Il contributo descrive un’esperienza di ricerca-azione condotta dall’Istituto comprensivo di Cariati, finanziata dal PNRR (DM 170/2022) e mirata a prevenire la dispersione scolastica attraverso il supporto alla genitorialità e il coinvolgimento della comunità locale. Il progetto ha utilizzato mentoring e tutoring per famiglie vulnerabili, integrando risorse istituzionali e del terzo settore, in risposta ai bisogni educativi e alle fragilità di contesto emersi dal Rapporto di Autovalutazione (RAV) della scuola.
Il lavoro dell’educatore all’interno dei servizi socioeducativi dedicati agli adolescenti vulnerabili è complesso ed emotivamente impattante. Infatti, è caratterizzato non tanto da un fare quanto da un esserci con l’altro. In questo contributo viene descritta una ricerca fenomenologico-ermeneutica con gli educatori di un centro diurno semiresidenziale che accoglie adolescenti fragili, collocato in un capoluogo di regione del centro Italia, volto a favorire e sostenere una riflessione da parte degli educatori sulle pratiche educative in un contesto connotato dalla vulnerabilità, attraverso l’esplorazione dei loro vissuti.
L’articolo, sottolineando la rilevanza di dedicarsi alle fasce più deboli della società, anche per quanto riguarda la ricerca scientifica, esplora l’utilizzo delle attività motorie e sportive come strumento educativo atto a promuovere l’inclusione sociale e a migliorare la qualità di vita dei giovani in condizione di disagio. La ricerca presentata indaga se e come lo sport possa avere un impatto sulla vita di questi giovani. I risultati evidenziano come, in alcuni casi, lo sport abbia dotato i giovani di nuove esperienze, una visione rinnovata di sé e del mondo, un maggiore capitale sociale, influendo a volte sulla loro traiettoria di vita. Tuttavia, si sottolinea che il successo, comunque difficile da determinare, dipende in realtà da diversi fattori.
Il contributo proposto ha l’obiettivo di condividere un’esperienza progettuale realizzata in una scuola secondaria di secondo grado, situata nella periferia sud di Milano, nella quale sono presenti una percentuale consistente di situazioni di marginalità a rischio di dispersione scolastica. Il progetto, dal titolo I care, ispirandosi al celebre motto di Don Lorenzo Milani, ha la finalità di coinvolgere nell’azione di cura educativa, gli studenti del quinto anno dell’indirizzo tecnico informatico che, attraverso la metodologia del peer to peer, hanno messo a disposizione il proprio tempo e le proprie competenze tecnologiche per creare del materiale didattico utile agli studenti e alle studentesse che frequentano il secondo anno dell’indirizzo professionale per i servizi e la sanità dello stesso istituto.
Nel corso degli anni, la figura dell’educatore ha visto una grande difficoltà nella definizione della propria identità professionale, in quanto orientato ad operare con una varietà e complessità di ambienti e bisogni diversificati. Relazione, ricerca e mediazione, tuttavia, rappresentano, elementi cruciali della competenza educativa, in quanto caratteristici dell’azione pedagogica. Tra le tante declinazioni, il presente contributo pone una riflessione, attraverso la narrazione di un’intervista condotta in un’esperienza di Erasmus +, sull’importanza cruciale della professionalità educativa nel contesto comunitario, a partire dalla relazione di cura, fino alla determinazione di un bene comune, insito nelle pratiche di istruzione, formazione e socializzazione.
Il contributo esplora il potenziale generativo e trasformativo della vulnerabilità sociale nel contesto del progetto Micropolis, attivo in tre aree siciliane segnate da povertà educativa. La ricerca-azione, condotta dal gruppo di Didattica e Pedagogia speciale dell’Università degli Studi di Enna “Kore” nell’ambito del progetto, si è svolta in micro-spazi concepiti come contesti dinamici di prossimità. Articolata in tre fasi – osservazione partecipata, formazione dialogica, elaborazione di materiale divulgativo e didattico – essa ha coinvolto operatori, famiglie e bambini nella co-costruzione di pratiche situate e inclusive. La vulnerabilità è assunta come chiave di lettura pedagogica, attraverso cui attivare processi relazionali e generare forme di giustizia socio-educativa.
L’integrazione e la promozione sociale godono dello statuto di prerequisiti all’interno del sistema scolastico italiano. Tuttavia, grazie alla precipua intuizione didattica della scuola Penny Wirton e alla strutturazione di un oculato percorso per lo sviluppo delle competenze trasversali e dell’orientamento secondo il paradigma del Liceo classico statale Giulio Cesare, essi giungono facilmente a costituire un prezioso strumento didattico capace d’inverare un curriculum formativo capace di coniugare alle abilità linguistiche i valori della solidarietà e della sussidiarietà, entro l’orizzonte del bene comune.
La vulnerabilità, spesso associata a mancanza e fragilità, può invece divenire una chiave di trasformazione educativa. L’aforisma “Si vede bene solo con il cuore” invita a riconoscere il valore di ciò che resta invisibile, ripensando le logiche educative dominanti e dando voce a prospettive marginalizzate. In contesti di fragilità sociale, questa prospettiva apre spazi per pratiche pedagogiche capaci di generare cambiamento, consentendo alle esperienze escluse di emergere e trasformare la vulnerabilità in risorsa. Il presente articolo esplora tale potenzialità, interrogandosi sul rischio di cristallizzare la vulnerabilità in categorie rigide e sull’importanza di approcci educativi che restituiscano agency e autodeterminazione ai soggetti coinvolti.
La differenza fa paura quando non la conosciamo, la interpretiamo attraverso pregiudizi e stereotipi o la leggiamo scegliendo sempre la stessa voce narrante. La scuola ha l’importante compito di “formare” i cittadini di domani, uomini e donne che devono saper interagire in contesti sempre più eterogenei, muoversi tra differenti punti di vista, sovrapporre sguardi diversi. Fin dai primissimi anni di vita del bambino, le fiabe sono un importante strumento che la scuola ha a disposizione, poiché co stituiscono una via di accesso “privilegiata” al mondo interiore dell’alunno. Attraverso l’identificazione dei personaggi delle storie è possibile combattere le paure, decostruire stereotipi, indossare “abiti” diversi dal proprio. Fornire contro-narrazioni diventa, in quest’ottica, uno strumento per potenziare l’empatia, coltivare un pensiero critico, aperto al dialogo e al confronto. Un possibile esempio di decostruzione è legato alla figura del lupo, il cattivo per eccellenza nelle fiabe, basti pensare a “Cappuccetto Rosso”, “I tre porcellini”, “I sette capretti”, solo per citare alcuni nomi. Ma cosa succede se queste storie vengono lette non dal punto di vista dei protagonisti ma da quello del lupo? Siamo sicuri che la morale della storia rimane la stessa? Il lupo è così cattivo come appare?
La didattica museale e la visual education rappresentano strumenti potenti per affrontare le sfide della vulnerabilità sociale, favorendo inclusione, rigenerazione e resilienza. Attraverso esperienze estetiche e visive, è possibile stimolare l’empatia, il pensiero critico e la narrazione di sé, creando spazi di dialogo e partecipazione che valorizzano l’unicità di ogni individuo. Questo articolo esplora il potenziale trasformativo di tali approcci, presentando esempi possibili di laboratori artistici e progetti rivolti a comunità vulnerabili, come rifugiati, migranti, giovani in situazioni di marginalità e a persone con disabilità. Si riflette inoltre sulle sfide etiche e metodologiche, evidenziando l’importanza della co-progettazione e del coinvolgimento attivo dei partecipanti. Infine, si propongono prospettive future per integrare la didattica museale e la visual education in percorsi educativi multidisciplinari, promuovendo una società più inclusiva e consapevole.