La rivista

Politiche educative

Sindacati, contrattazione e organi collegiali della scuola

Il rapporto tra la contrattazione e gli organi collegiali della scuola è un argomento complesso. Contrattazione e organi collegiali non agiscono soltanto nello stesso ambito, quello delle istituzioni scolastiche, ma si occupano di materie strettamente confinanti. La domanda da cui partire è, dunque, se e quanto la contrattazione abbia contribuito a sostenere l’attività degli organi collegiali nel loro lungo e difficile percorso. Per fare questo, può essere utile ripercorrere, almeno nelle grandi linee, le vicende della contrattazione nell’ultimo quarto di secolo, negli anni successivi, cioè, a due importanti riforme che hanno caratterizzato la fine del secolo scorso, la riforma del lavoro pubblico nota come riforma Bassanini e l’entrata in vigore dell’autonomia scolastica. Lo farò servendomi anche di qualche ricordo che nasce da un’esperienza personale ormai piuttosto lontana nel tempo, scusandomi fin d’ora per le approssimazioni e le semplificazioni che comporta trattare in breve tempo un tema così vasto e difficile.

L'autonomia scolastica e le sue declinazioni

Quando, durante il primo decennio di questo secolo ci si sedeva al tavolo delle trattative per stipulare i contratti (allora) del comparto scuola, vi era tra le parti una sorta di intesa tacita, quella di non invadere per quanto possibile con le norme del contratto le competenze degli organi collegiali. Questa intesa non era motivata da ragioni “burocratiche”, non nasceva cioè da un’esigenza puramente formale, ma traeva origine piuttosto dalla volontà di fornire attraverso la contrattazione ulteriori strumenti per raggiungere un obiettivo comune, quello di dare un’impronta democratica e partecipativa alla scuola e in particolare all’autonomia scolastica che nasceva in quegli anni. Contrattazione e organi collegiali non erano considerati insomma come due rette parallele ma piuttosto come due colonne che avevano il compito di contribuire a sostenere e delineare assieme la fisionomia dello stesso edificio, il sistema dell’istruzione del nostro Paese.

 Il fatto è che quell’edificio, negli anni della nascita e del decollo dell’autonomia scolastica, era un cantiere in costruzione. L’avvento dell’autonomia scolastica fu veramente un fatto rivoluzionario che si proponeva di cambiare radicalmente la fisionomia della scuola: ma proprio per l’importanza e l’ambizione del disegno complessivo l’autonomia si prestava ad avere diversi sviluppi, si trovava per certi aspetti davanti a un bivio. Da un lato poteva essere – come era nell’intenzione dei suoi autori – lo strumento attraverso il quale tutti i soggetti della comunità scolastica partecipano in uno spirito di feconda collaborazione, ma poteva anche essere, all’opposto, l’inizio di una deriva delle istituzioni scolastiche in senso aziendalista e verticistico. Non bisogna dimenticare il contesto generale in cui prese avvio l’autonomia scolastica. Gli anni tra la fine del secolo scorso e i primissimi di questo secolo furono anni in cui in Italia si respirava ancora l’atmosfera del cosiddetto “compromesso socialdemocratico”, di cui la concertazione sociale fu una componente fondamentale, ma cominciavano ad avvertirsi anche i segnali della sua crisi e del sopravvenire di un vento neoliberista che iniziava a soffiare anche nella sinistra politica.

È in questo contesto che si aprì in quegli anni la contrattazione, che si svolgeva peraltro in uno scenario anch’esso cambiato a causa dell’entrata in vigore della cosiddetta riforma Bassanini. Quale fu dunque lo spirito che pervase i contratti immediatamente successivi all’avvento dell’autonomia? Da un lato, vi era certamente l’esigenza dei sindacati di creare un nuovo sistema di tutele per i lavoratori nel nuovo assetto determinato dalla riforma, nel quale si aprivano molti spazi per l’innovazione e la creatività, ma si introducevano anche compiti nuovi per il personale e si intensificava l’impegno lavorativo. C’era poi la novità dell’introduzione della dirigenza scolastica, che nasceva con la duplice natura di leadership educativa e di dirigenza organizzativa, ponendo il problema di distinguere tra le competenze del dirigente, il ruolo degli organi collegiali, la salvaguardia della libertà d’insegnamento garantita dalla Costituzione. Vi era insomma l’esigenza di aprire un nuovo fronte, in parte diverso anche se fortemente intrecciato con quello professionale, quello della definizione e della tutela dei diritti e dei doveri dei lavoratori della scuola, e degli insegnanti in particolare, non solo come professionisti, ma come lavoratori dipendenti. Accanto a questo, e trasversalmente, vi era nella contrattazione di quegli anni l’intento di orientare il percorso dell’autonomia, di dare cioè un indirizzo partecipativo e democratico alla sua implementazione, aprendo ulteriori canali di interlocuzione e di partecipazione che andassero a completare e a sostenere quelli resi già disponibili, in una dimensione più specificamente professionale, dagli organi collegiali.

Un contratto innovativo

Può essere perfino superfluo ricordare i principali istituti contrattuali introdotti in quegli anni perché sono ben noti a chi mi ascolta, o almeno alle generazioni meno giovani. Nel contratto del quadriennio che sta a cavallo tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo, ma ancora più decisamente nel contratto del 2003, che è il primo inserito decisamente nella stagione dell’autonomia, si introdussero in realtà tutti i principali istituti contrattuali che oggi conosciamo. Ne ricordo in estrema sintesi alcuni. Intanto si prefigurava un sistema di relazioni sindacali integrative del contratto nazionale che si articolava in tre livelli, nazionale, regionale e d’istituto. Per quanto riguarda il personale docente si definiva il profilo professionale, e se ne delineavano i compiti, articolandoli in attività d’insegnamento, attività funzionali all’insegnamento e attività aggiuntive. Si introducevano le funzioni strumentali al piano dell’offerta formativa, quelle “funzioni obiettivo necessarie per far funzionare al meglio, nel nuovo contesto dell’autonomia, le istituzioni scolastiche sia dal punto di vista didattico che organizzativo. Si tentava di aprire nuovi spazi al rapporto tra istituzioni e ambiente circostante, dando la possibilità alle scuole di offrire attività formative per il territorio. Un particolare rilievo aveva il sostegno, finanziario e in termini di formazione del personale, alle scuole collocate nelle zone cosiddette “a rischio”. Venivano regolamentati il rapporto individuale di lavoro, in materie come i permessi, le assenze, i rapporti di lavoro a tempo determinato e a tempo parziale, le interazioni tra scuole e università. Veniva disciplinata in modo nuovo la formazione, in particolare per quanto riguarda la ripartizione delle risorse finanziarie e la scelta dei soggetti abilitati a proporre la formazione. Veniva infine completamente ridisegnato il rapporto di lavoro del personale amministrativo, tecnico e ausiliario. Un’importanza particolare assunse, in quel contesto, la creazione del sistema di relazioni sindacali ai vari livelli, e in particolare a livello d’istituto, attraverso il quale i sindacati incominciavano a esercitare le funzioni di autorità salariale che la legge attribuiva loro attraverso la contrattazione, sfiorando certamente in più punti le competenze degli organi collegiali, ma moltiplicando anche la trasparenza e la partecipazione dei lavoratori, attraverso le rappresentanze sindacali unitarie elettive, alle principali scelte organizzative all’interno delle istituzioni scolastiche.

Ma la lettura del contratto del 2003 colpisce anche per i numerosi richiami alle competenze degli organi collegiali che vi sono contenute. Ne ricordo qui soltanto alcuni. Nella definizione della natura e dei compiti della funzione docente il contratto sottolineava che l’elaborazione, l’attuazione e la verifica del piano per l’offerta formativa avviene nelle attività collegiali. Si sottolineava altresì che i competenti organi delle istituzioni scolastiche regolano lo svolgimento delle attività didattiche nel modo più adeguato al tipo di studi e ai ritmi di apprendimento degli alunni. Si richiamava il fatto che il piano annuale delle attività è predisposto dal dirigente scolastico sulla base delle eventuali proposte degli organi collegiali. Il contratto definiva in modo articolato le attività funzionali all’insegnamento, tra cui elencava innanzitutto la partecipazione ai collegi dei docenti e alle attività dei consigli di classe, interclasse e intersezione. Il contratto assegnava poi al collegio dei docenti l’identificazione delle neo istituite funzioni strumentali al piano dell’offerta formativa, e assegnava ai competenti organi collegiali le deliberazioni in materia di ampliamento dell’offerta formativa. Ci si può chiedere perché nei testi contrattuali vi fosse questo insistente richiamo alle competenze degli organi collegiali, un richiamo che potrebbe apparire perfino superfluo visto che alcune tra le competenze richiamate nel contratto erano già scritte nei testi di legge. Si può rispondere che se, da un lato, vi era l’esigenza di coordinare le nuove competenze contrattuali con quelle degli organi collegiali stessi, il richiamo alle competenze degli organi collegiali serviva anche a sostenerne e valorizzarne il ruolo di fronte alle tendenze allo svuotamento dell’autonomia o comunque alla sua torsione in senso verticistico e aziendalista che stavano rapidamente prendendo piede a opera dei governi di centro-destra nei primi anni del secolo. Il bivio tra una scuola democratica e partecipativa e una scuola aziendal/verticistica cui abbiamo accennato all’inizio era infatti di nuovo davanti alla scuola italiana, e il disegno dei governi era quello di imboccare la direzione opposta rispetto a quella percorsa nel periodo immediatamente precedente.  Chi vi parla ricorda perfettamente i tentativi dell’allora ministra dell’istruzione Letizia Moratti per azzerare il sistema di relazioni sindacali delineato dai contratti, tentativi ai quali il sindacato si oppose con successo, ricordo anche con un qualche “aiutino” da parte dell’Aran di allora.

Le politiche neoliberiste e il calo della partecipazione

Questa involuzione verticistica incideva sicuramente anche sul lavoro e sulla vitalità degli organi collegiali, i quali risentivano non solo della crisi dei partiti e del calo della partecipazione politica, che già allora si cominciavano ad avvertire, ma anche del logorio e della rapida implosione delle forme di partecipazione e di mobilitazione dal basso alla vita politica e sociale che avevano caratterizzato una parte dell’ultimo decennio del secolo. Il nesso tra gli organi collegiali e la crisi della politica potrà forse sembrare improprio, ma chi vi parla ricorda che i partiti avevano per un periodo non breve guardato con attenzione alla vita degli organi collegiali, al punto che vi fu un periodo in cui, almeno nelle zone più politicizzate del paese, i risultati delle elezioni degli organi collegiali, in particolare di quelli territoriali, erano visti perfino come un indicatore abbastanza attendibile delle tendenze dell’elettorato. Naturalmente non è mia intenzione far discendere meccanicamente le ragioni di un certo declino della vitalità degli organi collegiali da motivazioni d’ordine generale, poiché le ragioni sono complesse e di origini diverse. D’altra parte, però, non si può non sottolineare che l’affermarsi delle politiche neoliberiste, sia pure nelle forme peculiari che esse hanno assunto nel nostro paese, non poteva non determinare il ridursi degli spazi di quella che Norberto Bobbio ha definito la “democrazia sociale”.

In effetti, la storia  dei sindacati e della contrattazione nel comparto scuola nella prima metà del primo decennio del secolo può essere divisa grosso modo in due fasi: la prima, caratterizzata dall’intento di introdurre strumenti capaci di aumentare la partecipazione democratica nella scuola, la seconda dalla resistenza ai tentativi sempre più ripetuti e insistenti del governo per spostare il baricentro della scuola verso una gestione tesa a reintrodurre la priorità della legge su quella della contrattazione, la priorità delle circolari su quella delle decisioni degli organi collegiali, per disegnare una scuola subalterna alle esigenze di breve periodo del mercato del lavoro piuttosto che rivolta alla formazione integrale della persona, non senza qualche rimpianto per la “vecchia buona scuola di un tempo” rispetto a quella delle innovazioni e dell’autonomia.

Un rapporto virtuoso tra contrattazione e organi collegiali

In questo contesto la contrattazione riuscì a mantenere, tuttavia, spazi aperti alla partecipazione e al coinvolgimento dei lavoratori della scuola e delle loro rappresentanze nella gestione degli aspetti fondamentali dell’organizzazione scolastica. Il contratto stipulato nel novembre del 2007 non solo ribadiva i contenuti dei precedenti contratti, ma ampliava alcuni spazi delle materie contrattuali. Li ampliava su aspetti di notevole rilievo, collocando ad esempio la formazione nell’elenco delle materie soggette a contrattazione integrativa a livello nazionale, in aggiunta alla mobilità, ma anche con ritocchi che accrescevano le materie su cui la contrattazione ribadiva la competenza degli organi collegiali, stabilendo ad esempio che spettasse al collegio docenti stabilire le modalità attraverso cui informare le famiglie sul grado di raggiungimento degli obiettivi di apprendimento di ciascuna classe. Si tratta di ritocchi rispetto a una normativa contrattuale che, come abbiamo già detto, aveva già dimostrato, nei contratti precedenti, di essere particolarmente sensibile a riconoscere e promuovere le competenze degli organi collegiali: ma si tratta di ritocchi importanti, perché ribadivano e rafforzavano una linea di resistenza rispetto all’offensiva neoliberista che era già ampiamente in atto.

Con il contratto del 2007 si sarebbe tuttavia conclusa una stagione che, pur con tutte le difficoltà cui abbiamo fatto cenno, può essere ricordata come una stagione complessivamente positiva per la contrattazione collettiva del comparto scuola e più in generale del pubblico impiego. Una stagione nella quale i contratti venivano rinnovati in tempi ragionevoli, e la struttura stessa della contrattazione collettiva, con la cadenza quadriennale per la parte normativa e biennale per quella economica consentiva di mantenere almeno il potere d’acquisto delle retribuzioni.

Uno spartiacque: la legge 150/09

Poco dopo si è aperta invece un’altra stagione, quando nel 2008 la crisi ha messo la parola fine agli entusiasmi della globalizzazione inasprendo le contraddizioni delle politiche neoliberiste, provocando il deciso ridimensionamento dello stato sociale, la penalizzazione del lavoro dipendente e dei ceti più deboli, restringendo gli spazi della democrazia pluralista e colpendo e cercando di emarginare quei corpi intermedi che rappresentano le persone e gli interessi che vengono penalizzati.

Nel lavoro pubblico questa politica ha avuto, come è ben noto, due aspetti, uno più subdolo, l’altro più brutale. Quello più subdolo è stato la legge 150 del 2009, nota anche come riforma Brunetta, che ha riformato (o per meglio dire controriformato) il decreto 165 del 2001, che, riprendendo e sistematizzando i decreti emanati sul finire degli anni 90 dalla cosiddetta riforma Bassanini del pubblico impiego, regolamentava in un testo unico tutto il sistema del lavoro pubblico nel nostro paese. La legge Brunetta manteneva, in apparenza immutato il testo unico, ma ne rovesciava in realtà completamente il senso e la direzione. Ciò avveniva per molti aspetti, tre dei quali sono tuttavia fondamentali. Sotto l’apparenza di modifiche tecniche veniva nei fatti stravolto l’assetto della contrattazione collettiva nel pubblico impiego, e il disegno politico ben evidente era quello di restringere gli spazi di contrattazione e di partecipazione delle rappresentanze dei lavoratori, a livello sia nazionale che delle singole amministrazioni, escludendole dalle decisioni organizzative aventi riflessi sul rapporto di lavoro e rovesciando il rapporto tra contrattazione e legge a favore di quest’ultima. L’idea che aveva guidato la legislazione di fine secolo e la successiva contrattazione, quella cioè che il buon funzionamento della pubblica amministrazione, scuola compresa, dipendesse anche e soprattutto dall’attivo e consapevole coinvolgimento dei lavoratori, veniva rovesciata in una logica di sanzioni, di controlli, di generalizzazioni sulla caccia ai “fannulloni” e ai “furbetti del cartellino”.

L’aspetto più brutale della politica neoliberista di fronte alla crisi del 2008 è stato però il blocco della contrattazione nel settore pubblico, che avrebbe dovuto durare un triennio ed è durato invece ben dieci anni, concludendosi soltanto davanti a una famosa sentenza della Corte costituzionale. Bisogna peraltro ricordare che nel forzato silenzio della contrattazione si è insinuato un neo interventismo legislativo con ambizioni di  riforma generale, ma soprattutto, ancora una volta, nella stessa logica delle politiche neoliberiste dei governi precedenti: il trasferimento di poteri dalla periferia verso il centro, lo svuotamento delle competenze degli organi collegiali a favore di una gestione centralistica e autoritaria delle scuole, la marginalizzazione della contrattazione e del ruolo del sindacato, lo scippo di competenze contrattuali perfino in materia salariale: il riferimento è ovviamente alla legge 107 del 2015, emblema di quanto le logiche della destra siano penetrate, a un certo punto, anche in quella che avrebbe dovuto essere la maggiore forza della sinistra politica.

Dieci anni dopo è arrivata la ripresa delle relazioni contrattuali, grazie anche a una sentenza della Corte costituzionale, ma in un quadro mutato: i rinnovi con cadenze triennali mai rispettate, i comparti ridotti di numero con tematiche sempre più complesse, le risorse economiche concesse con il contagocce, le intese “politiche” sottoscritte dai governi che si sono succeduti mai rispettate. Basti ricordare, solo per fare due esempi, l’intesa dell’aprile 2019 con il governo Conte e il “patto per la scuola al centro del Paese” del governo Draghi. E il susseguirsi di politiche sempre più unilateralmente rivolte a mettere il “timbro” dei governi che si sono succeduti a ritmo incalzante su più o meno cervellotiche riforme della scuola, senza alcun rispetto per le competenze che le leggi stesse attribuiscono alla contrattazione. L’ultima, prima dell’avvento del governo attualmente in carica, quella dal governo Draghi.

Tutto questo ha determinato quella che è, a mio parere, una delle caratteristiche  recenti della contrattazione collettiva di tutto il pubblico impiego, quella cioè di doversi impegnare non solo a introdurre innovazioni normative importanti (come le numerose novità del recente contratto dell’istruzione e ricerca a partire da quelle riguardanti il personale Ata), ma anche a dover “rimediare”, per dir così, alle numerose e sempre più frequenti intromissioni della legge in materie di competenza contrattuale. Si tratta di un contesto nel quale è evidentemente sempre più difficile mantenere aperti, attraverso lo strumento contrattuale, gli spazi della democrazia e della partecipazione.

Tuttavia non si può non registrare che nell’ipotesi di accordo firmata il 14 luglio 2023 (poi diventato il18 gennaio 2024 Ccnl Istruzione e Ricerca 2019-2021 - ndr) si introducono ulteriori materie che si aggiungono a quelle già inserite tra le materie della contrattazione e del confronto. È evidente, in particolare, il tentativo di riportare dentro una logica di controllo e confronto con il personale provvedimenti assunti in maniera unilaterale come i fondi per il “bravo docente”, l’introduzione del tutor e dell’orientatore, figure contro le quali si sono espressi anche diversi collegi dei docenti.

A ciò si deve aggiungere il consolidamento e il potenziamento degli articoli del contratto nei quali si richiamano il principio della collegialità e il ruolo degli organi collegiali. Provo qui a ricordarne alcuni. 

Nell’articolo 32, che definisce composizione e competenze della “comunità educante e democratica”, si richiama il fatto che la progettazione educativa e didattica è definita con il piano triennale dell’offerta formativa elaborato dal collegio dei docenti e approvato dal consiglio d’istituto. All’articolo 36 che disciplina le attività formative si afferma, al comma 3 che «In via prioritaria si dovranno assicurare alle istituzioni scolastiche opportuni finanziamenti per la partecipazione del personale in servizio a iniziative di formazione deliberate dal collegio dei docenti o programmate dal DSGA, sentito il personale ATA, necessarie per una qualificata risposta alle esigenze derivanti dal piano dell'offerta formativa». All’articolo 40 si ribadisce che i docenti nelle attività collegiali e attraverso le modalità di confronto ritenute più utili e idonee elaborano attuano e verificano il piano triennale dell’offerta formativa, adattandone l’articolazione alle differenziate esigenze degli alunni e tenendo conto del contesto socio-economico di riferimento. All’articolo 43 si stabilisce, nel rispetto della libertà d’insegnamento, che i competenti organi delle istituzioni scolastiche regolano lo svolgimento delle attività didattiche nel modo più adeguato al tipo di studi e ai ritmi di apprendimento degli alunni. Nello stesso articolo si prevede poi che, prima dell’inizio delle lezioni, il dirigente scolastico predispone, sulla base delle eventuali proposte degli organi collegiali, il piano annuale delle attività, comprensivo degli impegni di lavoro, poi deliberato dal collegio dei docenti nel quadro della programmazione dell’azione didattico-educativa; il piano, con la stessa procedura, è modificato, nel corso dell’anno scolastico, per far fronte a nuove esigenze. All’art 44 si stabilisce che le attività di carattere collegiale riguardanti tutti i docenti sono costituite da:

a) «la partecipazione alle riunioni del Collegio dei docenti, ivi compresa l'attività di programmazione e verifica di inizio e fine anno e l'informazione alle famiglie sui risultati degli scrutini trimestrali, quadrimestrali e finali e sull'andamento delle attività educative nelle scuole dell’infanzia e nelle istituzioni educative, fino a 40 ore annue;»

b) la partecipazione alle attività collegiali dei consigli di classe, di interclasse, di intersezione, inclusi i gruppi di lavoro operativo per l’inclusione. «Gli obblighi relativi a queste attività sono programmati secondo criteri stabiliti dal collegio dei docenti». Nello stesso articolo 44 si prevede che «per assicurare un rapporto efficace con le famiglie e gli studenti, in relazione alle diverse modalità organizzative del servizio, il consiglio d’istituto sulla base delle proposte del collegio dei docenti definisce le modalità e i criteri per lo svolgimento dei rapporti con le famiglie e gli studenti», e che con regolamento d’Istituto è possibile prevedere «lo svolgimento a distanza delle due ore di programmazione didattica collegiale prevista per i docenti della scuola primaria […]che non rivestano carattere deliberativo; con il medesimo strumento è possibile estendere lo svolgimento a distanza alle attività di cui al comma 3, lett. a) e b) che rivestono carattere deliberativo sulla base dei criteri definiti dal MIM, previo confronto».

Considerazioni conclusive

Mi appresto, a questo punto, a proporre alcune considerazioni conclusive, senza la presunzione di indicare soluzioni, con la piena consapevolezza della complessità dei problemi e del fatto che l’elencazione che sto per fare è assolutamente parziale e insufficiente.

Dicevamo all’inizio che, fin alle sue origini, l’autonomia scolastica si è trovata davanti a un bivio: da un lato, seguire la via della partecipazione attiva di tutte le componenti della comunità educante e della scuola della Costituzione, dall’altro, imboccare la strada del verticismo e dell’aziendalizzazione. Si può dire che i governi degli ultimi vent’anni abbiano fatto di tutto per seguire la seconda strada, sia pure con poche meritevoli eccezioni. L’hanno fatto, a mio parere, all’insegna di quello che potremmo definire un neoliberismo avaro e pasticcione, ma non per questo meno inquietante e pericoloso. Così l’aziendalizzazione è consistita soprattutto nel rovesciare sulle scuole un’ondata di competenze e di oneri spesso impropri, senza dotarle, peraltro, degli strumenti e delle risorse per farvi fronte. Il verticismo è consistito nel cercare di spostare la dirigenza scolastica sempre più verso un destino di capo burocratico anziché di leader educativo e nel creare dal nulla una serie di figure  (dal bravo docente di Renzi al docente stabilmente incentivato di Draghi, fino al tutor e all’orientatore di Valditara) spacciate per valorizzazione della figura docente, ma in realtà finalizzate a creare un’approssimativa gerarchizzazione senza tener conto delle dinamiche e delle prassi effettivamente esistenti nelle scuole, e dell’esigenza che non da oggi richiede forme di reale e condivisa valorizzazione dei ruoli e delle competenze necessarie per fare funzionare al meglio le istituzioni scolastiche. Tutto questo si inserisce in una deriva più generale che da tempo ritiene i cittadini, che dovrebbero essere al centro della democrazia, nient’altro che un fastidioso inciampo e un ostacolo per il suo funzionamento, e punta a dimostrare l’inutilità dei processi di partecipazione e mobilitazione sociale, in sostanza l’inutilità della stessa democrazia.

Guardando alla storia della contrattazione nazionale di comparto dell’ultimo quarto di secolo vi si legge, come abbiamo visto, una costante tensione verso la valorizzazione della partecipazione delle diverse componenti scolastiche al raggiungimento di obiettivi comuni, anche sostenendo nel tempo il ruolo degli organi collegiali. Alla domanda che ci siamo posti all’inizio, se e quanto la contrattazione collettiva abbia contribuito a sostenere l’attività degli organi collegiali credo che si debba rispondere in senso complessivamente positivo. Detto questo, bisogna poi ricordare la frase di un famoso giuslavorista, Federico Mancini: la contrattazione può molto ma non può tutto. Attraverso i contratti  si possono ampliare gli spazi di democrazia, si può contrastare e qualche volta riparare ai guasti prodotti dai tentativi di andare nella direzione contraria, ma la contrattazione non può essere lasciata sola, tanto più di fronte a tentativi di cambiare l’impianto stesso dell’istruzione nel nostro paese, come sta tentando di fare l’attuale governo, in una sorta di “matrimonio” tra neoliberismo e populismo sovranista per ora frammentario e approssimativo, ma in prospettiva assai pericoloso. Per dirlo in maniera fin troppo sintetica, il dimensionamento corrisponde alla miope volontà di sottrarre continuamente risorse alla scuola, e più in generale alle istituzioni dello stato sociale, lasciando sempre più spazio alla frattura tra chi può permettersi di pagare i servizi e chi deve accontentarsi di un sistema pubblico impoverito;l’istituzione del liceo del made in Italy soddisfa pulsioni prevalentemente propagandistiche; la riforma degli istituti tecnici è un omaggio scomposto e subalterno alle presunte esigenze di breve periodo delle imprese. Per contrastare tutto questo occorre un’iniziativa forte nelle sedi adatte, a partire da quelle parlamentari, e un’iniziativa diffusa, che passa anche attraverso il rafforzamento degli organi collegiali della scuola.

A questo punto dovrei fermarmi, perché la mia competenza di studioso della contrattazione collettiva non mi abilita a entrare in argomenti come lo “stato” e la vitalità dei diversi luoghi in cui devono manifestarsi la collegialità e la partecipazione nelle scuole e i modi per rivitalizzarli, argomenti su cui vi sono competenze ben più sperimentate della mia. Posso tuttavia aggiungere un paio di brevi considerazioni.

La prima è che il potenziamento degli organi collegiali non è soltanto una questione di ingegneria istituzionale o legislativa, ma semmai il punto di arrivo di un forte incremento e consolidamento della partecipazione dentro e intorno all’ambiente scolastico, di cui non possono non essere protagonisti i sindacati e tutta la rete di associazioni e movimenti che si muovono dentro e intorno alla scuola, utilizzando tutti gli strumenti, tradizionali e moderni, a loro disposizione.

La seconda considerazione è che, certamente, nella vita quotidiana delle scuole non si possono escludere possibili sovrapposizioni e qualche volta forse perfino conflitti di competenze tra organi collegiali e contrattazione collettiva, che agiscono nello stesso ambiente e con competenze talvolta confinanti tra loro. Un dato che occorre tuttavia tener presente è che la partecipazione democratica è certamente più complessa, faticosa e caotica del suo contrario, ma, come ha detto quel famoso statista inglese, la democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre sperimentate finora. Come è ben noto la vita e le relazioni all’interno delle istituzioni scolastiche non sono tutte rose e fiori, ed è naturale che sia così. Spetta all’iniziativa e al buon senso dei soggetti che agiscono nella scuola (i dirigenti, gli organi collegiali, le RSU) cercare di comporre le proprie azioni in maniera armonica per far sì che la contrattazione e l’attività degli organi collegiali lavorino assieme per potenziare la dimensione collegiale e democratica, perché il vero obiettivo comune è quello di agire insieme per il bene della scuola.

Un’ultima brevissima annotazione, che forse esula dai temi di cui ci stiamo occupando, ma che mi permetto di fare come studioso della contrattazione collettiva, riguarda l’esigenza di porre grande attenzione allo stato di salute delle relazioni contrattuali nel nostro paese, oggi. Uno degli aspetti più evidenti e pericolosi nel neoliberismo populista e semiautoritario che si sta instaurando in Italia è lo stato di salute non certo ottimale del sistema di relazioni sindacali e contrattuali, una difficoltà che riguarda con diverse accentuazioni un po' tutto il sistema, ma che ha una particolare gravità nei settori pubblici, e in particolare in quello dell’istruzione e ricerca dove il datore di lavoro,  e non solo da oggi, adotta una stile di relazioni sindacali e contrattuali per tanti aspetti molto simile a quello dei “padroni” degli anni cinquanta del secolo scorso ed ha come evidente obiettivo quello di depotenziare il ruolo della contrattazione e dei sindacati. Quello dello stato di salute del sistema contrattuale, della sua manutenzione e della sua riforma è un tema complesso che non può certo essere esaurito in poche battute. Credo però che sia utile anche in questa occasione sottolineare l’importanza di mantenere e valorizzare il ruolo della contrattazione non soltanto, come abbiamo visto, per difendere e migliorare le condizioni di lavoro, ma anche per mantenere aperti gli spazi del pluralismo e della democrazia nel nostro Paese.

L'autore

Mario Ricciardi

Docente Alma Mater Università di Bologna