Gli organi collegiali come strumento di democrazia e di partecipazione sono, in questa fase, in crisi e in grande sofferenza, ma questo non sta accadendo per caso, e nemmeno per ragioni contingenti. Rientra piuttosto nel più generale tentativo – che va avanti da decenni – di “regolare definitivamente i conti” con quel modello di scuola democratica, inclusiva e partecipata che le riforme degli anni ’60 e ’70 avevano promosso, impostato e avviato.
La modernizzazione regressiva
Un’autentica “controffensiva politico-culturale” che – a partire dagli anni ’80 (un momento storico “spartiacque” da tanti punti di vista, segnato dall’esordio della cosiddetta “modernizzazione regressiva”) e su più ambiti – si è posta l’obbiettivo di invertire la direzione rispetto alla straordinaria stagione rivendicativa e di avanzamento sul terreno dei diritti civili e sociali che ha caratterizzato la fase precedente. Una controffensiva che – da quando è in carica questo Governo – sta compiendo uno scatto e un rilevantissimo salto di qualità.
Per rendersene conto, è sufficiente prendere in esame la retorica – consumata e nostalgica – con cui viene mitizzata la scuola pre-sessantottina: dove – a loro dire – vigevano la disciplina e l’autorità; gli studenti studiavano seriamente; la selezione era rigorosa; gli insegnanti erano rispettati e conosciuti; dove ciò che c’era fuori dalle aule (il territorio, la società, ma anche le stesse famiglie), era bene che “fuori” rimanesse.
Esattamente il contrario – appunto – della logica e della visione da cui sono nati gli organi collegiali, che proprio quel muro di separazione volevano abbattere, aprendo la scuola e creando un’osmosi tra l’interno e l’esterno, per vivificare un’istituzione nata chiusa e preclusa ai ceti popolari.
C’è solo una parte della società che – secondo gli attuali governanti, e i predecessori ai quali si ispirano – ha diritto non solo di entrare nella scuola, ma anche di condizionarla, indirizzarla, financo di piegarla alle sue necessità: ed è, ovviamente, il sistema produttivo.
Siamo così passati dagli anni settanta, in cui – attraverso le 150 ore – la scuola e la conoscenza, con la loro potentissima funzione emancipatrice, varcavano insieme alla Costituzione i cancelli delle fabbriche, a oggi, in cui non il movimento operaio, non il lavoro nella sua dimensione più alta e nella sua dimensione politica ma, appunto, l'impresa – con la sua logica omologatrice, con il suo comando unilaterale, con la sua finalizzazione di ogni cosa al profitto – si arroga il diritto esclusivo di indicare la direzione di vita delle persone.
La scuola al servizio dell'impresa
C’è, dunque, un duplice attacco rivolto al sistema dell’istruzione: da una parte, la concezione autoritaria e meritocratica che mira, né più né meno, al ritorno della scuola classista; dall’altra la concezione neoliberale/funzionalista, secondo la quale dalla scuola non dovrebbero più uscire cittadini liberi, autonomi, consapevoli, con un pensiero critico, con conoscenze di base trasversali, ma soggetti occupabili e formati in funzione – e magari al servizio – di questo o quel contesto produttivo in cui dovrebbero andare a lavorare. Con l’effetto, indiretto ma cercato e voluto, di sterilizzare qualsiasi approccio critico, o quantomeno non pacificato, rispetto a un modello produttivo che molto spesso precarizza e mal retribuisce il lavoratore.
Di qui, anche il cambio del nome del Ministero, che non è stata una semplice questione nominalistica, ma il preludio delle politiche concretissime che ne sono conseguite.
Di qui, il progetto dell’autonomia differenziata, che prevede – tra le 23 materie che possono diventare di esclusiva competenza regionale – anche e soprattutto l’istruzione, una delle colonne portanti della coesione, dell’unità e dell’identità nazionale. Con i cosiddetti governatori che non vedono l’ora di archiviare l’unica autonomia che varrebbe la pena preservare, quella scolastica, e che mirano a nominare i dirigenti scolastici come accade per le Asl, e magari anche a selezionare gli insegnati su base geografica. Tra questo e mettere le mani sui programmi il passo è breve, anzi brevissimo.
E, da questo punto di vista, non ha nulla di estemporaneo la richiesta – da parte del Veneto – della potestà legislativa esclusiva proprio sugli organi collegiali. Evidentemente mal si sopporta l’autonomia con cui – non solo in Veneto ma in tutta Italia – la gran parte degli organi collegiali ha detto no sia al liceo made in Italy, che si è dimostrato un flop, sia alla sperimentazione nella filiera tecnico-professionale, uno dei grimaldelli con cui, come dicevo, si intende scardinare la scuola della Costituzione, per adeguarla alle richieste formative delle imprese.
L'attacco alla scuola pubblica
Saranno pure in crisi, questi organi collegiali, ma il loro semplice essere ancora in vita garantisce – nonostante tutto – studenti, famiglie, personale della scuola da maldestri, ma non poco pericolosi, colpi di mano.
Ed è questa la ragione per cui – a livello centrale come a livello regionale – si vuole quanto meno metterli in discussione, depotenziarli o, peggio, porli sotto tutela, se non addirittura abolirli.
L’argomento a cui ricorrono per sostenere questa linea è il presunto mal funzionamento dell’autonomia scolastica. Come se fossero un dettaglio i 14 punti percentuali di finanziamento pubblico tagliati al comparto istruzione dal 2008 a oggi.
Anche la migliore delle riforme ha sempre bisogno di risorse per poter camminare, e il problema è che queste risorse sono mancate e continuano a mancare anche nell’ultima manovra di bilancio, anche nelle scelte di (ri)dimensionamento – per l’ennesima volta – della rete scolastica con l’accorpamento degli istituti.
Non sono stati capaci nemmeno di approfittare di un fattore pesantemente negativo – come l’inverno demografico che stiamo attraversando da tempo – per dire (ex malo bonum) basta alle “classi pollaio”, alle scuole alveari (come le ha definite il professor Baldacci), con collegi da 200-250 docenti che in questo modo non posso funzionare. Tra i loro obbiettivi, evidentemente, non c’è quello di mettere insegnanti e personale scolastico nelle condizioni di svolgere bene il proprio lavoro.
Ma nel mirino del Governo c’è anche altro: c’è il contratto collettivo nazionale di lavoro, e non solo per il personale della scuola.
Contratto e scuola pubblica sono i due presìdi che, al di là di tutto e nonostante tutto, con tutte le difficoltà e le “ammaccature” e i colpi subiti, sono rimasti a tenere insieme questo Paese, soprattutto a tenere aperte una prospettiva e un'idea alternativa rispetto a quella che si vuole portare avanti. È questo il punto politico di fondo.
Il tema della scuola, per tutta la CGIL, è di tale rilevanza, è così cruciale da rappresentare il cuore, l’elemento decisivo della nostra netta opposizione al progetto di autonomia differenziata. Un’opposizione che abbiamo ribadito in questi mesi e che la FLC CGIL ha fatto vivere con la “carovana dei diritti” che ha percorso tutte le regioni italiane. Il tutto deriva dalla consapevolezza che, quando si parla di scuola, non si parla mai solo e semplicemente di scuola, ma dell'idea di società e di democrazia che si vuole portare avanti e che si vuole realizzare.
La battaglia per difendere il sistema costituzionale
Nel ribadire la netta contrarietà all'autonomia differenziata, aggiungo che non commetteremo l’errore di disgiungere la nostra battaglia per difendere la scuola pubblica, per evitare la divisione del Paese, dalla battaglia che stiamo conducendo sulla controriforma costituzionale del Premierato. Si tratta di un’unica offensiva, che va dritta al cuore dei principi fondamentali e della visione stessa della nostra Repubblica costituzionale e della nostra società.
Questa è l’altezza dello scontro, dobbiamo averlo presente e dobbiamo essere all’altezza.
Non stiamo vivendo un passaggio ordinario. Si rischia una cesura storica, con una destra erede diretta degli sconfitti del ’45, che è sempre stata totalmente estranea al percorso di conquista, di costruzione e di sviluppo della democrazia italiana, e che oggi, dopo quasi ottant’anni, non solo sulla scuola ma su tutto il quadro democratico scaturito dalla Costituente vuole regolare definitivamente i conti.
La loro intenzione, in definitiva, è girare pagina una volta per tutte rispetto alla Costituzione antifascista nata dalla Resistenza e fondata sul lavoro.
Se questa è la posta in gioco, la CGIL dovrà essere in campo fino in fondo, ma non da sola. Abbiamo anche il compito di suscitare, creare, allargare nel Paese la più ampia, la più larga, la più inclusiva convergenza tra tutte le forze sociali, le realtà associative, le forze politiche democratiche che vorranno condividere una battaglia che, a questo punto, si prospetta come esistenziale. Perché nella terza Repubblica della Destra, che sarebbe segnata da una verticalizzazione del potere senza precedenti, noi – come tutti gli altri corpi intermedi – non avremmo diritto di cittadinanza, saremmo semplicemente degli ospiti, e anche poco graditi. Siccome noi, invece, la Costituzione, la nostra Repubblica e questa democrazia abbiamo contribuito a costruirle, abbiamo tutta l'intenzione di difenderle con le unghie e con i denti.
Nel farlo, dobbiamo trovare la “chiave” giusta, non limitandoci a un’azione di contrasto, ma proponendo un'idea alternativa di Paese e di società, che poi è quella sancita nella nostra Costituzione, ancora largamente inattuata, soprattutto nei suoi contenuti sociali.
E noi, proprio per questo, dobbiamo saper tenere insieme la questione democratico/istituzionale, con – appunto – la questione sociale, che in Italia è ormai grande come una casa, con il drammatico impoverimento di milioni di lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati.
Questo è il punto qualificante della nostra azione, il modo giusto per parlare alle persone in carne e ossa. Perché, oltre alle alleanze, oltre all'organizzazione, noi abbiamo bisogno di tornare in tutti gli angoli del Paese, in ogni luogo di lavoro, in ciascun territorio per parlare con la nostra gente, per spiegare a tutti i cittadini che non stiamo conducendo una lotta astratta, che non li riguarda o che ha una dimensione esclusivamente valoriale. Noi vogliamo attuare la Costituzione per cambiare e migliorare le condizioni materiali delle fasce popolari, garantendo il diritto a un lavoro dignitoso e giustamente retribuito, un fisco progressivo, l’istruzione pubblica accessibile a tutti, la tutela della salute che non può dipendere dal reddito di chi ha bisogno di cure, e tutto il resto che di più socialmente avanzato è solennemente sancito nella Carta del ’48.
Se saremo capaci di farlo, non solo ce la giocheremo, ma penso che questa battaglia, che per noi è una vera e propria battaglia della vita, riusciremo alla fine a vincerla.