Cultura

17 gennaio 2024

Cento anni fa moriva Lenin, lo statista che ha cambiato la storia del Novecento

Quel giorno, era il 26 gennaio 1924, la temperatura a Mosca superava i 40 gradi sotto zero eppure una folla immensa e commossa seguì il feretro di Vladimir Ilic Lenin, morto qualche giorno prima, il 21 gennaio, l'uomo che con la parola d'ordine "tutto il potere ai soviet" aveva cambiato inaspettatamente la storia del Novecento. La rivoluzione d'ottobre (o il colpo di stato bolscevico, come è stato anche definito da alcuni storici) è infatti opera di Lenin, dopo il suo arrivo alla stazione Finlandia di Pietrogrado (il nome di S. Pietroburgo era stato cambiato all'inizio della prima guerra mondiale) e delle sue riflessioni "svizzere" sull'anello debole della catena, cioè sull'idea che dall'arretrata Russia potesse partire la rivoluzione socialista mondiale.

Un'idea originale, tanto strana rispetto al pensiero di Marx da spingere Gramsci a definirla «la rivoluzione contro il capitale», con ovvio riferimento all'opera principale di Marx.

Con la rivoluzione, o colpo di Stato (ma la definizione che si vuol dare non cambia la grandiosità dell'evento) per la Russia e per il mondo intero si apre uno scenario che dominerà tutto la parte restante del Novecento. Era inevitabile, quindi, che la figura di Lenin diventasse una chiave di lettura fondamentale per gli avvenimenti posteriori alla rivoluzione del 1917. Intanto in Russia, dove il sogno di Lenin di una grande trasformazione socialista in un paese arretrato incontra subito enormi difficoltà che lo stesso Lenin racconterà con grande lucidità nei suoi scritti. Nei sette anni che gli restano da vivere, Lenin sarà il leader di un paese che si ritira dalla guerra mondiale con pesanti mutilazioni territoriali, che deve affrontare la tragedia della guerra civile contro le armate bianche, finanziate e sostenute dai paesi occidentali, che deve imporre per sopravvivere il "comunismo di guerra" con nazionalizzazioni improvvisate, requisizioni forzate di beni di prima necessità, repressioni di massa di contadini, razionamenti, fame. Poi il tentativo della NEP (nuova politica economica) cioè la reintroduzione di forme di mercato e di iniziativa privata per cercare di risollevare un'economia distrutta dalla guerra civile e dal comunismo di guerra e dall'isolamento internazionale.

Gli ultimi anni di Lenin sono duri e lui li racconta nel suo testamento politico, dove appare una serie di riflessioni critiche sul suo operato, sulla stessa rivoluzione, sulla trasformazione in senso negativo della dittatura del proletariato e sull'involuzione burocratico-autoritaria del partito comunista russo. Inoltre c'è la consapevolezza del fatto che la rivoluzione nella catena debole del capitalismo non ha portato la classe operaia al potere nei grandi paesi industriali dell'occidente, in altre parole la rivoluzione mondiale non è nemmeno cominciata e la Russia è rimasta sola. Potrà sopravvivere? Ecco la domanda che traspare nel suo testamento politico. Tralasciando in questa sede la parte che riguarda il futuro del gruppo dirigente del partito comunista russo dopo la sua morte e la sua ostilità nei confronti di Stalin, bisognerebbe soffermarsi su un aspetto poco considerato dai sovietologi con l'eccezione del grande storico americano Moshe Lewin. Per quanto possa sembrare paradossale, infatti, sarà proprio l'uomo che Lenin non avrebbe voluto come suo successore alla guida del partito, Stalin, a dare una risposta ai dubbi e al pessimismo presenti nelle riflessioni finali di Lenin. Stalin capisce che non ci sarà nessuna rivoluzione mondiale e lancia la parola d'ordine del "socialismo in un solo paese". Il prezzo di questa politica com'è noto sarà altissimo e drammatico, fino al terrore degli anni Trenta, con milioni di morti e di deportati nei gulag e con la liquidazione di quasi tutto il gruppo dirigente bolscevico della rivoluzione. Ma tutto questo porterà a grandi risultati, anzi probabilmente all'unico risultato possibile di quella «rivoluzione contro il capitale» che Gramsci aveva intuito con grande lungimiranza: la trasformazione di una Russia arretrata – e qui appunto ci aiuta lo storico Lewin – in un grande paese moderno.

Con i due piani quinquennali degli anni Trenta decine di milioni di contadini analfabeti (la servitù della gleba venne abolita in Russia nel 1861) diventeranno operai, tecnici, ingegneri, professori, scienziati. Insomma in 10 anni avvenne, questa sì, una rivoluzione sociale che ha pochi precedenti nella storia. È questa straordinaria rivoluzione sociale, questa modernizzazione forzata che permetterà all'Unione Sovietica di sconfiggere il più potente esercito del mondo, quello tedesco, e portare le armate sovietiche fino a Berlino decidendo le sorti della seconda guerra mondiale.

Per ottenere questo risultato Stalin deve riportare la Russia al suo posto di paese di confine tra Europa e Asia, non riducibile né a oriente né a occidente. Deve liquidare gli occidentalisti cioè quel gruppo dirigente bolscevico che credeva nelle idee di Marx e nella rivoluzione proletaria mondiale (pensiero di Lenin compreso) e riportare al Cremlino uno Zar.

La Russia è un paese immenso (nove fusi orari dal mar Baltico all'oceano Pacifico) con al suo interno centinaia di nazionalità diverse. Probabilmente senza un potere forte e centralizzato, senza uno Zar, appunto, rischia di sfasciarsi. È dai tempi di Pietro il Grande che "occidentalisti" (Lenin compreso) e "panslavisti" si alternano alla guida della Russia. Alla fine torna sempre lo Zar, bianco o rosso che sia. Non è un caso che la Russia di oggi e Putin ci ricordano qualcosa… dopo gli anni di Eltsin e il tentativo di occidentalizzare la Russia. È una storia che si ripete.

L'autore

Marcello Villari