La rivista

Tempi moderni

Italo Calvino dall’engagement alla “fantasia sognante”

 […] l’unica cosa seria nel mestiere
dello scrittore è la pagina scritta. 

(Lettera a Gerda Niedieck, 6 novembre 1963)

Appartenente a quella “generazione di mezzo” che alla data dell’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 aveva poco meno o poco più di 20 anni, Italo Calvino, come ci ha ricordato Gian Carlo Ferretti, rappresenta il caso tipico dell’intellettuale che, dopo la partecipazione alla Resistenza, aveva creduto con tutto se stesso che la “ricostruzione” materiale e morale della nuova Italia – democratica e repubblicana – potesse realizzarsi in totale discontinuità con il passato. Per quanto riguardava poi lo specifico apporto da lui dato al mondo delle lettere, sempre Ferretti ha osservato che egli «ci aiuta a capire meglio di ogni altro il tentativo e la difficoltà di possedere intimamente la realtà, a rielaborarla dall’interno e a esprimerla in forme letterarie compiute. […]».[1]

Calvino insomma – a detta del critico – «rappresenta il risultato più interessante e diretto della ‘stagione’ del neorealismo, nel senso cioè che nel vivo di essa si forma e nasce scrittore, mantenendo sempre con le generazioni precedenti (e provenienti da più lontane esperienze) un rapporto non subalterno (come accade invece a tanti suoi coetanei e sodali) ma attivamente autonomo, anche nei casi di maggior consonanza ideale e morale. Egli vive la Resistenza come autentica rottura, strappo, ‘trauma’, e ha perciò fin dal primo momento un interesse squisitamente critico della realtà»[2] [il corsivo è nel testo, n.d.r.].

La citazione, pertinente e perspicua, ci offre un quadro quanto mai esauriente del clima che imperava nell’Italia a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. In esso, a fronte di un neorealismo ormai incamminatosi sul viale del tramonto, si era affermata una narrativa nuova, «dal corso moderato-elegiaco-sociologico», che era ormai divenuta espressione di una società, quella del boom economico, troppo presto soddisfatta.[3]    

Ebbene, pur a fronte di così profondi mutamenti, Calvino proseguiva – nella continuità – quel suo lungo «lavoro di rappresentazione e commento della realtà contemporanea», che, iniziato con il suo primo romanzo del 1947, Il sentiero dei nidi di ragno, aveva favorevolmente colpito Cesare Pavese,[4] che non a caso lo definì «il più bel racconto che abbiamo sull’esperienza partigiana». Ma a Pavese non erano sfuggite neppure le novità formali e le professioni di poetica in esso contenute. Infatti, entrando in diretta polemica con l’indirizzo neorealistico, osservava che, in letteratura, la pagina «non deve essere un doppione della vita… deve valerla, questo sì. Dev’essere un fatto tra i fatti, una creatura in mezzo alle altre». In un’altra occasione, intervenendo alla radio nel 1948, lo scrittore torinese chiarirà ancor meglio il senso del suo pensiero, con argomentazioni, che di fatto costituivano una presa di distanza dal neorealismo:[5] «Altro è far cronaca, altro è fare romanzo […]. È illusorio – egli concludeva – cercare nell’appoggio diretto dei fatti, nella scuola della dura esperienza, nell’avventura vissuta, quella serietà e quella precisione di fantasia che nascono soltanto – quando nascono – dalla lenta consuetudine e maturazione della vita interiore». 

E sarà proprio la vita interiore a far sì che Calvino, dopo l’iniziale adesione alla corrente neorealistica,[6] si decidesse a rompere definitivamente con il realismo di tendenza, di stampo ždanoviano,[7] da cui si sentiva distante dopo la crisi ideologico-filosofica in lui intervenuta alla metà degli anni Cinquanta. Il compito che si era prefisso, dopo essersi congedato dal PCI nel 1957 a seguito dei “fatti” di Ungheria, era infatti quello di ripensare il suo ruolo non solo come artista, ma anche come intellettuale e scrittore, “impegnato” a dare risposte alla società italiana che fossero all’altezza dei tempi.

Non a caso, dopo aver collaborato nell’immediato dopoguerra a quotidiani, periodici, riviste di partito (e non), nei primi anni Sessanta, confesserà di sentirsi un “isolato”,[8] «constatazione – aggiungeva – che ora prende accenti amari ora orgogliosi, a seconda dell’umore in cui mi trovo».

Ma ancor più chiaramente aveva manifestato il suo sentimento di destituzione nella Nota 1960 ai Nostri antenati. In essa, con un atteggiamento improntato al “dover essere”, di ispirazione stoica e giansenista, nonché gramsciana,[9] aveva scritto: «Una persona si pone volontariamente una difficile regola e la segue fino alle ultime conseguenze, perché senza di questa non sarebbe se stesso né per sé né per gli altri».[10] Tale aperta professione di moralità si dispiega in tutto il suo più autentico significato se la si colloca in quella impetuosa trasformazione antropologica che siamo soliti chiamare “cultura di massa”, della quale Umberto Eco,[11] se da una parte indicava i meriti – ad esempio il digest, i paperbacks etc.–, dall’altra denunciava i “difetti”. Questi erano – oltre il consumismo, l’omologazione, la sottomissione al ruolo svolto dalla comunicazione massmediologica –, «il conservatorismo estetico, il livellamento del gusto sulla media, il rifiuto delle proposte stilistiche che non corrispondono a ciò che il pubblico già si attende, la struttura paternalistica della comunicazione dei valori».

È forse anche in ragione di tali novità che Calvino si indusse a scrivere una nuova Prefazione all’edizione del 1964 del Il sentiero dei nidi di ragno, nella quale, oltre a verificare la parabola da lui seguita come scrittore, aveva voluto anche verificare la sua evoluzione di uomo:[12] «Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani – che avevamo fatto appena in tempo a fare il partigiano – non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, ‘bruciati’, ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d’una sua eredità. Non era facile ottimismo, però, o gratuita euforia; tutt’altro: quello di cui ci sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio; ma l’accento che vi mettevamo era quello d’una spavalda allegria. Molte cose nacquero da quel clima, e anche il piglio dei miei primi racconti e del primo romanzo».

Ciò che colpisce in questa vera e propria autoanalisi – retrospettivamente improntata come riconosce lo stesso Autore a una certa “nostalgia consolatrice” di carattere. moralistico-sentimentale –,[13] è non solo il ruolo esercitato dalla Resistenza nel processo di formazione umana e intellettuale di tutta una generazione di giovani – della quale Giame Pintor rimaneva per Calvino un ineludibile punto di riferimento –, ma anche la “carica propulsiva” che a essa era connessa.[14]

E tuttavia, a guerra finita, un tale afflato etico e politico, che veniva vissuto da molti alla stregua di un rigenerazione personale e collettiva, si sarebbe ben presto tradotto in un rassegnato ripiegamento, ovvero come ha scritto Piero Calamandrei nel 1946,[15] in quei «lunghi decenni penosi ed ingloriosi della resistenza in prosa», da lui stesso definiti anni di “desistenza”, le necessità connesse alla “ricostruzione” materiale del Paese avrebbero infatti fatto passare in secondo piano – anche in virtù dei nuovi assetti geopolitici stabiliti a Yalta – il nodo ancestrale del leopardiano “stato presente del costume degli italiani”. Alle attese deluse o tradite[16] – le quali in molti casi indussero non pochi reduci a una resa rassegnata o a un rifiuto tout court del presente – si aggiungevano le difficoltà esistenziali relative al riflusso dei resistenti nella prosaicità della vita civile, tanto più duro quanto più esaltante era stata la loro partecipazione, da protagonisti, all’epica lotta di Liberazione.

Nell’immediato dopoguerra, insomma, sarebbe stato necessario non solo fare i conti con i cascami di un passato che non voleva “passare”, ma anche con il ritorno in servizio permanente effettivo, nell’apparato dello Stato repubblicano, di molti dei vecchi arnesi del passato regime, che, operando più o meno nell’ombra, avrebbero finito per contrastare le attese e la realizzazione di un’autentica rivoluzione democratica del paese. A ciò si aggiunga la situazione politica dell’Italia quale si era venuta a determinare a seguito della sconfitta elettorale del fronte popolare nell’aprile del 1948, a proposito della quale Calvino scrisse non a caso, prima e dopo di essa, due diversi articoli per “l’Unità” dai titoli emblematici: Una polemica di giovani e Il crepuscolo degli avventurieri.[17] Di conseguenza, l’auspicio dello scrittore sanremese di poter fare tabula rasa del passato era destinata a rimanere non più che un’utopia.[18] Ben più condivise e diffuse saranno quelle esigenze di mediazione e di compromesso che, divenute sempre più cogenti, non solo avrebbero frenato, ma in larga parte anche vanificato quella spinta “propulsiva” di cui aveva parlato Calvino nella sua celebre Prefazione.[19]

Il Calvino “privato” e le sue aspirazioni giovanili

Ma il giudizio storico, per quanto articolato, finirebbe per fare torto al Nostro, ove non si considerassero talune componenti del suo carattere, che ci rimandano al periodo giovanile, antecedente alla stessa esperienza resistenziale. Le si possono leggere, espresse a chiare lettere – e in tutto il loro significato paradigmatico – in due lettere del 1942, entrambe indirizzate al compagno di classe e di banco Eugenio Scalfari. Nella prima, a questi che lo informava di aver scritto articoli per riviste letterarie, Calvino, dopo una breve premessa, rispondeva con fermezza – quasi parlasse a se stesso più che al suo interlocutore –, invitandolo a tener conto, nelle scelte della vita, dell’importanza di stabilire delle priorità. Di qui, dopo una breve premessa di carattere soggettivo, il suo aut aut: «fare o tentare di fare dell’arte, per modesta che sia, è sempre più utile e più nobile che scriverci sopra soltanto! […] Quindi deciditi: o fai l’artista e allora scrivi […] O fai il politico e allora studia, e, in caso, se non ne puoi fare a meno, scrivi, ma solo se hai da dire cose tue originali che possano essere di qualche utilità».[20] 

Nella seconda,[21] parlando questa volta in modo autocritico di sé e delle sue proprie aspirazioni in materia d’arte, confessava senza mezzi termini: «Pure io ho sempre sognato di scrivere del mio paese, del mio mondo dei contadini travagliati dalle tasse, dalle leggi fatte da incompetenti, della loro vita così elementare e pure così piena di difficoltà; se non l’ho fatto è perché ho sempre trovato più facile e accomodante abbandonarmi alle iridescenze della mia fantasia di cui sono più schiavo che padrone».

Ebbene, già da queste due missive è possibile individuare, seppure ancora in nuce, quel carattere di dualità, quei tratti di moralità intransigente, quella ricerca di poetica che troveranno il loro inveramento nell’esperienza partigiana, tanto che Geno Pampaloni, negli anni Sessanta, potrà scrivere di lui: «era un razionalista senza Dea Ragione, non codino, non complessato, emotivo e addirittura immaginifico».[22]

A chiarire del resto la compresenza di spinte così variegate e contrapposte poco o punto ha contribuito l’Autore stesso, poco incline – come ci rivelano le Lettere – a fornire dati relativi alla sua vita artistica e personale a quanti, aspiranti biografi o semplici estimatori, glieli richiedevano. Dalla lettura di alcune di esse, tuttavia, si ricavano alcuni preziosi indizi, che ci consentono di avvinarci in qualche modo a quello che, verosimilmente era il suo più autentico profilo di uomo e di scrittore. In una lettera del marzo 1943, inviata ancora una volta Eugenio Scalfari,[23] parlando del rapporto tra l’uomo e la storia, tema per lui centrale, Calvino rivelava la sua aspirazione «a fondersi con l’assoluto abbandonandosi alle forze della natura, in contrasto col pensiero della morte e della nostra finitudine che ci spinge verso l’attività, i doveri sociali, le responsabilità».[24] L’affermazione, che venti anni più tardi troverà la sua più compiuta elaborazione nelle riflessioni di Amerigo Ormea ne La giornata d’ uno scrutatore del 1963,[25] è tanto più significativa quanto più “finitudine” – termine chiave della filosofia esistenzialista – e “responsabilità”, saranno i cardini di un pensiero che sarebbe divenuto centrale nell’immediato dopoguerra.[26]  

Che tale visione del mondo non fosse occasionale, ma ormai compiutamente interiorizzata, ci viene confermato da un’altra lettera dello stesso tenore, che lo scrittore sanremese scrisse quattro anni dopo a Elio Vittorini.[27] In essa Calvino tornava sul tema della “responsabilità”, riconosciuto come il vero problema “di noi oggi”. Alla luce di questa convinzione, egli perveniva «all’enunciazione d’una moralità nell’impegno, d’una libertà nella responsabilità che mi sembrano –spiegava – l’unica moralità, l’unica libertà possibili. Ma son tutte cose che ho bisogno di masticarmi dentro ancora chissà per quanto tempo» [il corsivo è nel testo]. 

Non stupisce dunque che, su tali basi, lo scrittore sanremese, due anni prima, a esperienza resistenziale appena conclusa, avesse scelto di collaborare con il “Politenico”,[28] di cui condivideva la linea editoriale e l’analisi della società. Nel primo numero della rivista il direttore Elio Vittorini ne anticipava le linee programmatiche con queste parole: «Occuparsi del pane e del lavoro è ancora occuparsi dell‘’anima’. Mentre non volersi occupare che dell’‘anima” lasciando a ‘Cesare’ di occuparsi come gli fa comodo del pane e del lavoro, è limitarsi ad avere una funzione intellettuale e dar modo a ‘Cesare’ (o a Donegani, a Pirelli, a Valletta) di avere una funzione di dominio ‘sull’anima’ dell’uomo. Può il tentativo di far sorgere una nuova cultura che sia di difesa e non più di consolazione dell’uomo, interessare gli idealisti e i cattolici, meno di quanto interessi noi?».

Dalla risposta che il mondo intellettuale di sinistra e il PCI avrebbero dato a questa richiesta di autonomia, avanzata nel nome di una “nuova cultura”, sarebbe dipesa la sorte della rivista stessa. Siccome essa non ebbe esito positivo, “Il Politecnico” fu costretto ben presto a chiudere i battenti.

Il rapporto tra politica e cultura e i suoi riflessi in letteratura

Le componenti filosofiche ed esistenziali di Calvino, già chiaramente riconoscibili fin dal principio del suo noviziato politico e letterario, non potevano non entrare in rotta di collisione con l’ortodossia ideologico-politica del PCI. Nel periodo della sua uscita dal Partito, rispondendo a una domanda della rivista “Ulisse”, promotrice di una inchiesta su Le sorti del romanzo,[29] lo scrittore sanremese aveva risposto: «Noi guardiamo il mondo precipitando nella tromba delle scale». Nonostante dunque che, dopo lo “strappo” dal Partito, avvertisse un senso di precarietà, lo egli non verrà mai meno al suo iniziale engagement. Lo vivrà solo in modo diverso, avendo pur sempre, come sua stella polare, quella giovanile esperienza resistenziale che lo aveva segnato così a fondo. In una lettera del 1959, all’amico Michele Rago,[30] infatti scrive: «Mi pare molto giusto porre l’accento sull’esperienza partigiana come qualcosa di completamente diverso da ogni altra e come ‘chiave’ di tutto un particolare clima morale e mondo poetico».

E tuttavia, nonostante la sua rinnovata profession de foi, la crisi che lo aveva allontanato dal PCI non era avvenuta d’acchito. Si era al contrario prodotta per gradi e aveva comportato conseguenze non solo ideologiche ma anche letterarie, come si evince dallo scambio epistolare intrattenuto nel 1962 con Geno Pampaloni, al quale aveva confessato che, «forse per reazione al generale clima di euforia», gli veniva ormai «da scrivere solo in un senso interrogativo». Di più: al critico che aveva azzardato l’ipotesi che in lui si fosse prodotta una qualche “incrinatura” dello “storicismo”, lo scrittore sanremese aveva precisato che, da parte sua, si trattava piuttosto della necessità di una «ricerca d’un modo più profondo tra storia individuale e Storia».[31]

La questione doveva sembrargli davvero dirimente se tre anni dopo, scrivendo a Gian Carlo Ferretti,[32] Calvino tornava sul tema con queste parole: «Forse troverai a ridire su uno storicismo così scettico sulla possibilità di conoscere la storia. Posso solo dirti che nella mia polemica contro lo storicismo fatto di intuizioni, di definizioni vaghe, di sensibilità etico-civile etc., sono arrivato a questo punto. Voglio cose precise, dati di fatto: se di fronte a questa esigenza di esattezza la Storia scappa, lasciamola scappare. Io, come mia speranza soggettiva, vorrei che non scappasse, anzi che si definisse, che definisse la propria particolare concretezza, in confronto alla concretezza massiccia dell’opera (fatta di parole, frasi, segni di punteggiatura, che comincia dalla prima pagina e finisce nell’ultima), che smentisse d’essere una specie di nuvola che avvolge tutto e comunica a tutto il suo aspetto gassoso».[33]

Date queste posizioni, la lontananza dalla politica culturale del Partito, da lui ritenuta da tempo inadeguata a corrispondere alle esigenze dei tempi nuovi, era destinata ad aumentare. Si veda la polemica con il PCI, che, iniziata nella seconda metà degli anni Cinquanta, sarebbe andata crescendo nel tempo. Si veda il tono polemico con il quale Carlo Salinari – uno dei custodi più zelanti dell’ortodossia del Partito – accolse la pubblicazione delle Cosmicomiche nella recensione che ne fece nel 1966,[34] nella quale era ricorso al metodo del bastone e della carota. Infatti, mentre da una parte mostrava di apprezzare le potenzialità letterarie dell’opera, dall’altra ne criticava – seppur garbatamente – l’inconsistenza ideologica. Queste le sue parole: «Insomma Calvino, oggi, saprebbe dire benissimo – meglio di ogni altro, forse – qualunque cosa volesse; ma, purtroppo, ha assai poco da dire. La sua fantasia si rifugia nella favola per pigrizia, perché questa è la chiave con cui egli riesce ad aprire la porta della letteratura: il suo impegno morale e ideale, invece, quella ricerca dell’uomo totale che lo caratterizzavano agli inizi, si va a poco a poco illanguidendo. Egli stesso, in un punto del suo romanzo, si chiede: ‘Che mi varranno queste pagine scontente?’ Nulla, temo. A meno che egli non riprenda la strada, appena tentata e assai difficile, de La speculazione edilizia».

Il richiamo di Salinari era dunque chiaro. Nonostante che lo scrittore sanremese, come artista, si fosse sempre richiamato ad una funzione “sociale” dell’opera d’arte – anche lì dove si cimenterà con l’“artificio” “combinatorio”, i giochi d’intelligenza, gli incastri tra i diversi strati narrativi degli anni Settanta –,[35] gli veniva contestato l’abbandono dei temi sociali e una sempre più spiccata propensione fantastica. In una parola, come ha chiosato icasticamente Cristina Benussi,[36] il Calvino politico «era comunista, ma il narratore no».

D’altro canto, va osservato che la polemica sul realismo e l’esigenza di una “nuova cultura” risaliva a tempi di gran lunga antecedenti. Già nel 1946 Mario Alicata,[37] – dopo aver ironizzato in un articolo pubblicato su “Rinascita” – sulla “novità” della “corrente” del “Politecnico”, ne aveva elencato, puntigliosamente, i “limiti” culturali. Il primo di essi riguardava, secondo lui, il fatto che Vittorini e i suoi collaboratori avevano trascurato di stabilire un contatto “produttivo” tra la politica dei comunisti e «gli interessi e i problemi concreti delle grandi masse popolari italiane» [il corsivo è nel testo, n.d.r.]. Il secondo di non essersi adoperati abbastanza a ricomporre la frattura che si era prodotta nel tempo tra gli intellettuali e i ceti medi, i quali ultimi avrebbero dovuto essere sottratti ai gruppi reazionari detentori del potere e riguadagnati alla causa del socialismo e del progresso. Di qui l’accusa di deviazionismo pedagogico rivolta agli intellettuali del “Il Politecnico”, i quali, cercando «[…] di smuovere e di entusiasmare la fantasia», avevano automaticamente presunto che «’informare’ valesse automaticamente ‘educare’».    

In tale anatema era incorso, seppure indirettamente, anche il giovane Calvino,[38] le cui simpatie per la rivista di Vittorini lo ponevano, di per se stesse, in un oggettivo contrasto con la linea ufficiale del Partito. Refrattario a ogni visione del mondo che risultasse ideologica e teleologicamente orientata, motivato a scrivere e e agire solo ed esclusivamente per spirito di verità, animato da un moralismo senza ripensamenti, egli era rimasto quello stesso che aveva confidato a Scalfari le sue indefettibili “verità”. Di qui le sue scelte letterarie e ideologiche.

In campo artistico egli espose programmaticamente le linee del suo pensiero, ad esempio, ne Il midollo del leone, saggio nel quale sostenne che la letteratura «dovrebbe esprimere nella acuta intelligenza del negativo che ci circonda la volontà limpida e attiva che muove i cavalieri negli antichi cantari o gli esploratori nelle memorie di viaggio settecentesche».[39]

In campo politico, motivando le posizioni teoriche che erano a fondamento de L’antitesi operaia, un saggio scritto nel 1964,[40] rivelerà in una lettera a Norberto Bobbio[41]: «Vorrei insomma salvare la capra dell’universalismo proletario e i cavoli della razionalità storica e tecnica: i due pezzi d’un ideale umanesimo che ora sembrano più che mai inconciliabili. Perciò, la formula che tu derivi dal mio scritto: una classe operaia non più ‘antitesi’ ma ‘mediatrice’, è legittima e anche suggestiva; ma io rifiuto dall’impiegarla, perché ho paura che mi faccia perdere di vista la tensione verso l’obiettivo universale».

Scrittore cosmopolita, che non ha mai cessato di interrogarsi su se stesso e sul suo rapporto con la Storia, Italo Calvino, che aveva l’attitudine a comporre contestualmente opere differenti per contenuto e ispirazione, negli anni Cinquanta alternò l’ispirazione realistica con quella “favolosa”, quale del resto era già presente nel suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno. L’idea di raccontare la Resistenza assumendo il punto di vista di un bambino – del quale veniva sottolineata l’ingenuità, l’inconsapevole arguzia «e soprattutto l’istinto fiabesco»[42] –, se da un lato si prestava a una lettura antiretorica del partigianato, dall’altra era indicativa di un nuovo modo di concepire il rapporto fra lo scrittore e la società. Che di ciò fosse pienamente consapevole lo scrittore sanremese è testimoniato dalla intervista da lui rilasciata nel 1959 al quotidiano “Il Giorno”.[43] Al giornalista Roberto De Monticelli, che gli aveva chiesto come era avvenuto in lui il passaggio dall’atmosfera neorealistica dei primi racconti e del suo primo libro a quella dei due romanzi fantastici Il visconte dimezzato e Il barone rampante, egli aveva risposto «La tensione che la realtà storica ci aveva trasmesso andò preso afflosciandosi. Da tempo navighiamo in acque morte. Di quel nostro primo raccontare potevamo cercare di salvare la fedeltà alla realtà storica, afflosciandosi in essa, o la fedeltà a quel piglio, a quella carica, a quell’energia. Con i romanzi fantastici ho cercato di tener vivo appunto il piglio, l’energia, lo spirito, cioè – credo – la cosa più importante».

E della “trilogia araldica” – composta dai tre romanzi fiabeschi Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957) Il cavaliere inesistente (1959), poi raccolti nel 1960 nel volume unico I nostri antenati – e de Le fiabe italiane contiamo infatti di occuparci nel prossimo numero di “Articolo 33”.   

(Continua)


[1] G. Carlo Ferretti, Letteratura e ideologia, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 22-23.

[2] Così G. C. Ferretti, in La letteratura del rifiuto ed altri scritti, Mursia, Milano 1968-81, p. 177. L’autore, in questo suo libro, aveva dedicato a Calvino il capitolo Calvino: l’intelligenza del negativo, pp. 177-186. 

[3] I. Calvino, Prefazione all’edizione del 1964 de Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino 1964, p. 21-22.

[4] C. Pavese, Recensione a Il sentiero dei nidi di ragno, “l’Unità” di Roma, 26 ottobre 1947, ora in La letteratura americana e altri saggi. Einaudi, Torino 1962, p. 273 e p. 276.

[5] C. Pavese, Discorso Hanno ragione i letterati, trasmesso alla radio il 4 febbraio 1948, poi pubblicato su “Il sentiero dell’arte”, Pesaro 30 ottobre 1948, ora in C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, op. cit. p. 277 e p. 280.

[6] A questa stagione appartengono il racconto lungo a sfondo resistenziale Il sentiero dei nidi di ragno (1947) e i trenta racconti di Ultimo viene il corvo (1949).

[7] Secondo tale interpretazione lo scrittore avrebbe dovuto essere un “ingegnere di anime”.

[8] I. Calvino, Lettera a Gian Carlo Ferretti, Torino, 5 ottobre 1965, in Lettere. 1940-1985, a cura di L. Barabelli, Introduzione di C. Milanini, Mondadori, Milano 2000. Da ora in poi, Lettere. G. C. Ferretti, in La letteratura del rifiuto ed altri scritti, Mursia, Milano 1968-81, p. 17, aveva dedicato a Calvino il capitolo intitolato Calvino: l’intelligenza del negativo.

[9] Ci riferiamo ovviamente al concetto qramsciano del “pessimismo della ragione e ottimismo della volontà”.

[10] I. Calvino, Nota 1960 a I nostri antenati, in Romanzi e racconti, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, vol. I, Mondadori, Milano1991, p. 1213.

[11] U. Eco, Cultura di massa ed evoluzione della cultura, in “De Homine”, 5-6, Roma 1963.

[12] I. Calvino, I sentieri dei nidi di ragno, Einaudi, Torino 1964, p. 7. La prima edizione, pubblicata sempre da Einaudi, risaliva al 1947.Nella Prefazione del 1964, a Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino 1972, p. 9, a tale proposito, Calvino scrisse: «Perciò il linguaggio, lo stile, il ritmo avevano tanta importanza per noi, per questo nostro realismo, che doveva essere il più possibile distante dal naturalismo».    

[13] Lettera a G. C. Ferretti, Torino, 12 novembre 1964, in Lettere, op. cit. In essa Calvino conferma il carattere provvisorio, insomma di work in progress, della sua Prefazione, che non escludeva di poter – prima o poi – integrare ulteriormente.  

[14] Del resto, a dimostrazione della radicalità del fenomeno resistenziale, Beppe Fenoglio non aveva forse affermato – nella sua opera più nota – che «partigiano, come poeta, è parola assoluta, rigettante ogni gradualità»? Si veda B. Fenoglio, Il partigiano Johnny, Einaudi, Torino 1968, p. 18.

[15] P. Calamandrei, Resistenza, in “Il Ponte”, II, n. 10 ottobre 1946, pp. 837-838.

[16] Si veda, per tutti, B. Fenoglio, La paga del sabato, Einaudi, Torino 1969.  Il “mito” di una Resistenza “tradita” animerà il dibattito anche negli anni successivi, avendo una sua particolare fortuna del 1968. Su questo punto si veda, tra gli altri, il saggio polemico in senso anticomunista di E. Galli della Loggia, La resistenza tradita, in AA.VV., in Miti e storia dell’unità italiana, il Mulino, Bologna 1999. 

[17] Pubblicati rispettivamente su “l’Unità” l’8 febbraio 1948 e il 3 giugno 1948.

[18] Il concetto della tabula rasa, espresso da Calvino, viene ripreso e applicato all’Europa anche da T. Judt in Dopoguerra. Come è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi, Mondadori, Milano 2007, p. 83.

[19] Il momento di inizio di questo processo è da ravvisare nel Discorso di Palmiro Togliatti ai quadri del Pci napoletano, tenuto l’11 aprile 1944 presso il cinema Modernissimo di Napoli. Era l’annuncio di quella “svolta” di Salerno a seguito della quale il Pci, accettava di far parte del Governo Badoglio allontanando da sé ogni ipotesi di insurrezione, nel nome di un nuovo ideale: quello della “democrazia progressiva”.

[20] I. Calvino, Lettera a Eugenio Scalfari – Roma, Torino, Calende di marzo 1942, in Lettere., op. cit.

[21] I. Calvino, Lettera a Eugenio Scalfari – Roma, [Sanremo] 21 giugno [11942], in Lettere, op. cit.

[22] G. Pampaloni, La Nuova letteratura, in Storia della letteratura italiana, IX, Il Novecento, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, Garzanti, Milano1969, p 862.

[23] I. Calvino, Lettera a Eugenio Scalfari-Roma, Sanremo 19 marzo 43, in Lettere, op. cit.

[24] L’occasione della confessione era stata la rappresentazione al teatro Quirino di Roma di Casa di bambola di H. Ibsen.

[25] I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, Einaudi, Torino 2000. Nella sua conclusione, il romanzo porta, in calce la data 1953-1963. Sulla sua lunga e tormentata gestazione del romanzo, di cui l’Autore possedeva il “suo disegno ideale” fin dal 1953, e sulla sua importanza ai fini della sua successiva evoluzione si veda la Presentazione di Calvino al libro, nell’edizione sopra indicata.   

[26] Facciamo riferimento, in particolare, al saggio di H. Jonas, Il principio della responsabilità, Un’etica per la civiltà tecnologica, ed. orig. 1979, trad.  it. Einaudi, Torino 1990.

[27] Lettera A Elio Vittorini – Milano, Torino, 12 dicembre 1947, in Lettere, op. cit.

[28] E. Vittorini, “Il Politecnico”, n. 1, 29 settembre 1945, in “Il Politecnico”, Antologia a cura di M. Forti e S. Pautasso, Rizzoli, Milano, 1975, p. -57.

[29] I. Calvino, Il mare dell’oggettività, Fascicolo 24-25, autunno inverno 1956-57, ora in I. Calvino, Una pietra sopra, Mondadori, Milano 2023.

[30] I. Calvino, Lettera a Michele Rago, Roma, [Torino,] 20 – 1 -59, in Lettere, op. cit. M. Rago, su “l’Unità” del 17 gennaio 1959, aveva scritto un articolo su I racconti di Calvino.

[31] I. Calvino, Lettera a G. Pampaloni, San Remo 30 agosto 1962, in Lettere, op. cit.

[32] I. Calvino, Lettera a G. C. Ferretti, Torino 5 ottobre 1965, in Lettere, op. cit.

[33] In mancanza di altri elementi, è possibile evincere da queste parole che la critica di Calvino allo “storicismo”, oggetto di aspro dibattito in tutta la prima metà del secolo scorso, riguardi in particolare gli aspetti ideologici di tale indirizzo, soprattutto quelli che ne facevano una “filosofia della storia”.

[34] C. Salinari, Calvino tra fiaba e realtà, in Preludio e fine del realismo in Italia, Morano, Napoli 1967, p. 345. Salinari, responsabile della sezione culturale del PCI, era stato uno dei fondatori, nel 1954, de “Il Contemporaneo” e, dal 1965, direttore del “Calendario del popolo”.   

[35] “In una Lettera a Eugenio Scalfari, del 5- 6- 43, aveva scritto:” la mia arte è stata e sarà sempre sociale pur cercando di essere il più possibile arte, così come nella poesia di Ungaretti è sempre immanente un’etica anche quando canta […]”.

[36] Così, C. Benussi, Introduzione a Italo Calvino, Laterza, Bari 1989, p. 5.

[37] M. Alicata, La corrente “Politecnico”, “Rinascita”, 1946, ora in M. Alicata, Scritti letterari, Mondadori, Milano 1968, p. 244.

[38] Egli aveva infatti scritto per “Il Politecnico” tre articoli: Liguria magra e ossuta (1. dicembre 1945), cui fa seguire Andato al comando (19 gennaio 1946) e, l’anno successivo, Riviera di Ponente. (16 febbraio 1946).   

[39] I. Calvino, Il midollo del leone, ora in Una pietra sopra, op. cit., p. 19.

[40] I. Calvino, L’antitesi operaia, “Il menabò 7”, Einaudi, Torino 1964, ora in I. Calvino, Una pietra sopra, op. cit. Sul “Menabò” Calvino aveva pubblicato altri due saggi fondamentali: Il mare dell’oggettività (1960) e La sfida al labirinto (1962), ora in I. Calvino, Una pietra sopra, op. cit.

[41] I. Calvino, Lettera a Norberto Bobbio, Torino 28 aprile 1964, in Lettere, op. cit.

[42] C. Segre, La letteratura italiana del Novecento, Laterza, Bari 2004, p. 52.

[43] Si veda “Il Giorno”, 18 agosto 1959.

L'autore

David Baldini