La situazione storica in cui nacquero gli organi collegiali
Non crediamo esista qualcuno che non condivida l’analisi secondo cui gli organi collegiali di scuola sono figli di una stagione di grandi avanzamenti in termini di diritti civili e sociali quale fu quella che va comunemente sotto la categoria, ormai divenuta storica, di sessantotto italiano. Fu solo grazie al movimento di quegli anni, nato come studentesco ma tramutatosi presto in operaio e di classe, che storiche rivendicazioni, che agitavano la politica del secondo dopoguerra senza riuscire a passare, bucarono finalmente la resistenza conservatrice che aveva resistito per decenni: parliamo del divorzio e dell’aborto, bandiere radicali e socialiste, ma divenute realizzabili solo grazie a quel vento di svecchiamento delle strutture civili e sociali che il sessantotto italiano innescò.
E di innovazioni ne seguirono altre: l’apertura dei manicomi, lo statuto dei lavoratori, le 150 ore, la magistratura democratica, la salute in fabbrica, la riforma sanitaria, il nuovo giornalismo, non più ritagliato sulle veline fornite dagli uffici governativi.
La denuncia milaniana della scuola di classe divenne cosa viva e operante solo dopo il ’68, che si appropriò di Lettera ad una professoressa per farne una sua bandiera e un suo programma.
Fra questi avanzamenti non possiamo non annoverare anche i Decreti delegati e gli organi collegiali. La scuola veniva contestata come scuola di classe, alla scuola si chiedeva di abbandonare le sue procedure selettive per aprirsi al sociale, al territorio.
La nascita del movimento e le reazioni
I ceti dominanti si spaventarono. Furono colti impreparati da qualcosa di inedito, che peraltro, stranamente, si innestava su una crescita ininterrotta del Paese che usciva dalle sue radici contadine per entrare definitivamente nella modernità industriale.
Dopo il ’45 la Repubblica aveva conosciuto un poderoso sviluppo delle forze produttive e dei rapporti sociali tali da stravolgere ogni assetto che fino ad allora aveva dominato le relazioni umane nel nostro Paese. Nessun aspetto delle relazioni sociali poteva rimanere immutato se mutava la sua base produttiva. Lo stesso movimento delle donne, autonomo nella sua nascita e nel suo procedere, tuttavia nella ventata del ’68 trovò un clima favorevole per emergere e svilupparsi. Il ’68 fu questo: l’irruzione delle classi subalterne nello scenario sociale politico e la richiesta di appropriarsi di parte di quella ricchezza e di quelle opportunità sociali che lo sviluppo aveva creato. E nel contesto dell’epoca la veste politica non poteva non assumere la veste dello scontro di classi che uscivano dal guscio e di classi che pensavano di poter perpetuare il proprio dominio mantenendo intatti i valori rurali e tardo borghesi quali erano prevalenti nella prima parte del novecento (liberale poi fascista).
Non siamo qui per fare storia ma sappiamo che la reazione delle classi dominanti fu terribile. Gli equilibri internazionali non consentivano che l’Italia uscisse dal suo guscio di subalternità al cosiddetto schieramento del mondo libero e la paura allora era proprio quella. La DC, che aveva condotto le masse a cultura fascista dentro l’alveo democratico – altro che il MSI di Almirante sempre rimasto fascista al contrario di quel che tenta di accreditare l’attuale Presidente del Consiglio – veniva ritenuta non più in grado di garantire lo schieramento militare Nato: da ciò il terrorismo stragista a cui risposero gruppi di sedicenti comunisti, estranei alla cultura del movimento operaio, che era nato proprio sulle macerie della tattica terroristica ottocentesca per indicare nell'iniziativa di massa delle classi lavoratrici l’unico strumento di avanzamento nelle condizioni date di volta in volta di paese in paese.
Inevitabilmente e oggettivamente le stragi fasciste e il delirio terrorista furono convergenti nell’ indebolire tutto il movimento innescato dal ’68.
La situazione attuale e le possibilità di riforma degli organi collegiali
Oggi la situazione si presenta quasi a parti invertite. Basta dare uno sguardo allo scenario politico che altro non è che lo specchio di un rivolgimento epocale, punto di approdo provvisorio di ulteriori rivolgimenti che si sono verificati nell’ambito delle strutture materiali delle società avanzate e meno avanzate del pianeta nel corso degli anni novanta e dei primi decenni del nuovo secolo.
L’estrazione del plusvalore si è impossessata di ogni interstizio del nostro vivere quotidiano e la natura non è più al sicuro perché il meccanismo intrinseco della auto-valorizzazione del capitale è tale da non conoscere limite e condizionamento.
La natura intesa come elemento in cui si svolge la vita umana e l’umanità intesa come elemento della natura, sono aggredite e rischiano di perdersi.
L’intelligenza artificiale è l’ultima frontiera. È l’ultimo stadio della penetrazione della scienza nella produzione e, come sono state pervasive nell’intera vita del genere umano le industrie dell’800 e l’informatica del novecento, ancora di più lo sono le applicazioni dell’intelligenza artificiale.
Intendiamoci, tali rivolgimenti sono da salutare positivamente perché l’umano, da quando ha dato vita a sé stesso attraverso il lavoro, cosa che lo distingue dal vivente non umano, ha creato la natura umana che altro non è che la cultura. E questa non può essere arrestata. Non esistono frontiere, oltre le quali per l’uomo c’è il vuoto.
Il fatto è che tali incessanti rivolgimenti, che sono intrinsechi al modo di produzione che ha fatto penetrare la scienza dentro la produzione stessa, non sono guidati da un interesse generale e comune al genere umano, piuttosto dall’interesse di una sola parte, quella proprietaria, della società.
Allora l’innovazione non è subordinata immediatamente all’interesse dei produttori ma è subordinata a un meccanismo astratto di estrazione di valore da distribuire in maniera diseguale, sempre più diseguale fra le società e all’interno delle società.
Siamo in epoca liberista dove il sociale è sullo sfondo, il profitto è nell’immediato e le correzioni avvengono solo a tragedie avvenute non pianificando ma guidando e rallentando, se necessario, lo sviluppo.
La dialettica apertura/chiusura della scuola
Confrontiamo, dunque, ora le due epoche: quella in cui sorsero gli organi collegiali e quella presente in cui ci proponiamo di cambiarli.
In verità, degli anni ’70 del novecento abbiamo detto: un poderoso processo di democratizzazione e di svecchiamento dell’Italietta clerico-fascista metteva in questione il rapporto fra le classi e reclamava più spazi di libertà: libertà nel lavoro e libertà nella società. E le riforme che diedero vita al welfare le abbiamo elencate, anche se incompletamente, sopra.
La scuola e l’università furono nell’occhio del ciclone. La nuova intellettualità di massa che nasceva dalla richiesta di più scuola e di più cultura – basti ricordare la scuola media unica, il tempo pieno, le riforme della scuola dell’infanzia e della scuola elementare – non poteva sottostare a procedure superate e inadatte all’irruzione delle masse subalterne nello scenario politico-sociale.
Ma la scuola era gentiliana, ritagliata sulle esigenze di classe e rispondente a una base ristretta dello sviluppo delle forze produttive relegate al nord del Paese.
E l’Italia non era più quella del boom economico e dell’unificazione del Paese con lo sviluppo delle reti ferroviarie e autostradali. La scuola era chiusa alla società e occorreva aprirla alla società e fare appropriare il sapere alle classi subalterne.
La risposta contro-egemonica a questa istanza di appropriazione di massa del sapere fu nella scuola il varo dei decreti delegati e l’introduzione degli organi collegiali.
Gli organi collegiali da strumento di spoliticizzazione a strumento di resistenza
Gli organi collegiali nacquero con grandi speranze. L’irruzione del sociale nelle strutture scolastiche assunse un aspetto mediato. A scuola entravano solo i genitori e si dava spazio alla rappresentanza studentesca, ma altri soggetti venivano confinati in organismi territoriali, i Distretti scolastici e i Consigli scolastici provinciali (CSPI) che ben presto divennero delle scatole vuote abbandonate al loro destino perché prive di poteri incisivi sulle politiche pubbliche dell’istruzione.
Gli organi territoriali. Distretti e Consigli provinciali mobilitavano a ogni scadenza ancora per un decennio i partiti per la costituzione delle liste, ma poi li si lasciava vivacchiare sapendo che il loro potere consultivo valeva sempre meno se non proprio meno di zero.
Al contrario, a livello nazionale il CNPI (Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione) mobilitava in forze i Sindacati della scuola che trovavano il modo, prima che subentrassero le RSU, anche di misurare la loro rappresentatività, al di là del tesseramento, per ogni segmento scolastico, personale ATA, docenti dell’infanzia, elementare, media, media superiore e presidi.
E c’è da dire che se i Distretti venivano rapidamente a deperimento per mancanza di ubi consistam, tuttavia i CSPI e i CNPI a lungo mantennero una loro vitalità almeno per una funzione assai significativa che essi assolvevano, cioè quella di esprimersi sulle sanzioni disciplinari costituendo un luogo di esame della liceità dei provvedimenti a garanzia della libertà di insegnamento (per la scuola di base nei Consigli scolastici provinciali, per la secondaria e i presidi nel CNPI).
Distretti, Consigli provinciali, Consiglio nazionale furono lasciati sparire anche perché si pensava di sostituirli a breve con Organismi locali (dell’ampiezza di una ASL) e Organismi regionali, mentre a livello nazionale si sarebbe insediato un CSPI (Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione).
Ebbene, di questo disegno riformulatore e riformatore degli organi collegiali territoriali, previsto dalle leggi Berlinguer del ’98 e ’99, nulla è rimasto se non la rinascita del CSPI, grazie a una tenace battaglia della FLC CGIL che, tramite un ricorso, impose la re-istituzione del CNPI come CSPI le cui prime e, finora ultime, elezioni si svolsero nel 2015.
Attualmente quel CSPI del 2015 che avrebbe dovuto durare cinque anni in realtà è stato di anno in anno prorogato e ancora oggi vive. Le nuove elezioni si sono svolte il 7 maggio di quest’anno (2024).
E tuttavia qualcosa si è persa per strada: precisamente la funzione di tutela della professione docente che il Consiglio provinciale e il vecchio CNPI assicuravano, sicché essa è sparita per le scuole di base con la scomparsa del CSPI, ma è sparita anche per i docenti delle superiori con la scomparsa del vecchio CNPI dal momento che non è transitata al Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione.
Vi è da aggiungere anche che la scomparsa di questi organi territoriali, non sostituiti da quelli pensati dalla riforma Berlinguer del ‘99, lasciarono la scuola nell’isolamento: non vi erano più agganci territoriali, quali, pur nella loro sterilizzazione, rappresentavano i Consigli Distrettuali e Provinciali, e anche gli IRRSAE, gli Istituti regionali di ricerca e aggiornamento, venivano cancellati per centralizzare anche questo aspetto fino all’attuale Scuola di alta formazione la cui efficacia è tutta da dimostrare. Per non parlare anche della scomparsa, di fatto, di un altro importante supporto per le scuole, che, comunque la si pensi, era rappresentato dal corpo degli ispettori oggi ridicolmente ridotto a poche decine di unità di nomina regia senza concorso e senza aggancio alla didattica, ma solo come occhio amministrativo/punitivo del superiore ministero.
Gli Organi di scuola. Sorte analoga ma diversa subivano gli organi collegiali di scuola. Se è vero che, già dieci anni dopo, la partecipazione genitoriale era asfittica e occorreva faticare per trovare persone di buona volontà a comporre le liste per il Consiglio di Circolo e di Istituto, tuttavia la vita di questo organo ha continuato ad avere un suo senso, e sulla gestione concreta dell’istituto, su più svariate materie, ha avuto e, a nostro parere, continua ad avere un discreto anche se puntiforme e sporadico protagonismo: dalla protesta contro i tagli alle supplenze nel triennio 2010-2011 alla resistenza contro le invadenze “padane” al rigetto delle ingerenze del potere politico[1]. Ci ha colpito qualche mese fa la presa di posizione di un istituto romano che rifiuta il finanziamento per le aule innovative previste dal PNRR in quanto portatrici di una didattica trasmissiva ed etero-imposta: si può discutere il contenuto della posizione del Consiglio di Istituto, ma non si può negare una forza intrinseca che tuttavia questo organo esprime.
Ma dobbiamo essere consapevoli che gli organi collegiali di scuola hanno ricevuto, se non linfa, certamente veste di organi non comprimibili nei loro poteri dalla riforma del Titolo V e dalla riforma autonomistica.
Le scuole sono diventate dal 2001 istituzioni autonome, ma non di una semplice autonomia, concessa per legge e in quanto tale revocabile in ogni momento dalle maggioranze di turno, bensì di un’autonomia costituzionalizzata. L’autonomia delle scuole è intangibile in quanto autonomia funzionale della Repubblica. E allora gli organi collegiali sono asfittici, poco partecipati, ma comunque, seppur risalgono al 1974, sono l’effettività dell’autonomia scolastica. Qualcuno può sanzionare un Consiglio di Istituto che prende posizione contro Salvini, Valditara o una legge che non condivide e anzi rigetta? Nessuno può.
Non dobbiamo dimenticare che per una lunga stagione la formula rituale, “nel rispetto dell’autonomia delle istituzioni scolastiche” ha avuto l’equivalenza o addirittura la sua traduzione nella corrispondente formula “nel rispetto delle competenze degli organi collegiali”. Vi è stata come una identità di salvaguardia democratica che solo l’esistenza degli organi collegiali ha assicurato.
La stagione a cui ci riferiamo è stata una lunga stagione cha va dal 2001 al 2011 con un intervallo di due anni dal 2006-2008, anni in cui solo la presenza degli organi collegiali, traduzione effettuale possibile dell’autonomia scolastica nel frattempo intervenuta, ha potuto costituire punto di non di arroccamento ma di resistenza a stagioni sciagurate per la nostra povera scuola.
Grembiulini, corsi padani, port/folia, voti, minacce, ingerenze hanno trovato un antemurale negli organi collegiali come strumenti storici, radicati e presenti dell’autonomia scolastica.
Ancor di più questo discorso si attaglia agli organismi organizzativi didattici degli organi collegiali: i consigli di intersezione, interclasse di classe, i dipartimenti, i gruppi di lavoro, il Collegio dei docenti.
Anch’essi hanno vissuto e vivono di vita grama. Ma si può immaginare una scuola senza di essi?
Cosa non è andato, cosa non va?
Necessariamente su questo ci dobbiamo interrogare. Vi è certamente uno spartiacque in questo cinquantennio che dobbiamo tenere in gran conto: l’autonomia scolastica.
Anche in quel tornante della scuola italiana sorsero grandi aspettative, grandi speranze. Anche perché, a nostro parere, si era partiti con il piede giusto.
L’autonomia si poteva pensare, non affidando alla scuola così come si trovava, tout court, la gestione del personale, tant’è che ci si proponeva di accompagnare il processo di autonomizzazione delle scuole con alcuni provvedimenti allora ritenuti indispensabili.
Un organico funzionale era il primo, ma poi anche l’istituzione dei CAS e dei CSI: i primi, Centri di Servizio Amministrativo, prefiguravano un potenziamento degli allora Provveditori sul piano del supporto alle scuole nella dimensione amministrativa; i secondi, Centri di Iniziativa Scolastica, erano pensati per supportare le scuole nella dimensione didattica. Inoltre era prevista la riforma complessiva degli organi collegiali a livello scolastico e territoriale.
Nessuno di questi propositi ha trovato attuazione.
Degli organi territoriali abbiamo detto. Si è ancora in attesa di una loro rinascita e istituzione.
Ma per quanto riguarda gli organi di scuola, essendo essi ancora vivi e operanti, almeno sulla carta, dobbiamo fare un’attenta riflessione sul loro funzionamento.
Hanno funzionato nella scuola primaria con le due ore di programmazione settimanale affidate interamente alla professionalità docente? Non hanno funzionato negli altri segmenti scolastici per la presenza di non professionisti (genitori e studenti)?
Si è fatta confusione fra organi di gestione e organi tecnici?
Rimane una domanda di fondo. Quanto gli organi collegiali restituiscono, in termini di produttività, di soddisfazione professionale, di appagamento lavorativo al singolo docente, al Dirigente scolastico, al personale ATA, ai genitori, agli studenti? È domanda ineludibile a cui occorre dare una risposta plausibile. Perché, un ente, un organo, un soggetto – in questo caso un soggetto istituzionale – o restituisce qualcosa di sé alla comunità oppure viene vissuto come un orpello, un ramo secco di cui ci si deve magari liberare.
Gli interventi delle forze politiche nel cinquantennio
Istituita l’autonomia scolastica, mai davvero decollata, le forze politiche hanno tentato a più riprese interventi, più che riformatori, “de-formatori”. Per fortuna nessuno di essi è andato in porto. Ricordiamo.
La riforma Aprea (anni 2001- 2006) con la sua gerarchizzazione della funzione docente e con il suo sostrato aziendalistico (Consiglio di amministrazione, estromissione degli ATA dagli organismi, presenza di esterni nei consigli, presidenza al dirigente scolastico anche dei Consigli di circolo e di istituto, staff dirigenziale).
Il tentativo del Governo Monti (2011/13) con gli statuti alle scuole, l’estromissione degli ATA dai Consigli, l’istituzione degli organismi locali e regionali.
La controriforma della legge 107/2015 con la sua chiamata diretta dei docenti, i bonus premiali previa valutazione dei docenti da parte del Comitato di valutazione con la presenza di esterni e non professionisti, lo spostamento degli indirizzi del PTOF in capo al DS (era in capo al Consiglio di Istituto), la facoltà del DS di nominare il 10% dei docenti come suo collaboratore. Di tutto ciò nei fatti è rimasto solo lo spostamento in capo al DS della determinazione degli indirizzi per la formulazione del PTOF. E non è poca cosa, sul piano dei principi, dal momento che l’individuale, anzi addirittura il monocratico, viene fatto prevalere sul collegiale. Il resto di quella legge, che autodefiniva buona scuola, è stato smantellato dall’azione sindacale.
Quali proposte
Quali proposte per rivitalizzare gli organi collegiali possiamo avanzare?
La FLC CGIL nel dibattito, che si è fermato ormai a 10 anni fa al tentativo riformatore del governo Monti, ha elaborato e avanzato proposte che possiamo riprendere e aggiornare.
Consiglio di istituto. Innanzitutto ci chiediamo: quale rapporto con l’esterno in questa fase di imperante liberismo? Non possiamo nascondere il fatto che, che in questa fase di trionfante pensiero che riduce tutto a merce fino a farne il vero feticcio del nostro vivere quotidiano, la fase in cui la scuola subisce una vera e propria aggressione da cui difficilmente si può difendere come, bene o male, ha fatto finora, la presenza di esterni nei Consigli di istituto a noi, oggi, pare assai problematica. Ma non può essere esclusa nella misura in cui è la medesima scuola a scegliere gli interlocutori nella durata e nella dimensione.
Una ristrutturazione degli organi collegiali, poi, non può fare a meno di approfondire quello che è un principio basilare della efficienza delle organizzazioni, e cioè la distinzione delle competenze. Noi pensiamo che gli organismi ibridi, dove la confusione delle competenze regna sovrana, perdano verticalmente la loro funzionalità.
Consigli di intersezione, di interclasse e di classe. In questi organi la presenza di non professionisti non ne abbatte l’efficacia e l’efficienza: secondo noi questi sono organismi di carattere professionale che devono essere a disposizione esclusivamente dei professionisti dell’insegnamento e della didattica, dei soli docenti.
Ma ciò non può non accompagnarsi a una ristrutturazione tale da costruire sedi dedicate ai non professionisti con poteri consultivi e di proposta, obbligatoria ma non vincolante. Le assemblee o comitati di genitori e studenti, strutturati, eletti e fatti funzionare con un raccordo stretto con i docenti in sedute specifiche potrebbero dare respiro a una partecipazione che oggi non c’è e che, quando c’è, solo al momento elettorale, assume la forma delle delega e della contestazione dei medesimi eletti a cui tutto è stato delegato e a cui su tutto ci si rimette pretendendo soluzioni personali e non collettive.
Collegio dei docenti. Soprattutto oggi, in presenza di quelle che efficacemente Massimo Baldacci ha definito scuole alveari, con numerosissime sedi e con una verticalizzazione di più ordini e di più indirizzi, la funzionalità è saltata. E, parimenti, la stessa professionalità del Dirigente come leader educativo e dei docenti, come membro eminente di collettivi professionali è saltata.
Secondo noi occorrerebbe una sua articolazione in dipartimenti, sezioni, consigli di classe, gruppi di ricerca sperimentazione e sviluppo, gruppi territoriali incardinati sui plessi e sulle succursali lavorando preferibilmente per sessioni (due/tre all’anno).
In questa trasformazione il sindacato può avere un ruolo tramite la contrattazione come già, all’indomani del varo dell’autonomia scolastica, esso ebbe insieme all’ARAN, con i contratti del 1999, 2003 e 2007, un ruolo cruciale nel finanziare istituti e attività che altrimenti mai avrebbero visto la luce (commissioni, funzioni obiettivo poi diventate funzioni strumentali, aree a rischio e molto altro).
La costituzione delle Associazioni territoriali di scuola a rappresentanza plurale. Noi siamo favorevoli alla costruzione di specifiche Associazioni di scuola. Dobbiamo dirci con chiarezza che le reti di scuola, come concepite dal Decreto sull’autonomia scolastica, possono avere una loro funzionalità come reti di scopo, vocate ad affrontare singole questioni e destinate a scomparire una volta assolto lo scopo per cui sono state costituite. In questo quadro ha anche un senso che esse siano rappresentate dal DS. Ma se si vuole dare un respiro più ampio, una finalizzazione di rappresentanza in un determinato territorio alle scuole di quella zona, occorre procedere alla formazione di associazioni di scuole a rappresentanza plurale con l’obiettivo di esprimere proprie elaborazioni, proposte, rivendicazioni e pareri alle istituzioni corrispondenti. Se poi si costituiscono gli organismi di zona, come prefigurati dalla riforma Berlinguer, le associazioni potrebbero rappresentare il luogo della rappresentanza e dell’interfaccia di quelle medesime istituzioni.
Con elezioni di secondo livello si dovrebbe arrivare alle rappresentanze regionali e nazionale.
La nostra iniziativa memorialistico/politica
La nostra iniziativa non si propone di fare semplicemente rievocazione e memoria di un tempo che fu, anche perché quel tempo ci parla ancora oggi con i suoi lasciti e, banalmente, con questi organi collegiali senza i quali, noi almeno, non sappiamo più immaginare la scuola, ma vuole avere questo intento: stare in campo ricordando sì, ma stimolando e proponendo.
Ma, attenzione! Noi pensiamo che nessuna proposta, nessuna legge, nessun buon proposito possa avere reale praticabilità se non si creano le condizioni di una partecipazione vissuta e realizzata al fine di rivitalizzare gli organi collegiali. Ci vuole movimento, ci vuole confronto di massa, dibattito, coinvolgimento di tutte le componenti.
È necessario riprendere un discorso sull’autonomia, tornare ai fondamentali di essa, come architettura istituzionale supportata dagli organismi esterni ma lasciata libera nelle sue espressioni di percorso professionale – cosa che oggi è negata da continui e inutili interventi autoritativi e centrali che non spostano di un millimetro la realtà difficile della scuola.
La scuola deve circoscrivere e ritrovare i suoi confini oggi slabbrati da una invadenza di funzioni che non le sono propri, deve essere forte della sua missione di istruzione e perciò capace di essere aperta. Perché quanto più essa si sente invasa tanto più essa si chiude, ma quanto più le viene restituito in termini di prestigio e precisione di compito tanto più essa potrà aprirsi.
Potrà aprirsi e dare ancora più spazio ai genitori che devono ritrovare il protagonismo del collettivo, della visione generale, tramite le associazioni e le autorganizzazioni, piuttosto che ridursi e permanere al solo, pur necessario, interessamento familistico. Necessario ma angusto se non attinge l’altezza del bene/scuola come bene comune.
Può avere negli studenti una forza vitale che in un ritrovato protagonismo e una accresciuta consapevolezza fa fare passi avanti a una comunità educante basata sulla partecipazione democratica. Ci sentiremmo di dire che fra la caterva di temi che vengono strumentalmente scaricati sulla scuola da una società smarrita, invecchiata e in crisi di identità, la componente studentesca oggi sembra essere l’unico mondo vitale che porta dentro la scuola i temi veri della nuova antropologia del presente: l’ecologia, la natura, la vivibilità, i diritti della persona, la valorizzazione individuale, l’inclusione, l’identità sessuale, la liberazione della donna…
E può aprirsi anche alle forze sociali, in maniera regolata e confacente ai fini della formazione del cittadino e non solo del produttore.
Tale apertura, regolata e non sporadica, è tanto più necessaria quanto più oggi assistiamo all’avanzare di un’idea di scuola funzionalista, cioè funzionale ad altro e non all’istruzione come base e percorso di crescita culturale di formazione ed educazione. È un processo, questo, dell’invadenza e della torsione funzionalista che, se non fermato e regolato, finirà per travolgere le ultime resistenze di una scuola autodeterminata e non eterodiretta.
Ciò richiederà un di più di analisi sui cambiamenti avvenuti dentro e fuori della scuola per approntare gli strumenti utili a una istituzione che oggi resiste, vista la situazione, ma che nel resistere pensa al dopo.
In questo percorso chiarirsi le idee sugli organi collegiali e sul loro ruolo può aiutarci a ricostruire i lineamenti fondamentali della nostra idea di istruzione e del destino della nostra scuola.
Questo è il nostro intento: lavoriamo per gli organi collegiali, per promuoverne una rinascita basata sulla partecipazione, e lavoriamoci con tenacia e non abbandoniamo più l’argomento che langue ed è come dileguato dall’ultima volta che se ne è parlato, ben 10 anni fa, nel 2013. E non abbandoniamolo fino a che non avremo ottenuto risultati.
Non è una esortazione, o meglio, non è solo un’esortazione, è una necessità, una necessità vitale per preparare i tempi in cui ciò potrà trovare realizzazione.
[1] Ricordiamo i casi più recenti di Palermo e Firenze: nel 2019 una professoressa dell’IT Vittorio Emanuele terzo di Palermo, Rosa Maria Dell’Aria, 63 anni, docente di Italiano da circa 40 anni, è stata sospesa per 15 giorni dall’ufficio scolastico provinciale dopo che i suoi studenti hanno realizzato un video in cui hanno accostato il decreto sicurezza del ministro Salvini alle leggi razziali del 1938. Nel 2020 il giudice ha annullato la sanzione; nel febbraio 2023 la Dirigente Scolastica Annalisa Savino del Liceo Da Vinci di Firenze con una lettera stigmatizza l’aggressione fascista ai danni degli studenti dell’Istituto Michelangelo avvenuta qualche giorno prima. Il Ministro Valditara dichiara «Sono iniziative strumentali che esprimono una politicizzazione che auspico che non abbia più posto nelle scuole. Se l'atteggiamento dovesse persistere vedremo se sarà necessario prendere misure». Immediate le reazioni: "Si vergogni", "grave censura". La rete studenti medi: "Si dimetta". La mobilitazione delle scuole, la presa di posizione degli istituti, le manifestazioni degli studenti e dei Docenti hanno bloccato ogni iniziativa del Ministro che non ha fatto più nessun passo. Nell’uno e nell’altro caso gli Organi collegiali hanno reagito fermamente contro i due Ministri.