Il precariato di un ricercatore all’estero vale meno di quello nazionale?
Sembrerebbe un interrogativo privo di senso. La giusta enfasi sul rientro dei cervelli, l’impegno che da anni si indirizza con insistenza verso questo obiettivo sarebbero in evidente contraddizione se la domanda avesse risposta positiva. Eppure l’esito di una recente vicenda giurisdizionale e il confronto giurisprudenziale ai massimi livelli sembrerebbero offrire questa chiave di lettura. Vediamo di comprendere meglio l’origine e lo sviluppo del caso che motiva il dubbio e le perplessità che ne scaturiscono.
Prende le mosse da un ricorso al TAR del Lazio di un aspirante ricercatore per contestare l’esclusione da un concorso del CNR, per titoli e colloquio, per l’assunzione a tempo indeterminato, riservato al personale con i requisiti richiesti dall’art. 20 del D.lgs. n. 75 del 2017. Il CNR aveva respinto la domanda dell’interessato sostenendo che i periodi di servizio presso università all’estero non potessero essere ritenuti utili per corrispondere alla previsione dell’art. 20 del decreto citato, e di conseguenza del bando di concorso.
L’articolo, si ricorderà, è finalizzato al superamento del precariato nelle pubbliche amministrazioni e prevede, tra l’altro, che le amministrazioni, per superare il precariato, ridurre il ricorso ai contratti a termine e valorizzare la professionalità acquisita dal personale con rapporto di lavoro a tempo determinato, possano, fino al 31 dicembre 2026, bandire, in coerenza con il piano triennale dei fabbisogni e la copertura finanziaria, ferma restando la garanzia dell'adeguato accesso dall'esterno, concorsi riservati, per non più del cinquanta per cento dei posti disponibili, al personale non dirigenziale con i requisiti previsti. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 specifica espressamente l’undicesimo comma: «si applicano al personale, dirigenziale e non […], nonché al personale delle amministrazioni finanziate dal Fondo ordinario per gli enti e le istituzioni di ricerca, anche ove lo stesso abbia maturato il periodo di tre anni di lavoro negli ultimi otto anni rispettivamente presso diverse amministrazioni del Servizio sanitario nazionale o presso diversi enti e istituzioni di ricerca».
Il CNR non ha ritenuto che le Università straniere nelle quali aveva svolto periodi di servizio l’aspirante ricercatore, l’University of Maryland e la George Washington University, potessero considerarsi alla stregua delle istituzioni di ricerca previste dalla norma: «Si comunica che a seguito di specifici approfondimenti riguardo la portata applicativa della suddetta disposizione del bando e alla luce del complesso quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, questa Amministrazione è dell’avviso che la procedura di cui all’art. 20 del D.lgs n. 75/2017, in quanto derogatoria delle modalità di reclutamento ordinarie, vada interpretata in senso rigoroso, tassativo e non estensibile a fattispecie non espressamente normate, con conseguente effetto preclusivo della possibilità di computare nel triennio di attività anche quelle svolte presso Istituzioni estere».
Il TAR del Lazio, tuttavia, con la sentenza della sez. III- ter del 21 gennaio 2020, n. 798 ha espresso opinione diversa annullando gli atti impugnati. Il ragionamento del giudice amministrativo di primo grado è argomentato con dovizia di considerazioni e riferimenti che vale la pena ripercorrere anche per la novità del problema esaminato e delle possibili future evoluzioni. Seguiamo, per gli aspetti salienti, l’interpretazione della norma prospettata dai giudici.
Le ragioni del Tar
«La locuzione del bando “altri enti e istituzioni di ricerca” non reca specificazioni di sorta sulla nazionalità (italiana, europea o extraUE) di tali soggetti. L’ampiezza della formulazione utilizzata si spiega ponendo mente alle finalità della peculiare procedura oggi in esame, per la quale importa – e deve importare – lo svolgimento di un’attività di ricerca propriamente detta (nella medesima “materia” indicata dal bando), indipendentemente dalle variegate caratteristiche degli enti e istituti di afferenza».
Citando poi la Carta europea dei ricercatori, il Tar precisa che «gli “enti pubblici di ricerca” di cui all’art. 1, tra i quali è incluso il CNR, “nei propri statuti e regolamenti recepiscono la Raccomandazione della Commissione Europea dell’11 marzo 2005 riguardante la Carta Europea dei ricercatori e il Codice di Condotta per l’Assunzione dei Ricercatori (2005/251/CE), tengono conto delle indicazioni contenute nel documento European Framework for Research Careers e assicurano tra l’altro ai ricercatori e ai tecnologi: a) la libertà di ricerca; b) la portabilità dei progetti; c) la diffusione e la valorizzazione delle ricerche; d) le necessarie attività di perfezionamento ed aggiornamento; e) la valorizzazione professionale; f) l’idoneità degli ambienti di ricerca; g) la necessaria flessibilità lavorativa funzionale all’adeguato svolgimento delle attività di ricerca; h) la mobilità geografica, intersettoriale e quella tra un ente e un altro; i) la tutela della proprietà intellettuale; l) la possibilità di svolgere specifiche attività di insegnamento in quanto compatibili con le attività di ricerca; m) adeguati sistemi di valutazione; n) rappresentanza elettiva di ricercatori e tecnologi negli organi scientifici e di governo degli enti” (co. 1)». Il giudice amministrativo sottolinea ancora l’attenzione che i Ministeri vigilanti debbono porre al rispetto di queste norme e in particolare al «rientro in Italia di ricercatori e tecnologi di elevata professionalità e competenza” (art. 2, co. 4, lett. h, D.lgs. cit.)».
Sempre richiamandosi alla Carta che descrive i ricercatori «come “Professionisti impegnati nella concezione o nella creazione di nuove conoscenze, prodotti, processi, metodi e sistemi nuovi e nella gestione dei progetti interessati”», e come “datori di lavoro” «[…] tutti gli enti pubblici o privati che impiegano ricercatori in base a un contratto o che li ospitano nell’ambito di altri tipi di contratti o accordi, ivi compresi quelli che non prevedono rapporti economici diretti. In quest’ultimo caso, si tratta di istituti di insegnamento superiore, dipartimenti di facoltà, laboratori, fondazioni o organismi privati presso cui i ricercatori seguono una formazione alla ricerca o svolgono attività di ricerca, grazie a un finanziamento proveniente da terzi».
Sempre richiamandosi alla Carta, il Tar ricorda l’importanza della mobilità dei ricercatori per migliorare il loro sviluppo professionale e favorire la condivisione di esperienze e conoscenze. Il Tar nella sua sentenza menziona puntigliosamente la normativa europea e, passando a esaminare le procedure di assunzione, precisa: «Passando ai “principi e requisiti generali” del codice di condotta per le assunzioni dei ricercatori va menzionato quello secondo il quale i “datori di lavoro e/o i finanziatori dovrebbero istituire procedure di assunzione aperte, efficaci, trasparenti, favorevoli, equiparabili a livello internazionale e adeguate ai posti di lavoro proposti”, prevedendo, ancora, il “Riconoscimento dell’esperienza di mobilità”: “Eventuali esperienze di mobilità, ossia un soggiorno in un paese o regione diversi o in un altro istituto di ricerca (pubblico o privato), o un cambiamento di disciplina o settore, sia nell’ambito della formazione iniziale che in una fase ulteriore della carriera, o ancora un’esperienza di mobilità virtuale, dovrebbero essere considerate contributi preziosi allo sviluppo professionale del ricercatore”.
Dagli elementi sin qui riportati si trae la conferma di un dato di comune esperienza, vale a dire che l’attività di ricerca scientifica si connota, oltre che per l’essenziale funzione di accrescere il patrimonio delle conoscenze raggiunte in un determinato ambito disciplinare, anche per l’utilizzo di un metodo condiviso dalla comunità dei ricercatori, con conseguente assoluta ininfluenza di confini geografici o di peculiari caratteristiche dei soggetti che promuovono e organizzano detta attività.
Da quanto detto discende che è ragionevole interpretare in senso ampio la locuzione del bando “altri enti ed istituzioni di ricerca”, di modo che ai fini dell’integrazione del requisito per cui è controversia vanno considerate tutte le attività di ricerca indicate dagli interessati, indipendentemente dalla natura (pubblica o privata) o dalla nazionalità (italiana o estera) del soggetto presso il quale esse sono state svolte, ma all’unica condizione che le attività in questione siano effettivamente qualificabili come “ricerca” alla stregua dei parametri (anche internazionali) di cui si è detto.
E ciò è in linea con gli scopi della selezione siccome fissati dalla normativa primaria: non appare, infatti, adeguatamente motivata la scelta di preferire i ricercatori precari che abbiano maturato un’esperienza solo presso enti pubblici nazionali posto che, in termini di professionalità e alla luce del richiamato interesse pubblico, niente esclude a priori che analoghi meriti siano riconoscibili a ricercatori impiegati presso istituti di ricerca esteri o privati. […]
L’assunto dell’amministrazione - che escluderebbe dal computo dell’esperienza triennale, quale requisito di partecipazione, le attività svolte presso istituzioni di ricerca estere - contrasta quindi con il disposto del bando di concorso che letteralmente stabilisce come requisito all’invocato art. 2, comma 1 lett. b) “aver maturato presso il CNR o presso altri Enti ed Istituzioni di Ricerca almeno 3 anni di contratto, anche non continuativi e di diverse tipologie, purché riferibili ad attività svolte o riconducibili alla medesima area o categoria professionale, nell’arco temporale ricompreso tra la data del 1 gennaio 2010 ed il 31 dicembre 2017”. […]
L’introduzione dunque in via interpretativa di un requisito più stringente, non previsto dal bando ed estraneo all’interesse dell’amministrazione al reclutamento del migliore personale qualificato, rappresenta uno sviamento dalle finalità tipiche del pubblico concorso, il quale, una volta individuate le necessità di organico dell’amministrazione e le professionalità richieste, deve necessariamente ispirarsi ai principi di meritocrazia e favor partecipations. […]».
L’analisi svolta, la ricchezza e puntualità dei riferimenti normativi comunitari, sembrano convincenti e risolutivi. Tali da definire nel senso indicato dal TAR del Lazio la validità e l’efficacia dell’esperienza di ricerca ovunque svolta.
Le ragioni del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato, tuttavia, con sentenza del 24 giugno 2022, n. 5198, ha contraddetto la valutazione del TAR soffermandosi soprattutto sulla questione centrale del comma 11 dell’art. 20, D.lgs. 75/2017 nella parte in cui utilizza la locuzione: “(...) presso diversi enti e istituzioni di ricerca”, per chiarire se l’esperienza almeno triennale presso un’università straniera, integri o meno il requisito previsto dalla norma. La risposta, a giudizio del Consiglio, non può che essere offerta dalla ratio che anima il D.lgs. 75/2017, teso a superare il precariato attraverso forme di stabilizzazione che derogano al principio dell’accesso al pubblico impiego mediante concorso. L’iniziativa mira a consentire l’assunzione a tempo indeterminato di quei lavoratori che per un congruo periodo di tempo hanno svolto attività lavorativa alle dipendenze dell’amministrazione che bandisce il concorso con la precisazione che: “Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano al personale, dirigenziale e no, di cui al comma 10, nonché al personale delle amministrazioni finanziate dal Fondo ordinario per gli enti e le istituzioni di ricerca, anche ove lo stesso abbia maturato il periodo di tre anni di lavoro negli ultimi otto anni rispettivamente presso diverse amministrazioni del Servizio sanitario nazionale o presso diversi enti e istituzioni di ricerca”.
Ad avviso del Collegio, la norma non pone al centro della sua considerazione l’attività svolta in un’università straniera. La disciplina, in ragione dello stanziamento di fondi vincolati e delimitati, intende sanare quelle posizioni maturate nell’ambito degli enti e istituzioni di ricerca nazionali, pubblici in quanto “finanziate dal Fondo ordinario per gli enti e le istituzioni di ricerca”. Posto che una norma ad alta valenza settoriale e derogatoria, rispetto alle altre che impongono il concorso pubblico, deve essere interpretata in modo rigoroso e tale da scongiurare ogni interpretazione che conduca a estenderne la portata applicativa, assume rilievo determinante l’espresso riferimento agli enti e istituzioni di ricerca nazionali “finanziate dal Fondo ordinario per gli enti e le istituzioni di ricerca”. Diversamente argomentando, opina il Consiglio, si rischierebbe di estendere l’applicazione della normazione derogatoria e quindi eccezionale, nonché di strettissima interpretazione, al personale che, non avendo prestato un congruo periodo di servizio presso un’amministrazione nazionale, potrebbe non essere in alcun modo riconducibile alla figura del dipendente “precario”.
Non è persuasivo, per il Consiglio, il richiamo alla raccomandazione 2005/251/CE della Commissione. La lettura del primo giudice ha messo in evidenza solo alcuni dei fondamenti dell’atto. In primo luogo va ricordato che la raccomandazione è un atto giuridico che si caratterizza per non essere obbligatorio e, in quanto tale, non può far sorgere effetti vincolanti o diritti azionabili innanzi a un giudice nazionale. È utile per risolvere una controversia quando si tratti di interpretare norme nazionali adottate per l’attuazione di norme comunitarie o quando la raccomandazione abbia lo scopo di completare norme vincolanti dell’Unione Europea. In secondo luogo l’atto da interpretare nella specie è una norma interna, che non ha lo specifico scopo di attuare una norma europea ma di riassorbire il precariato con un concorso straordinario, trovando un punto di equilibrio fra le limitate risorse finanziarie nazionali e l’esigenza di evitare contratti a termine ultra triennali.
D’altronde la selezione prevista dal D.lgs. 75/2017 non esaurisce i posti disponibili e non esclude la possibilità di valorizzare le esperienze provenienti anche dal settore privato in concorsi aperti.
Di qui la pronuncia di annullamento della sentenza impugnata e l’affermazione giurisdizionale della differente natura del precariato nell’impegno di ricerca. È messa in dubbio l’omologazione dell’attività di ricerca al di là di nazionalismi e confini statali correttamente sottolineata e data per acquisita dal TAR del Lazio.
Una visione corporativa e sovranista ha premio, per ora, sull’apertura internazionale delle università e della ricerca Un processo tuttavia irreversibile e un obiettivo necessario e sul quale sarà opportuno riflettere attentamente ma urgentemente. Sarà importante comprendere come l’amalgama travolgente di istituzioni ed enti di formazione e ricerca sia destinata ad alterarne fisionomia e natura e come la trasformazione possa e debba essere, assecondata, incoraggiata e non ostacolata ma, soprattutto, governata.