La Resistenza italiana iniziò subito dopo la caduta del fascismo e la firma dell’armistizio con gli Alleati e si protrasse per i venti mesi successivi, due inverni e un’estate, sino al 25 aprile 1945, giorno della Liberazione.
Alla fine del 1943 i partigiani erano poche decine di migliaia, ma nell’estate 1944 divennero circa ottantamila per raggiungere il numero di circa duecentomila effettivi nella primavera 1945. Nella Resistenza combatterono persone di ogni età, origine sociale e provenienza geografica e si registrò una forte presenza femminile con circa trentacinquemila partigiane. Si contarono soprattutto giovani e giovanissimi, nati negli anni Venti e, quindi, cresciuti sotto il fascismo, i quali, essendosi rifiutati di arruolarsi nel nuovo esercito della Repubblica di Salò, imboccarono la strada della lotta in montagna animati da un sentimento, anche pre-politico, di ribellione esistenziale nei confronti del regime.
Tutti i resistenti affrontarono i rischi dovuti a un tasso di mortalità maggiore di quello di una guerra combattuta tra eserciti regolari, e si registrarono circa ventinovemila morti mentre altri ventimila partigiani rimasero mutilati e invalidi.
Nei primi mesi le bande organizzavano imboscate in montagna e nelle vallate, adottando la tattica del «mordi e fuggi»; nelle città, invece, erano attivi i Gruppi di azione patriottica (Gap), organizzati dai comunisti, che realizzarono azioni di guerriglia urbana ed erano impegnati in operazioni di reclutamento, propaganda clandestina e sabotaggio. Soltanto nella primavera 1944, quando la presenza delle formazioni partigiane si fece più estesa e radicata, emerse l’esigenza di organizzarsi in unità che inquadravano diverse centinaia di uomini ognuna: le Brigate Garibaldi che riunivano in prevalenza i comunisti ed erano le più numerose e organizzate; le Brigate Matteotti, ove militavano i socialisti; i gruppi di Giustizia e libertà, cui facevano riferimento gli azionisti; le Brigate Mazzini, animate dai repubblicani; le Brigate Azzurre e l’Organizzazione Franchi, formate da ex militari monarchici e liberali, legate a doppio filo all’intelligence inglese; infine, le Brigate Fiamme verdi e quelle del Popolo, di orientamento cattolico, collegate alla Democrazia cristiana.
Secondo lo storico Claudio Pavone la Resistenza in Italia rappresentò un processo storico in cui si intrecciarono tre diversi tipi di conflitto: una «guerra patriottica» di liberazione dall’occupazione nazista; una «guerra civile», che vide i partigiani combattere contro i fascisti aderenti alla Repubblica di Salò; una «guerra di classe» che auspicava la trasformazione della lotta contro i nazifascisti nell’occasione per realizzare una rivoluzione di tipo sovietico in Italia.
Siamo, dunque, davanti a un fenomeno articolato ed eterogeneo, animato da individui e forze politiche mosse da intendimenti ideologici differenti, ma tenuto insieme da un medesimo convincimento antifascista. Questo si rivelò essere il minimo comune denominatore che consentì, anche nei momenti più delicati, di alimentare un afflato unitario e patriottico in nome di un condiviso desiderio di riscatto, di indipendenza e di libertà che, messo alla dura prova dei fatti, si rivelò più tenace di ogni contrasto e costituisce il principale e imperituro valore morale della Resistenza.
In effetti, la forza del movimento partigiano si è fondata nella pluralità di posizioni interne che hanno rappresentato la sua principale ricchezza. Proprio questa è stata l’eccezionalità della Resistenza italiana, rispetto alle altre esperienze di lotta armata attive contemporaneamente in alcuni Paesi europei, e nei riguardi della stessa storia nazionale precedente: nonostante le divisioni fazionarie interne, anche radicali, sul piano dell’ideologia, dei valori e della prospettiva politica nel fronte dell’antifascismo e malgrado la guerra civile in corso con i fascisti, gli italiani che scelsero di combattere la Resistenza o di sostenerla psicologicamente, logisticamente, materialmente, a rischio della loro stessa vita, seppero trovare lo stesso un minimo comune denominatore collettivo e conservarlo il tempo necessario per condurre in porto quella lotta.
Tanto più che ciò avvenne sebbene intorno continuasse a infuriare un feroce conflitto mondiale, in cui lo scacchiere italiano aveva assunto una valenza strategica fondamentale e, dunque, si era trasformato in un campo di battaglia a viso aperto, ma anche in un reticolato di azioni segrete di infiltrazione, manipolazione e destabilizzazione dei servizi di intelligence di tutti gli schieramenti. Nondimeno, i valori di base dell’antifascismo e dell’impegno a combattere per la libertà della propria patria, umiliata e ferita, permisero al movimento resistenziale non soltanto di svolgere una funzione difensiva e di supporto dell’azione militare degli Alleati, ma anche propulsiva per costruire un nuovo Stato, darsi rinnovate istituzioni democratiche e forgiare, nella crudezza del combattimento, ma con insperate doti di saggezza e di mediazione, una nuova classe dirigente.
«Scusate, scusate se è poco». Questo verrebbe fatto di dire se per un attimo si chiudessero gli occhi per percorrere a volo di uccello i mille anni di storia italiana precedente - gli eserciti che l’hanno attraversata, gli abissi di miseria raggiunti, le vette di ineguagliata civilizzazione toccate - se solo per un istante si riuscisse a guardare alla storia di questo grande Paese, così civile e così incivile insieme, da una prospettiva se non equanime, almeno rasserenata, ossia non faziosa, non militante, non ideologica, non furba, in grado di riconoscere la parte di ragione che sempre alberga nel campo opposto e più lontano da quello abitato dalla fragilità delle proprie certezze. Sì, proprio così: «Scusate, scusate se è poco», con riferimento ai risultati raggiunti dagli uomini e dalle donne della Resistenza italiana in quel giro di anni tempestosi che il 25 aprile di ogni anno abbiamo il dovere civile di ricordare e di celebrare da una generazione all’altra.