Gli anni settanta: “Il coraggio di cambiare”
Con la Legge 477 del 30 luglio 1973, Riforma del sistema di governo scolastico, si avviò un forte processo di decentramento che prevedeva la gestione collegiale della scuola da parte di operatori scolastici, genitori, territorio. Da questa legge nacque il corpus dei Decreti Delegati emanati il 31 maggio 1974 e si articolò il distretto scolastico. La legge segna il passaggio dalla scuola di Stato alla scuola come comunità educante, che si apre alla più ampia comunità sociale.
Questa legge va collocata nel più ampio contesto caratterizzato da un generale fermento normativo che contraddistinse gli anni settanta, in cui fu evidente quello che in un recente convegno-mostra a Bologna, abbiamo chiamato “Il coraggio di cambiare”: basti ricordare l’istituzione delle Regioni e lo Statuto dei diritti dei lavoratori nel 1970, l’istituzione della scuola a tempo pieno nel 1971, la legge sull’aborto nel 1970, quelle sul divorzio nel 1971, sui consultori e il nuovo diritto di famiglia nel 1975, la legge 180 (la cosiddetta legge Basaglia) poi inglobata nella legge sulla istituzione del Servizio Sanitario Nazionale nel 1978.
Ci sono tre parole chiave che aiutano a capire il clima di quel decennio:
Mi piace qui riportare una testimonianza:
«Ricordo il coinvolgimento del movimento femminista nella cogestione dei Consultori. Ricordo anche semplicemente la partecipazione dei genitori all’interno delle scuole per l’infanzia (eravamo negli anni ’70) con grande nostalgia. Ci si confrontava sulla quotidianità della organizzazione del servizio, ma anche sul modello pedagogico. I genitori erano coinvolti anche nelle iniziative del “febbraio pedagogico” che il Comune (di Bologna) organizzava ogni anno per confrontare diverse esperienze cittadine. Mi è capitato di parlare dal palco come genitore insieme ad una maestra, una esperta e una dada (Si era investito molto anche sulla valorizzazione delle dade!). Bisogna ricordare che le maestre dei miei figli erano state formate da Bruno Ciari».[1]
Va ricordato che nella scuola l’onda del cambiamento ha attraversato nel tempo diverse tappe culturali, in quanto lo sviluppo e la crisi della partecipazione procedono per andamenti ciclici, governati da processi endogeni: l’impegno nella partecipazione sociale (tipico degli anni ’70) fu attivato dalla delusione maturata nel precedente impegno nel privato (tipico degli anni ’50-’60) e venne seguito dal “riflusso” (tipico degli anni ’80) nella sfera dei consumi, del successo personale e dei sentimenti privati.
A partire dagli anni ’90 cambia il clima politico, sociale e culturale: diventa prioritaria l’efficienza rispetto alla partecipazione. Viene introdotta l’autonomia scolastica (legge 59/1997, cosiddetta Legge Bassanini, seguita dal DPR 275/1999): ogni scuola ha una propria autonomia amministrativa, didattica e organizzativa, pur facendo parte del sistema scolastico nazionale e operando nel rispetto delle norme generali sull’istruzione emanate dallo Stato (sugli esiti di questa riforma, i pareri sono diversi, ma non è questa la sede per un approfondimento del tema).
Il concetto di partecipazione nella letteratura psicosociale
Per la psicologia sociale di comunità il concetto di partecipazione è pre-condizione e mezzo per promuovere l’empowerment di individui, gruppi, organizzazioni e favorire lo sviluppo di comunità (Mannarini, 2023).
Esistono molteplici modelli che hanno cercato di dare conto delle motivazioni e dei fattori che promuovono, oppure ostacolano, l’azione del partecipare, così come molteplici e in trasformazione sono anche le forme della partecipazione (alcune in declino, altre emergenti). È ormai noto che parlare di partecipazione implica andare oltre le tradizionali forme di partecipazione politica per includere le modalità di partecipazione civica e sociale (si pensi al volontariato, al variegato mondo delle associazioni) e di partecipazione pubblica (le forme di interlocuzione tra cittadini e amministrazioni locali) (Zani, Cicognani, Albanesi, 2011).
Numerose ricerche hanno individuato e analizzato alcune “interfacce” psicologiche tra le persone e le comunità, e il ruolo che giocano nell’attivare l’azione e la spinta partecipativa, facendo rifermento in particolare ai seguenti elementi:
I livelli di partecipazione
Diverse quindi sono le modalità, e le intenzioni, nel coinvolgimento delle persone, quindi sarà diverso anche il loro ruolo e il loro “potere decisionale”.
Un contributo fondamentale è stato fornito da una sociologa americana, Sherry Arnstein, che nel saggio Una scala della partecipazione dei cittadini (1969) ha identificato otto diversi possibili livelli di partecipazione, visti come gradini di una scala della democrazia partecipata dal punto di vista delle pubbliche amministrazioni, più o meno disponibili a ‘cedere’ potere. Partendo dal basso, ogni livello corrisponde a un “grado” sempre più alto di partecipazione, che si può riunire in tre gruppi: non-partecipazione, partecipazione simbolica, partecipazione attiva (v. Fig. 1).
Figura 1 - Scala della partecipazione (Cittadini, elettori, azionisti, pazienti, student, utenti, consumatori, ecc.)
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I gradini più bassi della scala (8 e 7: manipolazione e “decorazione”, cioè una finta partecipazione) possono essere considerati come livelli di “non partecipazione”, azioni messe in atto da chi detiene il potere per sostituire la partecipazione genuina: l’obiettivo è usare la mobilitazione dei cittadini per acquisire un potere ancora più alto nei confronti degli attori politici concorrenti.
I gradini mediani (6 e 5: informazione e consultazione), descrivono la “partecipazione simbolica”: i cittadini ricevono informazioni sulla situazione dei programmi politici e hanno la possibilità di iniziare a far sentire la propria voce, senza però poter imporre i propri punti di vista.
Il livello 4 (pacificazione o cooptazione) consente l’inserimento di propri rappresentanti nei luoghi decisionali, ma si tratta di una concessione pro-forma che lascia tutto il potere decisionale nelle mani di chi già lo deteneva.
I gradini superiori appartengono al livello della “partecipazione attiva” (3, 2 e 1: condivisione, delega e controllo) e caratterizzano vari gradi di potere nelle mani dei cittadini, con capacità decisionali crescenti, Ad esempio, nel gradino 3 i cittadini possono fare delle partnership con i detentori del potere negoziando le modalità decisionali. Nei livelli 2 e 1 i cittadini ottengono la maggioranza degli incarichi decisionali.
Può essere interessante soffermarsi ad analizzare una applicazione della scala della partecipazione nel contesto scuola, in specifico relativamente ai più piccoli, in cui si procede dal livello più basso (1. manipolazione) verso il livello più alto (8. progettazione condivisa) (Cadei, Deluigi, Pourtois, 2016) (v. Fig. 2).
Figura 2- Grado di partecipazione
1. Manipolazione: (Manipulation) |
quando gli adulti o gli ideatori di un'azione "utilizzano" i destinatari-bambini (ad es. facendo protestare gli alunni in corteo su problemi degli insegnanti contro un politico o una situazione di crisi di una scuola). |
2. Decorazione: (Decoration) |
quando gli adulti "utilizzano" bambini e ragazzi per rafforzare l'idea (ad es. vengono riprese immagini di persone sofferenti o di situazioni di disagio senza che se ne spieghnoi le ragioni ai diretti interessati e si utilizzano tali immagini per "dare più forza" al messaggio). |
3. Partecipazione simbolica: (Tolkenism) |
quando bambini e ragazzi vengono chiamati come "testimoni" in seminari o incontri pubblici per dare un messaggio o fare richieste che rafforzano il tema dell'incontro, ma non sono finalizzate a ricevere una risposta concreta. |
4. Investiti di ruolo e informati: (Assigned but informed) |
quando i veri attori (bambini e ragazzi) sono informati degli obiettivi del progetto loro rivolto e rivestono un ruolo attivo nella fase di realizzazione. |
5. Consultati e informati: (Consulted and informed) |
quando gli obiettivi dei progetti vengono costruiti anche consultando i bambini e i ragazzi. |
6. Condivisione operativa: (Adult iniziaded shared decision with children) |
quando vengono definiti obiettivi generali da parte di chi propone il progetto (gli adulti), ma le decisioni operative vengono definite assieme a tutti i destinatari (si vede di seguito l'esperienza di Harlem, New York). |
7. Progettazione in proprio da parte dei destinatari: (Child iniziaded and directed) |
quando gli adulti esercitano un ruolo di sola facilitazione e forniscono gli strumenti per realizzare obiettivi pensati dai destinatari (i bambini e i ragazzi). |
8. Progettazione in proprio e condivisione operativa: (Child iniziaded, shared decision with adults) |
quando i destinatari dei progetti (i bambini e i ragazzi) definiscono inizialmente gli obiettivi e le decisioni operative vengono prese e messe in atto insieme agli adulti, anche con variazioni in itinere. |
Una rappresentazione ancora più sintetica e chiara la possiamo trovare nella figura sottostante, che esprime in modo efficace le varie modalità con cui gli adulti considerano la partecipazione dei ragazzi. Qui viene chiamato fortemente in causa il comportamento degli adulti, che per arrivare a una condivisione e assunzione di impegno nel “mettere in atto le scelte dei ragazzi” devono affrontare diversi step, dalla semplice “informazione”, a una consultazione, al coinvolgimento e alla cooperazione (v. Fig. 3 ripresa da Cadei, Deluigi, Pourtois, 2016).
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Le sfide
Come è evidente, ci si muove in un contesto molto delicato e numerose sono le sfide da affrontare a diversi livelli. A livello politico si assiste da tempo a una crisi di legittimità della democrazia rappresentativa, per cui diventa urgente favorire una cultura civica e rintracciare nuovi spazi pubblici. A livello sociale, occorre essere consapevoli che trasformare le relazioni interpersonali attraverso la partecipazione implica promuovere il capitale sociale degli “esclusi” e il loro empowerment. C’è poi anche un livello manageriale e gestionale: la critica dell’inefficacia dell’azione amministrativa tradizionale, chiamando in causa il sapere degli utenti, comporta riconoscere il controllo che essi possono esercitare (tramite l’attuazione di modalità di co-programmazione e di co-progettazione).
Mettere in movimento la partecipazione con ragazze/i presenta anche aspetti “insidiosi”: ad esempio, occorre fare attenzione alla «retorica della partecipazione» (Blondiaux, 2001) e assumere una posizione di correttezza, cioè astenersi dall’avviare il processo “dall’alto” (top down). Per fare questo, occorre uno sforzo di posizionamento importante, soprattutto quando ci si relaziona coi minori e, più in generale, con persone considerate di livello inferiore.
Assumere, al contrario, una posizione dal basso (bottom up) è sicuramente un processo più lungo e faticoso, ma coerente con il modello dello sviluppo delle capacità (o capacitazioni) (capability approach), (Nussbaum, 2011), secondo cui il grado di libertà effettiva di “poter essere” e di “poter agire” di cui un soggetto dispone, e che si esprime nell’acquisizione di funzionamenti e di capacità, determina il benessere reale di un individuo. Questo approccio intreccia due motivi fondamentali per l’argomentazione pedagogica: il tema dell’educabilità umana e il tema dello sviluppo e della crescita come autorealizzazione. L’elemento centrale è costituito dalle domande relative al come valorizzare il potenziale delle persone (ovvero le capabilities) e al perché queste azioni di sostegno possono offrire maggiori garanzie di giustizia, equità e solidarietà.
Dalla disaffezione ai «patti educativi di comunità»
È diffuso il sentimento di disaffezione rispetto alle forme tradizionali di partecipazione in vari contesti (a scuola, ma anche all’università: si pensi a quanto è faticoso trovare i rappresentanti di classe, di istituto, etc.). Uno dei motivi che emerge da diverse ricerche a livello regionale e nazionale (confermato anche da dati europei) ha a che fare con la percezione dei giovani (ma anche di adulti, quali i genitori e i docenti) di non essere ascoltati, di non avere spazi decisionali veri, di non avere diritto di parola.
Per questo ora si lavora molto – in tutti gli ordini di scuola – sulla costruzione dei “Patti educativi di comunità”, introdotti con il Piano Scuola 2020-2021, che consentono agli istituti scolastici di ampliare l’offerta formativa, valorizzando le risorse presenti nel territorio in cui le scuole si inseriscono. La collaborazione fra gli attori della comunità educante oggi è diventata fondamentale. La chiave di un’alleanza educativa è data dal confronto e dalla progettazione condivisa e partecipata, capace di coinvolgere tutti gli stakeholder: le istituzioni, l’associazionismo, la cittadinanza, le famiglie e i ragazzi stessi, anche attraverso la valorizzazione della peer education e del sostegno tra pari.
Questa è la nuova frontiera su cui impegnarsi, tenendo conto che esistono ancora oggi diverse difficoltà che gli attori sociali coinvolti (docenti, genitori, ragazze/i) si trovano ad affrontare.
Gli adulti a scuola
Sul fronte scuola, il problema è quello di docenti sempre meno preparati a presidiare le regole, il senso del limite o a costruire un dialogo significativo.
L'intesa tra adulti non è più scontata né più semplice da raggiungere, poiché implica la costruzione di un'interazione tra scuola e famiglia che parta da una posizione di accoglienza e fiducia.
Nell’analisi di un dirigente scolastico, occorre più attenzione al mondo adulto che realizza la scuola nel quotidiano: docenti, dirigenti, personale amministrativo e tecnico, collaboratori scolastici, e genitori che sono determinanti per curare il terreno educativo e portatori nella scuola di cultura esperienziale (Versari, 2021)
È molto efficace la testimonianza di una docente, presente nella scuola dagli anni '90 ad oggi:
«Dall'istituzione degli Organi collegiali l'ansia partecipativa dei genitori è andata via via scemando, e credo la causa vada ricercata nei mutamenti dei paradigmi sociali… La famiglia è passata dall'idea di essere co-protagonista del percorso educativo dei propri figli alla concezione di sé come utente-cliente. La perdita del ruolo di protagonista ha accentuato la conflittualità con la scuola, vista, quest'ultima, come un'azienda che fornisce un servizio pagato al pari dell'acqua o della luce.
L'affermarsi dell'individualismo antiautoritario ha portato i genitori alla difesa, sempre più precostituita, dei propri figli contro i docenti, quando questi ultimi devono far valere quel patto educativo che già all'atto dell'iscrizione i genitori hanno approvato ma mai interiorizzato. Tale atteggiamento ha fatto nascere un nuovo tipo di conflittualità scolastica non di tipo collettivo movimentista ma di tipo contenzioso = quella dei ricorsi individuali amministrativi o giudiziari».
Le parole dei genitori
Esistono forme di rappresentanza consolidate nei territori, anche se non ovunque considerata la realtà frammentata a livello nazionale. Nella regione Emilia-Romagna alcune modalità di partecipazione sembrano funzionare, come ci ha raccontato una rappresentante dei genitori a un convegno a Bologna nel 2021, sugli sportelli d’ascolto a scuola:
«Rappresento il Coordinamento dei Presidenti dei CdI (Consigli di istituto) di Bologna Città Metropolitana, una realtà che esiste sul territorio bolognese da oltre dieci anni e poi pian piano è arrivata a dar vita a un ben più ampio Coordinamento fino alla creazione di un gruppo regionale e nazionale. Rappresentiamo i genitori all’interno di uno degli organi collegiali della scuola e attraverso questa rete di Presidenti ci confrontiamo spesso su differenti tematiche che riguardano la vita della scuola e dei nostri figli alimentando a vicenda le nostre competenze e la nostra esperienza» (nov. 2021, R.G.)
Viene espressa incertezza e fatica nel compito di educare i figli e un sentimento di solitudine, di scarso appoggio:
«Anni fa i genitori potevano contare su una rete che si sviluppava attorno al proprio ambito familiare ristretto, di grande supporto e valore nella gestione ed educazione dei figli. Oggi i genitori sono molto spesso da soli, inconsapevoli, impreparati, soffocati dalla quantità di informazioni che “aiutano ad educare i figli” o al proliferare di scambi fra genitori in chat che spesso possono diventare deflagranti».[2]
Gli studenti nella governance scolastica
Il Testo Unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione per le scuole di ogni ordine e grado (TU 297/94) regolamenta anche la composizione e le competenze dei diversi organi collegiali presenti all’interno della scuola. All’art. 3 si precisa che gli organi collegiali sono istituiti «al fine di realizzare […] la partecipazione alla gestione della scuola dando a essa il carattere di una comunità che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica». Oltre al Testo Unico, al Regolamento (DPR ottobre 1996, n. 567 e successive modifiche) troviamo lo Statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria (DPR 24 giugno 1998, n. 249).
Nonostante la normativa preveda una serie di spazi e strumenti di partecipazione degli studenti e garantisca dei margini di auto-organizzazione, a livello di effettiva applicazione si riscontrano ancora una serie di ostacoli alla reale (e non manipolata) partecipazione di studenti e studentesse.
Gli studiosi fanno riferimento a diversi quadri teorici e paradigmi nel definire il diritto di partecipazione dei minori, sottolineando l’importanza della compresenza di alcuni aspetti, ritenuti cruciali:
Una critica molto penetrante sottolinea tuttavia che la maggior parte degli studi descrive idee sulla partecipazione e, in misura minore, pratiche volte a promuovere la partecipazione (Correia et al., 2019): si rimane cioè quasi sempre su un livello teorico.
Un interessante modello di riferimento sulla partecipazione degli studenti è quello proposto da Laura Lundy (2007), secondo cui gli elementi fondamentali di un processo partecipativo sono quattro:
È quindi cruciale andare oltre la semplice “voce”, come recita il titolo dell’articolo di Laundy (2007): “Voice” is not enough: conceptualising Article 12 of the United Nations Convention on the Rights of the Child.
Un altro modello, che vale la pena menzionare fa riferimento al concetto di educazione civica inclusiva e democrazia a scuola (ICES, “Inclusive Citizenship Education and School Democracy”), composto da tre dimensioni, la cui interazione crea un circolo virtuoso tra educazione inclusiva, educazione civica e clima scolastico positivo. Vale la pena evidenziare uno degli esiti di questo processo: l’esercizio della democrazia a scuola migliora la qualità dell’apprendimento della cittadinanza (Bartlett & Schugurensky, 2023)
A testimonianza possiamo riportare l’intervento a un convegno sulla DAD (didattica a distanza) nel 2021 del segretario Consulte Provinciali degli Studenti – membro del coordinamento regionale consulte studentesche Emilia-Romagna:
«Occorre un cambiamento di priorità, occorrono spazi e momenti per i giovani. Servono maggiori investimenti umani ed economici per superare l’emergenza, ma va tenuto conto anche della voglia di tornare a scuola (impensabile prima, ma “è solo quando perdi una cosa che ne capisci il valore").
Cosa hanno fatto gli studenti nonostante le difficoltà (stanchezza, incertezza e preoccupazione vissute da ragazze/i durante la pandemia, con aumento del rischio di abbandono scolastico). Il sapersi re-inventare, creare opportunità nonostante la pandemia ha portato a un utilizzo alternativo dei social per migliorare l’interazione (es. rappresentanti di classe hanno organizzato sfide social tra gli studenti, assemblee online, momenti di confronto/cultura/riflessione), al dialogo con le istituzioni (tavoli prefettizi sulle problematiche studentesche), a progetti realizzati tra Consulte, scuole e studenti (agire costruttivo creando alleanza docenti-studenti-famiglia-comunità). Una rivalutazione del ruolo dei giovani, spesso denigrati sui media per mancanza di senso civico, quando invece la maggioranza di loro silenziosamente ha fatto il suo dovere rispettando le linee guida ricevute senza chiedere nulla in cambio. Siamo una generazione traghettatrice di idee e modalità».[3]
E per concludere, vorrei ricordare il contributo che i giovani hanno saputo offrire, spontaneamente, in situazioni particolari, fornendo un chiaro messaggio che va contro lo stereotipo diffuso sull’indifferenza giovanile:
Riferimenti bibliografici
Arnstein S. (1969) "A ladder of citizen participation", JAIP, Vol. 35, No. 4, pp. 216-224
Bartlett T., Schugurensky D. (2023) Inclusive civic education and school democracy through participatory budgeting. Education, Citizenship and Social Justice, 1 –19
Blondiaux L. (2001). Démocratie locale et participation citoyenne: la promesse et le piège, Mouvements, vol. no18, no. 5, pp. 44-51.
Cadei L., Deluigi R., Pourtois J.P. (2016) Fare per, fare con, fare insieme. Progetti di cittadinanza tra scuole e famiglie. Edizioni Junior
Correia N. et al. (2019) Children's right to participate in early childhood education settings: A systematic review. Children and Youth Services Review, 100, 76–88
Lundy L. (2007). ‘Voice’ is not enough: conceptualising Article 12 of the United Nations Convention on the Rights of the Child. British Educational Research Journal, 33(6), 927–942
Mannarini T. (2023). Comunità e partecipazione. Prospettive psicosociali. FrancoAngeli.
Nussbaum M.C. (2011) Creating capabilities. The human development approach. Belknap Press.
Piccioli M.S., Reier C. (2022) Partecipazione di studenti e studentesse: una sfida nell’ambito della governance scolastica, IUL Research | Open Journal of IUL University, Vol. 3 num. 5, 1-17
Versari, S. (2021) La scuola della nostra fiducia. Materiali per il tempo Covid e oltre. Tecnodid editrice.
Zani B., Cicognani E., Albanesi C. (2011). La partecipazione civica e politica dei giovani. Discorsi, esperienze, significati. Clueb
[1] Brano tratto da un’intervista a Flavia Franzoni, progetto “Memorie vive”, Istituzione Minguzzi città metropolitana Bologna) https://minguzzi.cittametropolitana.bo.it/Progetto_Memorie_Vive