell’attuazione dello spirito della Costituzione. Esperienze come quella dei comitati scuola-città, voluti da Bruno Ciari a Bologna nella seconda parte degli anni Sessanta, sull’onda della sperimentazione dei Consigli di quartiere, avevano mostrato le potenzialità pedagogiche e democratiche della partecipazione sociale alla gestione delle problematiche scolastiche.
Tuttavia, per quanto concerne i DDL, la carica trasformativa delle forze progressiste fu imbrigliata dal governo nella rete di una vera e propria rivoluzione passiva, che produsse un mutamento-restaurazione molto inferiore alle attese. In particolare, erano esigui gli spazi realmente aperti alla gestione sociale. Era grave il limite di un’apertura ristretta ai soli genitori, anziché a un arco più ampio di forze sociali come era nell’ispirazione originaria. Ma era contraddittoria anche una partecipazione ristretta in forme rappresentative sin dai gradi più bassi (i consigli di classe), anziché prevedere per questi la forma assembleare (l’assemblea di classe).
Si pensò però che si aprissero comunque degli spazi di cambiamento democratico, mettendo in conto che questo avrebbe richiesto un lavoro di lunga lena per formare i docenti, i genitori e gli studenti a una partecipazione attiva e consapevole. Ci sarebbe, cioè, stato da pagare un prezzo storico prima di arrivare a un’autentica gestione democratica della scuola. La parola d’ordine era che la tigre della riforma andava cavalcata, pur con i limiti e le contraddizioni che la caratterizzavano. E fu sviluppato un lavoro generoso in questa direzione. Tale lavoro si scontrò però con almeno tre ostacoli: la predominanza di genitori di estrazione borghese negli organi collegiali; la permanenza di dirigenti e di insegnanti di orientamento conservatore; la viscosità della burocrazia scolastica.
Con gli anni Ottanta sopravvenne poi un progressivo raffreddamento del clima politico-culturale, e con esso delle condizioni per il cambiamento, che depotenziò la carica delle forze democratiche. Su questo influì certamente anche l’esiguità degli effettivi spazi di manovra aperti dai DDL, e la loro gestione burocratica da parte dell’istituzione. Ma soprattutto aveva iniziato a muoversi la controrivoluzione neoliberista, che alle conquiste democratiche sostituiva le preoccupazioni per la produttività e la competitività del sistema economico. E concepiva così la scuola come subalterna a quest’ultimo. Dagli anni Novanta l’attenzione si è poi spostata sull’autonomia scolastica, che però ha progressivamente subito una curvatura funzionalista, secondo il modello della scuola azienda e delle filosofie manageriali coerenti con l’ideologia neoliberista, per poi irretirsi a sua volta in forma burocratiche.
Gli organi collegiali sono così il lascito di una stagione di riforme democratiche che è declinata, e non di rado sopravvivono in forme burocratiche, svuotate in buona parte del loro spirito originario. Tuttavia, essi racchiudono ancora potenzialità democratiche che non devono essere trascurate, e sarebbe perciò discutibile decretare un loro fallimento senza appello o il loro anacronismo, prevedendone così l’abolizione. Forse il loro fuoco non è del tutto spento. Forse, sotto la cenere cova ancora qualche brace in grado di riaccendere il loro spirito originario.
Rilanciare gli organi collegiali, rilanciare il ruolo dei docenti
Certamente, la fase odierna è molto diversa, e vede ancora – nonostante la sua crisi – l’egemonia del neoliberismo e delle forze conservatrici, quando non apertamente reazionarie. Oggi rilanciare gli organi collegiali significa riattivare la battaglia per la democratizzazione della scuola. Tuttavia, non si può nascondere che tale rilancio si colloca in un quadro politico-sociale problematico. Se ne devono perciò ponderare attentamente le forme e le direzioni.
Considerato il clima sociopolitico – il predominio di concezioni che vedono la scuola come subalterna al mondo delle imprese e i rapporti di forza sfavorevoli alle forze progressiste –, riformare gli organi collegiali in maniera diretta potrebbe innescare vari pericoli. Per esempio, il tentativo di aprirli a una più ampia partecipazione sociale potrebbe presentare il rischio che tale apertura sia orientata in senso unilaterale ed economicista (con l’ingresso di stakeholder imprenditoriali, come è avvenuto per l’università). Si potrebbe rischiare, così, di inasprire la subalternità della scuola al mondo economico, e di produrre una ulteriore compromissione degli spazi di democrazia scolastica.
Il rilancio degli organi collegiali e della gestione democratica della scuola, forse, potrebbe evitare di avventurarsi immediatamente verso una riforma (ossia, verso una “guerra di movimento”), per passare preliminarmente da una gramsciana guerra di posizione. Si tratterebbe, cioè, di dare vita a una battaglia culturale volta a risvegliare le sensibilità democratiche e a riattivare le forze progressiste rispetto al tema della partecipazione scolastica.
In questo quadro, si potrebbe pensare a definire obiettivi intermedi, quali: valorizzare comunque le potenzialità democratiche degli organi collegiali; imprimere una curvatura democratica all’autonomia scolastica, e al rapporto docenti-dirigenza, superando l’attuale modello funzionalista e manageriale; stimolare il mutamento d’atteggiamento dei genitori e il rilancio del loro associazionismo democratico; sensibilizzare le forze politico-sindacali (la CGIL); et al.
La priorità potrebbe essere quella di rilanciare il ruolo dei docenti nella gestione democratica della scuola, rispetto al concorso delle forze esterne. Tale priorità non discende da un’ottica corporativa, ma da una precisa valutazione politico-pedagogica. Se si vuole che gli insegnanti possano attuare una educazione democratica e formare le cittadine e i cittadini di domani, essi non possono essere soggetti a un rapporto autoritario con l’amministrazione scolastica e con la dirigenza (sarebbe una contraddizione, che Dewey aveva segnalato). È necessario che gli insegnanti siano agenti a pieno titolo della gestione democratica della scuola. Solo autoeducandosi in senso democratico si possono educare gli altri alla democrazia.
Una determinazione attenta e ponderata delle strategie per rilanciare la partecipazione alla gestione scolastica non ci deve però impedire di riaffermare con forza il quadro dei valori etico-politici entro cui si collocava tale partecipazione. Dobbiamo sempre ricordare questo nesso e vedere gli organi collegiali in questa cornice. Tali valori sono quelli democratici che la partecipazione era originariamente pensata per realizzare nella concreta vita scolastica. Valori che sono iscritti nella Costituzione, che rappresenta il nostro riferimento ideale. Valori che non dobbiamo stancarci di ribadire con forza e di promuovere con decisione.
La realizzazione di una Scuola della Costituzione deve rappresentare la stella polare per orientare il rilancio degli organi collegiali e della partecipazione scolastica, riattivandone prima di tutto lo spirito democratico e costituzionale.
Professore di pedagogia generale all'Università di Urbino e presidente nazionale di Proteo Fare Sapere