Una palestra formativa o un’arena decisionale svuotata?
L’interesse per gli organi collegiali nella scuola, ma in genere anche nell’università, ha sempre caratterizzato il mio approccio agli studi e ricerche che ho condotto sulle politiche educative e, in particolare, quelle relative alla governance e alla dirigenza, a partire dalla mia prima ricerca sulle scuole. Svolta nei primi anni ’90 sulla attuazione della riforma della scuola elementare, protrattasi come studio di caso per circa un decennio in una scuola elementare napoletana (Serpieri 2002), partì da una prima ricognizione in quattro scuole (oltre che a Napoli a Roma e Milano e in un più piccolo centro nel Meridione) sulle “micropolitiche” realizzate dalle/gli allora direttrici/ori didattiche/i, concentrandosi sulle modalità di gestione e di governo del collegio docenti, per un intero anno scolastico (Lipari, Serpieri 1994).
Richiamo qui solo i principali risultati che hanno riguardato le pratiche di leadership messe in atto nella conduzione dei collegi e una concezione molto adeguata di come un collegio di professionisti possa e debba funzionare non solo e non tanto per il disbrigo delle, pur complesse e talvolta conflittuali, routine gestionali, quanto come luogo di confronto culturale e, pertanto, anche di formazione professionale.
In altri termini, le decisioni riguardanti, ad esempio, la composizione del team docente per moduli, la riprogettazione delle attività e delle metodologie, anche di valutazione (in quella scuola napoletana c’erano due plessi che funzionavano, per così dire, in modo tradizionale e un altro che sperimentava da anni il tempo pieno e con ampio ricorso a metodologie innovative), venivano prese attraverso l’organizzazione del collegio per gruppi di lavoro e sessioni seminariali. Solo dopo un confronto intenso, anche su visioni e posizioni non coincidenti, la direttrice voleva addivenire a una ipotesi privilegiata di implementazione e, sempre e comunque, in forma sperimentale e sottoposta a verifica. La riflessività collettiva, non solo del singolo professionista, dava luogo a una modalità di organizzazione del collegio docenti in una sorta di modalità adhocratica, contraddistinta dalla sospensione, per certi versi, sia delle rigidità burocratiche che delle autonomie professionali (secondo il classico ossimoro della burocrazia-professionale, come si riprenderà più avanti). L’obiettivo era la condivisione professionale di una strategia attraverso adattamenti reciproci e aggiustamenti nel tempo. In definitiva, il collegio dei docenti era praticato e vissuto come una vera e propria palestra formativa e, allo stesso tempo come arena democratica.
Questo incipit su una ricerca empirica volta a mostrare il funzionamento, per così dire, dal vivo degli organi collegiali (in particolare, il collegio dei docenti che affronta una riforma), ha lo scopo di sottolineare come non solo il disegno istituzionale e organizzativo, ma anche la declinazione in senso più o meno democratico rimandi alla messa in pratica di modalità di governo della collegialità professionale. Posto che, almeno nel nostro Paese, sembrerebbe di poter riscontrare una paradossale scarsa presenza di ricerche esplicitamente focalizzate sugli organi collegiali, per il governo della e nella scuola del pre e post-autonomia (cfr. Martinelli 2022), rimane una costante percezione, che aleggia ormai da decenni nel dibattitto professionale e sindacale, scientifico e politico: ovvero, che dalla loro introduzione si sia assistito a un progressivo svuotamento democratico di questa arena decisionale. Non si può qui, naturalmente, generalizzare e considerare attentamente i diversi livelli di rappresentanza espressi da tali organi, non solo riguardanti l’interno delle “mura” scolastiche, ma anche la loro capacità di travalicare tali confini, per ammettere la partecipazione sociale e territoriale di altri attori e altre istanze. Nel senso che perfino la reiterata “lamentela” sollevata da più voci sulla trasformazione delle scuole in “progettifici” in base alla sempre più ampia disponibilità di fondi nazionali e europei con finalità ad hoc (ad es., dalle povertà educative alle tecnologie digitali), finisce con l’offrire una fotografia degli organi collegiali visti più come luogo di un frettoloso, per quanto necessario, passaggio di legittimazione di decisioni prese altrove; spesso, peraltro, vissute come calate dall’alto sul concreto esercizio delle competenze professionali e oltre la condivisione delle istanze di partecipazione democratica. E ciò, ancor più paradossalmente, perché troppo spesso i risultati e gli impatti dei progetti finirebbero per non venire adeguatamente utilizzati nelle e dalle scuole attraverso esperienze di valutazione (tras)formativa per il governo del cambiamento; ma resterebbero, piuttosto, anch’essi confinati in un passaggio prevalentemente amministrativo per una sorta di rendicontazione meramente burocratica, anche in barba ai proclami e dettami di una accountability di matrice manageriale.
In questa pressoché totale assenza di documentazione e ricerca, quelle che qui si presentano sono alcune riflessioni, talvolta un pizzico provocatorie, da offrire al dibattito sui futuri destini degli organi collegiali attraverso due passaggi:
Una tipologia di organizzazioni scolastiche: tra contesto e governo
Per comprendere in quale misura gli organi collegiali siano compatibili con una comunità educante democratica, possiamo esaminare una tipologia di organizzazioni scolastiche derivante dall’intersezione di due principali dimensioni analitiche (Tab. 1):
Questa tipologia, come è facilmente comprensibile, non ha pretesa di esaustività teorica/empirica poiché da un lato, i paradigmi, le teorie e i quadri concettuali dell’analisi organizzativa offrono un’ampia gamma di scenari interpretativi; dall’altro, comporta in qualche misura una semplificazione della realtà, forzata entro l’astrazione di tipi ideali di weberiana memoria. Cionondimeno, queste due dimensioni ci riportano a due rilevanti problematiche con cui tanto il dibattito scientifico quanto le politiche educative si confrontano in modo sempre più attuale (e per certi versi conflittuale) da almeno mezzo secolo a questa parte. Ovvero, almeno da quando gli assetti istituzionali e gli obiettivi della scuola, che ha caratterizzato l’età d’oro del welfare post-bellico, hanno iniziato a subire critiche e attacchi e poi ristrutturazioni e ridefinizioni di stampo neoliberale e neoconservatore, a partire dagli anni ‘70 nei paesi anglofoni, per poi investire altri sistemi scolastici europei e quello italiano dai ‘90 in poi (Gunter et al. 2016).
Tab. 1 - Tipi di scuole tra contesto e governo
Governo
Contesto |
Monocratico Gerarchia Legame forte |
Democratico Collegio dei pari Legame debole |
Sistema chiuso-meccanico
|
Burocrazia meccanica Scuola monastero-prigione Regola-procedura |
Burocrazia professionale Scuola clan-autoreferenziale Fiducia-reputazione |
Sistema aperto-organico
|
Soluzione divisionale Scuola-impresa Prezzo-Standard |
Ad-hocrazia Scuola-rete-arcipelago Collaborazione-partnership |
La prima dimensione, infatti, per riprendere l’efficace invito “prendere il contesto sul serio” (Ball et al. 2012), riguarda sia una adeguata problematizzazione dei risultati delle scuole in termini di equità e qualità, che la opportunità che le stesse scuole debbano essere ricollocate in un quasi-mercato se non di mercato vero e proprio. L’altra dimensione, poi, della leadership educativa, presentata vuoi come “soluzione” per riformare le scuole secondo i sostenitori delle politiche neoliberali e avversata, invece, come “problema” dai critici di tali riforme, rimanda allo scivolamento da una figura professionale di primus inter pares verso un profilo marcatamente manageriale per il governo delle scuole[2].
Partendo, dunque, per l’esame della tipologia dalla prima casella in alto a sinistra, troviamo quelle organizzazioni che si (rin)chiudono rispetto al contesto esterno, alla comunità sociale più ampia utilizzando sia confini simbolici come codici, linguaggi, procedure per certi versi incomprensibili dagli esterni, sia erigendo vere e proprie barriere all’ingresso, per impedire non solo la penetrazione dal di fuori, ma anche la fuga verso l’esterno. Questo è il regno anche del leader monocratico (o al limite di una élite oligarchica) che sovrintende a una rigida scala gerarchica e che governa mediante l’applicazione e la uniformazione di/a una rigorosa disciplina. Gli spazi sono architettati in modo che il controllo sia pervasivo persino sui corpi e i loro movimenti. La scansione di tempi predefiniti e l’applicazione della regola rimanda a quei caratteri della standardizzazione dei processi che troverà nella “burocrazia meccanica” dei tempi e metodi la sua più classica configurazione moderna, dalla fabbrica all’amministrazione statale (Mintzberg 1983). Ma che permette di risalire fino a istituzioni educative premoderne come i monasteri, le accademie militari e financo le prigioni dove l’autorità e il potere del leader, l’abate, il comandante, il capo-carceriere, non lascia spazio alcuno a linee orizzontali di governo. È questo, potremmo dire, un caso estremo e non più rintracciabile nella contemporaneità. Ma è davvero così? Quanto, infatti, per conformità disciplinari, costrizioni temporale e spaziali e, talvolta, perfino per derive autoritarie, le nostre scuole si siano effettivamente e definitivamente distanziate da tali logiche risulta, a mio parere, ancora un interrogativo necessitante di più puntuali risposte in termini di ricerche rigorose.
Nel passaggio alla casella in alto a destra, poi, rintracciamo quelle caratteristiche della burocrazia professionale (Mintzberg 1983) che, mentre esaltano l’autonomia decisionale dei professionisti (docenti, ricercatori, medici, ecc.), sono finite nel mirino delle politiche neoliberali accusando le scuole (ma anche le università) di autoreferenzialità, come nella famosa metafora del “secret garden” degli insegnanti brandita nell’Inghilterra del 1960 dall’allora Ministro dell’educazione, Sir David Eccles. Aspetti questi che, peraltro, nel nostro Paese hanno spesso portato ad attacchi più o meno espliciti verso la libertà di insegnamento dei docenti scolastici, e anche universitari, verso cui si è tentato e si tenta di imporre sempre più forme di standardizzazione dei risultati (come attraverso i test Invalsi) per limitarne la discrezionalità professionale. È attraverso quest’ultima, infatti, che si esprime(rebbe) l’auto-governo dei professionisti dell’istruzione, della ricerca, come della sanità, ecc., ovvero quell’autonomia decisionale da applicare a vantaggio degli utenti che si fonda su solide basi di competenza, così come di deontologia, apprese mediante un prolungato e certificato percorso formativo che porta alla standardizzazione delle (loro) capacità. In questo caso, ritroviamo anche la forma “clan” che si costituisce intorno ai criteri della reputazione, della fiducia, che solo il collegio dei pari può praticare, condividendo le chiavi dei saperi ma anche i simboli, i rituali, delle professioni e che legittima le transazioni verso l’esterno non potendosi applicare il prezzo (come nel mercato) o la regola (come nella gerarchia). È proprio questa peculiarità organizzativa che nel caso delle università ha rimandato anche alla metafora dell’“anarchia organizzata”, che si ritrova spesso anche nelle critiche verso le organizzazioni scolastiche e universitarie; imputandola al fatto che il collegio professionale, per quanto governo (almeno) più democratico, spesso fallisce per il rischio di chiusura della comunità professionale in se stessa, come si è già accennato. Così, dunque, si sono via via ridotte nei sistemi scolastici – mentre sono ancora prevalenti in quelli universitari e del resto anche in Italia – le modalità di elezione democratiche da parte del collegio dei pari per figure di leader apicali e/o intermedi e per ruoli di coordinamento su basi di expertise (come per progetti di innovazione, sperimentazione, formazione, ecc.)[3].
Dedicandoci ora alle caselle in basso, quelle che raccolgono i tipi di organizzazione che si aprono (o sono costrette ad aprirsi) all’ambiente esterno, a sinistra riconosciamo la tipica impresa che si confronta sul mercato per competere e il cui fine principale è il “valore aggiunto” rispetto agli investimenti in termini di profitto. La logica di impresa spinge, infatti, a fare evolvere l’organizzazione da una configurazione (definibile anch’essa) di burocrazia meccanica, laddove i tempi e i metodi della fabbrica rappresentano l’analogo della regola procedurale verso dimensioni più ampie e, soprattutto, verso diversificazioni (verticali-orizzontali) più adatte alla competizione in un ambiente complesso e turbolento. Sempre nell’ambito di una schematizzazione tipologica, un esempio di scuola che si diversifica verticalmente potrebbe essere rintracciata nell’istituto comprensivo, così come l’adozione di più indirizzi da parte di un liceo potrebbe essere vista come una spinta verso divisioni orizzontali. Naturalmente, visto che il meccanismo regolativo ultimo della forma impresa è il prezzo, determinato dall’incontro di domanda e offerta, c’è da chiedersi cosa avviene nei sistemi di istruzione pubblica, dove questo incontro viene “aggiustato” attraverso la spesa statale e/o dei governi locali. La logica privata del successo economico, che è poi quella che permette di coordinare e controllare, ad es., le performance delle divisioni aziendali, così come dei reparti produttivi, ecc., deve essere riversata in un equivalente della merce-denaro, espresso in termini quantitativi, onde giungere a una standardizzazione dell’output anche nel pubblico: il confronto si svolge, in questo caso, attraverso la formula del raffonto tra risultati e costi. La valutazione mediante i test Invalsi (ma anche quella dell’Anvur per le università), ad es., va in questa direzione, permettendo di comparare le scuole con migliori perfomance con quelle peggiori, pur con le complessità di una “misurazione” solo, per così dire, surrogata del profitto. Così, mentre la scuola-impresa privata deve necessariamente aprirsi alle richieste del mercato, quella pubblica è spinta verso la competizione in un quasi-mercato, per catturare la soddisfazione di utenti – famiglie e studenti – trasformati in clienti. Per questa casella rimane, inoltre, da esplorare la dimensione della forma di governo che, anche per quelle private, ha visto pian piano accostarsi, per poi di fatto sostituirla, la gerarchia manageriale a quella della proprietà; così come anche nel pubblico ha finito con l’introdurre principi, metodi e tecniche gestionali che hanno trasformato il weberiano dirigente-servitore dello Stato, paludandolo sotto la veste delpublic management. E, non da ultimo, richiedendo una maggiore incidenza dimensionale e funzionale delle diverse figure di “middle-management” che sono state sempre più sganciate dal corpo docente col passaggio da formule elettive e/o di rotazione tra i professionisti mediante il ricorso a una cooptazione verticistica (cfr. nota 2).
Il quarto tipo, infine, si configura come un compromesso tra la logica democratica del collegio dei pari – in questo caso non più con quella di sovra-ordinazione, come per la burocrazia meccanica – e quella dell’apertura dei confini organizzativi verso un mercato o quasi-mercato e verso il territorio di riferimento e le sue forme varie di espressione: istituzionale, sociale, pubblica, privata, filantropica, di terzo settore, ecc., e financo locale-globale. È questo il caso della scuola-rete, che fa della logica della partnership e della collaborazione tra enti e attori diversi la sua principale ragione di essere. In fondo, se nelle due caselle della burocrazia meccanica e della burocrazia professionale risulta vincente la tensione “autarchica” alla chiusura verso l’ambiente esterno, nelle due caselle inferiori la tensione prevalente è verso una qualche forma di “eterarchia” che vede la logica competitiva ridimensionata, se non destituita (Grimaldi, Serpieri 2014). La rete tra partner si regge, infatti, attraverso un insieme complesso di transazioni miste dove ritorna in gioco, oltre il prezzo e la regola, il fondamento fiduciario tra agenzie che non possono e non vogliono predominare le une sulle altre, pena il venir meno del collante principale che le mette in relazione. Per usare una metafora è come se, in presenza di un arcipelago costituito da isole di diversa dimensione e vocazione (ad es., turistica, logistica, estrattivistica, ecc.), il mare che le collega rischiasse di venire prosciugato, man mano che la fiducia e, persino, la lealtà di condivisione venisse posta a repentaglio da una volontà di predominio. Anche in quest’ultimo caso, tuttavia, il tipo della scuola eterarchica, aperta alle partnership e guidata da uno spirito di collaborazione e condivisione in rete, può essere interpretato tradendo questa principale ispirazione democratica. È quanto avviene nella politica della system-leadership di ispirazione neoliberale che ha promosso, invece, una forma organizzativa di rete di scuole che vede, comunque, una linea gerarchica con una sorta di super-leader che esercita il governo del sistema-rete e, quindi, delle altre scuole e dei relativi dirigenti[4]. Insomma, come nella burocrazia professionale, che dovrebbe reggersi principalmente sul coordinamento di equi-ordinazione tra professionisti, il rischio che venga immessa una logica gerarchica di sovra-ordinazione (il leader educativo che da primus inter pares, magari eletto, si trasforma in dirigente-manager per salto di carriera) può presentarsi anche in quest’ultimo tipo, ove si incoraggi e/o addirittura si istituzionalizzi una qualche supremazia all’interno della rete eterarchica depotenziandone le potenzialità democratiche. Si pensi a quei progetti espressi nella forma di patti educativi di comunità, dove quest’ultima non può che configurarsi necessariamente come una comunità educativa democratica.
In sintesi, riprendendo la considerazione sulla schematicità della tipologia qui presentata – che può servire come una sorta di modellistica per orientarsi tra scelte di politica scolastica ben diverse nei loro presupposti rispetto a una riattualizzazione degli organi collegiali – si vuole sottolineare come la logica tipologica possa giovarsi anche di una complementare lettura processuale. Innanzitutto, nel passaggio da un governo monocratico a uno democratico e in quello da una struttura autarchica e confinata a una rete eterarchica le forme organizzative tendono, naturalmente, a propendere verso quella logica dei “legami deboli” contrapposta a quella dei “forti” che si sposa proprio nella direzione dell’incoraggiamento delle forme di innovazione, ricerca e sperimentazione propria di una scuola governata nella forma di un organismo vivente e non come dispositivo meccanico. E, pertanto, un secondo processo organizzativo molto interessante e, anzi, precipuo per il governo democratico e co-partecipato della scuola dovrebbe puntare su quelle forme di coordinamento intra-professionale e tra i professionisti della scuola e gli “altri” significativi (da diverse expertise agli utenti, dai decisori politici ai movimenti sociale e financo agli emarginati, ecc.) in grado di adattarsi, modellarsi in modo flessibile e creativo alle contingenze e alle emergenze delle scoperte della comunità educante democratica in rete. Quest’ultima, infatti, non può fare affidamento solo su processi di standardizzazione – sia procedurali, che di risultato, nonché di capacità professionali – ma deve trovare nell’adattamento reciproco su base fiduciaria e di lealtà reciproca tra gli attori in campo, la risorsa prima per assumere la forma di una scuola eterarchica e quindi democratica. E, allo stesso tempo, capace di vestire, quando richiesto, i panni della ad-hocrazia[5], anche per frazioni di essa e/o della rete in cui è inclusa e finalizzata secondo tempi congrui alla sedimentazione ed eventuale nuova istituzionalizzazione degli esiti della ricerca-innovazione.
Per non-concludere: quali “rinnovati” organi collegiali per la scuola?
La tipologia fin qui presentata potrebbe essere letta come il risultato, per così dire “neutrale”, di saperi disciplinari che si rifanno alle cosiddette scienze dell’organizzazione (dall’economia alla sociologia, dalla psicologia sociale ad altre che contribuiscono a definire i tratti del management efficace). A partire dalla foucaultiana coppia concettuale sapere-potere, risulterebbe in ogni caso impensabile non vedere, oltre questa lettura, anche il legame intrinseco che queste teorie, metodologie e tecniche organizzative stabiliscono con diverse e spesso confliggenti agenzie che scendono in campo per affermare il proprio dominio. Anzi, proprio seguendo Foucault quando suggerisce un “oltre” le dimensioni del sapere e potere nella direzione scaturente dall’interazione tra regimi di verità e tecniche di governamentalità, dobbiamo calarci nella critica della stessa tipologia proposta.
In questo senso, non essendo possibile in questa sede sviluppare l’analisi critica in modo estensivo, basta richiamare proprio la questione della scuola eterarchica che, come già accennato citando il caso del dispositivo della system leadership, può essere appropriato in chiave esplicitamente neoliberale. Così le scuole sono pressate all’adozione di logiche di imprenditorialità e competizione, dove la discesa in campo di imprese private (non solo la classica editoria, ad es., ma sempre di più le piattaforme) e di agenzie filantropiche (le fondazioni, ad es.) e di consulenza (e non solo come esperti individuali, ad es.), spesso combinandosi con agenzie pubbliche (in Italia a livello nazionale dall’Invalsi all’Indire, ad es., senza dimenticare quelle di taluni governi locali), creano coalizioni per attingere a risorse economiche, tecnologiche e infrastrutturali, spesso anche di istituzioni sovranazionali (europee, ad es.). Finiscono, così, col dare vita a vere e proprie egemonie di reti educative che, in una sorta di circolo virtuoso, rischiano di riprodurre strutture di diseguaglianza col dotare di vantaggi e privilegi taluni territori e comunità locali, a danno di quelli che rimangono confinati in circoli viziosi e in un’area di svantaggio e di povertà educativa allargata. Qui, ovviamente, le “solite” dicotomie nord-sud, aree costiere-interne, aree urbanizzate-rurali, centro urbano-periferie si ibridano e si intersezionano, per così dire, con altre dimensioni sociali come quelle di genere e di etnia.
Per queste reti “vincenti”, pertanto, risulta difficile parlare di comunità educante democratica, così come si potrebbe fare, invece, da una prospettiva che rivitalizzi le ragioni ideologiche, politiche e culturali della partecipazione e della collaborazione sociale contrapposte alla competizione e alla performatività neoliberali che, non si può non ricordare, anche nel nostro paese hanno spesso segnato con grave continuità le politiche educative dei governi e partiti di centro-sinistra con quelle di centro-destra.
È in tale spazio di non-neutralità e di consapevolezza critica di come gli stessi modelli istituzionali e organizzativi di scuola possano essere disegnati per fini politici distinti e, anzi confliggenti (del resto la stessa scuola – e anche l'università – della burocrazia professionale sembrava poter funzionare tanto in chiave welfarista quanto in quella neoliberale, attraverso i correttivi di public management) che bisogna trovare una collocazione per organi collegiali, in qualche misura, necessariamente “rinnovati” rispetto al trentennio della stagione d’oro della scuola del welfare dopo-guerra.
Qui la partita è, naturalmente, complessa e si può tentare perlomeno di individuare delle linee strategiche, distinguendo tra tre forme di collegialità, a iniziare da quella strettamente professionale del collegio dei docenti. Innanzitutto, le complessità dimensionali e funzionali impongono, in questo caso, un ripensamento in forma, appunto, decisamente, ad-hocratica: l’arena professionale, per così dire, deve rimodellarsi, ma anche riabituarsi a funzionare, in modalità flessibili, specializzate e, però, anche in grado di pervenire a momenti consultivi e decisionali di sintesi. In tal caso, l’organo collegiale può, anzi dovrebbe, suddividersi su base progettuale e di composizione variabile, secondo una temporalità ritmata in base alla risoluzione delle contingenze e finalità cui questi gruppi/task-force ad-hocratici sono chiamati e delegati a dedicarsi. Per funzionare in modo adeguato e, soprattutto, per contribuire alla sintesi nel collegio complessivo dei docenti, non si può negare che occorrerebbero delle competenze professionali, anche queste ad-hoc: facilitatori, coach, expertise più consolidate, ecc. Perché, non prevedere attraverso la normativa e lo spazio contrattuale la possibilità di individuare queste figure, senza trascurare la modalità elettiva e, soprattutto, anche di rotazione nei ruoli, per interpretare tali competenze di coordinamento professionale, che sono, inoltre, anche specifiche responsabilità? In tal senso, ci sarebbero interessanti spazi di collaborazione intra e extra scolastici per la formazione in questa direzione e anche – perché no? – per individuare modalità di incentivazione retributiva legati alla messa a regime del funzionamento delle sub-strutture di coordinamento del collegio. Ci si troverebbe dinanzi a un modello di leadership educativa distribuita grazie a una collegialità professionale garantita innanzitutto attraverso processi di attribuzione di ruoli e responsabilità su base sostanzialmente democratica.
In secondo luogo, per gli organi collegiali dove è prevista una rappresentanza anche degli utenti, famiglie e studenti in special modo, bisogna considerare che, nel bene e nel male, una logica valutativa di quasi-mercato, di promozione della scelta in materia di istruzione, ha favorito una adozione di uno scivolamento culturale da logiche di utenza a logiche di clientela. Quanto ciò abbia inciso nella direzione di un progressivo dis-interessamento verso la partecipazione democratica è difficile da determinarsi, così come sul progressivo disincantamento, in genere, dalle forme di rappresentanza politica e non solo. E, peraltro, nel caso delle nuove generazioni studentesche, più in particolare, è ancora da comprendere fino in fondo in quale misura quella che propongo di chiamare la socializzazione 4.0[6], quella delle piattaforme social per intenderci, abbia sottratto e possa continuare a sottrarre interesse alla partecipazione studentesca nelle forme istituzionali tradizionali. Oppure, come stanno facendo scoprire le nuove forme di movimento e protesta studentesche e giovanili, in quale misura la partecipazione via social possa, invece, anche contribuire alla riattivazione della partecipazione sociale e democratica, in forme che richiedono, molto probabilmente, un ripensamento delle rappresentanze istituzionalizzate. Davvero, per tale direzione non è il caso di pensare e trovare ricette e soluzioni facili: molti spazi di sperimentazione potrebbero aprirsi sulla base di sempre più emergenti esperienze, spesso informali o perlomeno poco istituzionalizzate, di rappresentanza e consultazione sociale e civica, che in vari ambiti dei servizi e del territorio sembrano manifestarsi nonostante la costrizione a una partecipazione “consumeristica”[7] che impongono le agende delle politiche neoliberali.
Insomma, qui entrerebbe di nuovo in gioco il rapporto con il territorio se è vero che tra le ragioni che portarono all’innovazione istituzionale degli organi collegiali si annoverava una visione della scuola tra la «maggior parte degli addetti ai lavori – [come] da riformare profondamente. [Indicando sui] banchi degli imputati, il verticismo gestionale, colpevole di isolare istituti e licei dalla comunità circostante e di trasformare professori e studenti in ‘oggetti’ subordinati alle decisioni di provveditori e presidi» (Martinelli 2021, 41). E così, sull’inserimento di “voci” provenienti dagli Enti Locali e dalla società civile, il territorio avrebbe dovuto garantire quella “gestione sociale della scuola” tanto nei consigli d’istituto, quanto nei distretti scolastici, non a caso questi ultimi visti come un «primo esperimento alternativo alla burocrazia e un modo diverso di essere nella società» (ivi, 42). Insieme coi destini del consiglio provinciale dell’istruzione, tuttavia, questi organi collegiali con una base di rappresentanza territoriale diventano la terza questione: ovvero potremmo dire che qui la partita si fa da un lato, più complessa e, dall’altro, decisamente più politica.
Intanto, in maniera estremamente schematica, sappiamo che questa partita nei decenni successivi e, paradossalmente, ancor più con la riforma dell’autonomia, è stata decisamente compromessa sempre più a favore di un centralismo burocratico che si è ammantato delle vesti di una governance neoliberale sotto diversi aspetti: dalla figura managerializzata del dirigente scolastico; al progressivo svuotamento – se non addirittura alla sparizione – dei supporti tecnici alla componente professionale, ovvero si parla del corpo degli ispettori anch’essi sempre più destinati a questo tipo d governance gestionale e della mai avvenuta istituzione dei centri di servizio per la sperimentazione, innovazione e formazione. Nel mentre, come sappiamo, si rafforzava la logica di valutazione centralistica con l’Invalsi dei test nazionali e si affidava all’Indire, anche qui come unica agenzia nazionale, la missione di innovazione. Queste mosse, tuttavia, paradossalmente non avvenivano nella prospettiva di un centralismo della burocrazia statale, ma piuttosto in quella di una rivitalizzazione della stessa in termini di new public management funzionale alla riconfigurazione progressiva del sistema scolastico in termini di quasi-mercato, finendo col dare luogo «all’attuale predominio di rapporti competitivi e conflittuali fra [scuole e altre] agenzie e all’interno di esse» (Baldacci 2023, 148).
In tal senso, le riflessioni di Baldacci nell’articolo appena citato sul rapporto col territorio appaiono senz’altro decisive anche per i destini di rinnovati organi collegiali, se è vero che «occorre tornare a fare della scuola una comunità democratica collocata in una più ampia comunità sociale improntata a legami di solidarietà e cooperazione» (ivi, 149). La sua proposta si spinge nella direzione “baricentrica” di un riposizionamento per così dire “forte” della scuola nelle reti di agenzie e attori finalizzati a una missione educativa e, giustamente, evidenzia come per operare una tale ripresa di egemonia culturale alle scuole si dovrebbero concedere ben altre risorse, economiche, tecnologiche, edilizie e, naturalmente, di investimento nel corpo professionale. Appare ovvio, infatti, che una collegialità rinnovata potrebbe più adeguatamente indirizzare una missione consona a una scuola intesa come comunità educante purché democratica e, pertanto, a garantire una logica eterarchica prevalentemente paritaria e collegiale tra i soggetti delle partnership.
Qui, però mi permetto di inserire più di un dubbio che implica un ridimensionamento del timore verso il “disordine creativo” secondo lo stesso Baldacci (ivi, 147) che, in qualche misura, risuonano di quella «tendenza centrifuga tanto caotica quanto poco funzionale» richiamate da Martinelli (2021, 39) che avrebbero caratterizzato le sperimentazioni e la partecipazione dal basso nella stagione movimentista che ha trovato sbocco nei decreti delegati. Si tratta, a mio avviso, di prendere atto che la post-educazione (Serpieri 2018b; 2020) è già qui e ciò implica guardare a ciò che avviene oltre i confini fisici, istituzionali e organizzativi, anche delle stesse reti tra agenzie educative, grazie innanzitutto alle tecnologie dei nuovi media e delle piattaforme social. Oltre, cioè, le stesse letture securitaria e di sorveglianza della governamentalità algoritmica (Terranova 2015; Zubof 2019), non si può non considerare come ivi si danno e si presentano nuovi non-luoghi educativi, vere e proprie “eterotopie” foucaultiane (Serpieri 2018a), laddove emergono potenzialità di auto-governo di soggetti, movimenti portatori di etiche resistenti al regime di verità e di governo neoliberale.
L’ipotesi su cui sostenere una riconfigurazione della collegialità educativa e dei suoi organi, pertanto, è che non solo sia estremamente sfidante e problematica una nuova egemonia della scuola in chiave eterarchica, ma che questa non sia nemmeno praticabile e vincente se la scuola non si apre al “fuori” da sé stessa. Interessanti alleanze, probabilmente, potrebbero venire rintracciate grazie alle emergenze dei nuovi movimenti giovanili e studenteschi, da un lato, che rappresentano un collante vitale tra scuola e università, e, dall’altro, proprio verso quest’ultima agenzia formativa che anche deve ricercare un riposizionamento oltre e fuori dalle politiche neoliberali. E la scuola, se intesa proprio come apportatrice di un punto di vista critico nel senso di riguadagnare la propria egemonia rispetto alle altre agenzie educative, comprese le piattaforme, non può farlo da sola anche perché il suo stesso corpo docente, la sua risorsa professionale deve essere messa in grado di rigenerarsi attraverso un altro potente alleato, quello su base professionale con la stessa università da cui proviene e in cui è formata. Contro il funzionalismo neoliberale che intende stringere scuole e università nell’asse del dominio delle imprese, spazi di ri-formazione delle professionalità docenti, scolastica e universitaria insieme, potrebbero e dovrebbero trovare un sostegno attraverso organi collegiali ridisegnati in modo da garantire questa rinnovata alleanza tra scuola e università, purché sia in grado di intercettare le domande sociali e democratiche dei movimenti studenteschi e non solo. Altrimenti, la possibilità di una soccombenza piena di entrambi i due pilastri istituzionali del sistema di istruzione pubblica al regime di verità e di governo neoliberali saranno ineludibili.
Naturalmente, queste considerazioni finali sono da intendersi come non conclusive, ma solo come spunti di riflessione, ipotesi di ipotesi che rimandano a un denso dibattito culturale, scientifico e sociale per sciogliere nodi molto complessi, anche in questo futuro incerto per le attuali sfide politico-sindacali da affrontare. La progettazione, il design istituzionale e organizzativo di rinnovati organi collegiali per la scuola, ma anche per altre agenzie educative, in primis l’università, non potrà non tenere tali sfide in debito conto.
Riferimenti bibliografici
Baldacci, M., (2023), Per una nuova filosofia del rapporto tra scuola e territorio, in Paideutika, E-ISSN 2785-566X.
Ball, S.J., Maguire, M., Braun, A., (2012), How schools do policy. Policy enactments in secondary schools, Routledge, London.
Barzanò, G., (2008), Leadership per l’educazione. Riflessioni e prospettive dal dibattito globale, Armando, Roma.
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[1] Si ringraziano Armando Catalano, Elena De Filippis ed Enrico Panini per i suggerimenti che mi hanno accompagnato nella stesura di questo contributo, fatte salve le mie esclusive responsabilità per le ipotesi qui presentate.
[2] Per una sintesi dell’ampia letteratura internazionale su tale questione mi si permetta di rinviare a Serpieri 2008, 2012.
[3] Si pensi nel nostro Paese alla storia delle figure vicarie, delle figure di funzioni obiettivo/strumentali, ecc. Come in uno scambio di riflessioni Armando Catalano mi ricordava, lo spazio decisionale e di manovra tra collegio professionale e ruolo dirigenziale è stato da sempre un terreno di lotta anche sindacale. Nonostante la presenza di alcune ricerche sui dirigenti svolte nel nostro paese soprattutto nell’epoca dell’autonomia scolastica (Barzanò 2008; Cavalli, Fischer 2012; Cerulo 2015; Fischer, Masuelli 1998; Fischer, Fischer, Masuelli 2002; Serpieri 2012), purtroppo, come per gli organi collegiali, questa dinamica di conflitto è stata poco o per nulla testimoniata.
[4] Anche per una presentazione della system-leadership si permetta di rinviare a Serpieri 2008.
[5] Per una discussione dei vantaggi del governo attraverso legami deboli e la promozione della adhocrazia si veda Benadusi, Serpieri 2000.
[6] Dopo la socializzazione primaria delle famiglie, quella secondaria delle scuole sono intervenute una terza socializzazione, quella dei media tradizionali, radio, cinema e televisione e ora la quarta con le piattaforme.
[7] Secondo Cristina Grieco, attuale Presidente dell’INDIRE, i genitori pressati dalla performatività imperante passerebbero «da un controllo ossessivo con le chat di classe a una scarsa partecipazione propositiva, perché ognuno pensa più al rendimento del figlio che a far crescere la comunità» (cit. in Cristina Lacava: Organi collegiali chi li ha visti?, IO DONNA, 30 marzo 2024.