Politiche educative

14 aprile 2023

Autonomia: una parola che ha cambiato significato

Storicamente, in Italia la battaglia per l'autonomia è stata una battaglia di sinistra. Ci vollero 22 anni, dall'entrata in vigore della Costituzione, per vedere realizzate effettivamente, nel 1970, le regioni, con una legge che concedeva loro la possibilità di riscuotere tributi e gestirli autonomamente per poter offrire servizi.

La legge 281 del 16 maggio 1970 fu una delle molte leggi progressiste che videro la luce in quegli anni, insieme allo statuto dei lavoratori, alla legge sul divorzio, alla legge 352 (che rese finalmente possibili i referendum già previsti dall'articolo 75 della Costituzione) e ai decreti delegati, che portarono a una riforma democratica della scuola italiana.

Tutte queste leggi e riforme furono il risultato di una richiesta di autodeterminazione e libertà, sorrette dalle lotte dei lavoratori, degli studenti e delle donne.

Nei luoghi di lavoro si chiedeva maggiore libertà di azione sindacale, nella scuola organi collegiali e diritto di assemblea, mentre la legge sul divorzio significava la libertà di stare insieme solo per amore e non per vincolo contrattuale nella famiglia.

La richiesta di autodeterminazione si estendeva anche alle regioni, alle province e ai comuni, dove la gente voleva cambiare il mondo partendo dal proprio piccolo e attuare le riforme sociali che lo stato nazionale non era in grado di realizzare. Questa era la democrazia partecipata, caratterizzata da un alto livello di partecipazione popolare costante e solidale, che si manifestava negli alti livelli di affluenza alle urne, dalle elezioni nazionali fino alle elezioni per i comitati di quartiere.

Gli italiani partecipavano attivamente e riuscivano a influenzare la storia del Paese, come dimostrato dalla partecipazione popolare a Milano ai funerali delle vittime della strage fascista di Piazza Fontana nel dicembre del 1969, che fermò il tentativo eversivo di bloccare le conquiste sociali.

La speranza era che le regioni amministrate dalla sinistra sarebbero diventate l'esempio che tutto il paese avrebbe prima o poi liberamente seguito.

Questo grande disegno si è in parte realizzato e ha portato a conquiste di altissimo livello per tutto il Paese. Tra queste, l'approvazione del Servizio Sanitario Nazionale nel 1978, che ha carattere universalistico e obiettivi unici nel mondo occidentale, è ancora oggi un simbolo delle conquiste ottenute.

La reazione degli anni 80 e la vittoria del liberismo

Purtroppo però gli anni '80 hanno rappresentato una svolta nella storia italiana e europea. La costruzione di una società più giusta ed egualitaria ha subìto una battuta d'arresto a causa di molteplici fattori. Tra questi, la crisi economica globale e la necessità del capitale di mantenere, se non accrescere, i propri profitti hanno portato all'emergere dell'idea che le conquiste sociali e il welfare non fossero più sostenibili.

L'Europa, che avrebbe dovuto proteggere il welfare del continente e prepararsi all'impatto della globalizzazione con politiche economiche diverse dal liberismo, invece ha implementato politiche di austerità e spinto per la riduzione della spesa pubblica e per privatizzare importanti settori strategici, come la sanità, l'istruzione e i trasporti.

Si è affermata l'idea che lo stato non dovesse più avere al centro del proprio agire il benessere di ogni singolo cittadino, ma che quest'ultimo, in un mondo finalmente libero da ogni intoppo statalista e da ogni rivendicazione sociale, fosse l'unico responsabile del proprio destino.

In Italia, questo processo è stato ulteriormente complicato dalla presenza di nodi strutturali di malcostume e di arretratezza del sistema produttivo.

Questa idea, fondata sul liberismo selvaggio e sulla negazione dello stato sociale, ha portato, in Italia e in Europa, alla riduzione di servizi, alla compressione di diritti, alla perdita di tutele, cioè a un declino del welfare e della solidarietà sociale, facendo emergere l'idea del "si salvi chi può", abbandonando i cittadini alle "leggi del mercato".

Di conseguenza molti cittadini europei hanno perso la fiducia nelle istituzioni europee e nel sogno che dovevano rappresentare, e si sono rivolte al localismo o a nuove forme di nazionalismo come ultimo tentativo di difendere i propri diritti.

In Italia, il localismo è emerso come forma di resistenza all'austerità e alla globalizzazione, con la nascita di movimenti autonomisti e secessionisti come la Lega Lombarda.

Tuttavia, come dimostrato dalla storia, queste politiche sono state fallimentari nel risolvere i problemi di bilancio per cui furono pensate e hanno portato a disuguaglianze sociali sempre più grandi e impoverimento per la maggior parte della popolazione. La storia della Grecia dopo la crisi del 2008 è una triste rappresentazione di cosa intendo dire.

Oggi queste tensioni mettono a rischio la tenuta stessa dell'Europa e interrompono il cammino di emancipazione di un intero continente.

In Italia la situazione si è fatta sempre più critica anche a causa di errori come quello commesso dal governo dell'Ulivo nel 2001, che approvò una pessima riforma del titolo quinto della Costituzione Italiana.

Tale riforma viene ora utilizzata dai partiti della destra autonomista per proporre una forma di autonomia differenziata che rischia seriamente di spaccare il paese in tante piccole regioni governate in modo autocratico, incapaci di garantire servizi ai cittadini e, soprattutto, aumentando la diseguaglianza e le difficoltà economiche, riducendo le tutele e le garanzie previste dalle leggi nazionali per la maggior parte dei cittadini.

La scuola nell'autonomia differenziata

Questa autonomia, sia ben chiaro, non ha nulla a che vedere con quella prevista dall'articolo 5 della costituzione. Al contrario, in molti casi, rappresenta un netto peggioramento e addirittura una negazione della autonomia.

Un esempio di ciò è rappresentato dall'idea di autonomia differenziata applicata alla Scuola pubblica.

Il tentativo di garantire a tutti gli italiani una scuola di qualità e la possibilità di raggiungere i più alti gradi di istruzione, aveva portato negli anni '70 ad un aumento della scolarizzazione. Giovani che un tempo potevano solo aspirare ad imparare a leggere, scrivere e far di conto, adesso entravano nei licei, negli istituti tecnici, nelle università.

Nel processo di democratizzazione della scuola aveva avuto un peso notevole la riforma del 1974 e molte altre leggi che hanno esteso la partecipazione, come l'autonomia scolastica, inizialmente pensata in modo molto diverso da come poi è stata attuata.

Negli anni 2000 questo modello di scuola democratico e universale diventa, nell'opinione dei governanti, troppo costoso.

In una logica di mercato quale senso ha insegnare storia e geografia al figlio di un operaio? Meglio insegnare Inglese, Informatica e cultura di Impresa e mandarlo a lavorare al più presto possibile.

Iniziano i tagli sull'istruzione, a partire dalla riforma Moratti del 2003 per proseguire con i tagli della riforma Gelmini del 2010.

La scuola subisce un drastico calo, anche qualitativo, per svariate ragioni.

Viene percepita come improduttiva, come un serbatoio di mano d'opera impiegatizia e nullafacente. Si riducono gli investimenti sul personale, pagandolo relativamente sempre meno, sminuendone il ruolo sociale e facendo in modo che l'insegnamento finisca, salvo rare e meritevoli eccezioni, per non essere più un lavoro attrattivo per i giovani più preparati, ma un ripiego in attesa di un "lavoro vero".

Si fa, parallelamente, avanti una idea di merito piuttosto bizzarra, che poco c'entra con l'articolo 34 della Costituzione, e che è mutuata direttamente dalla stessa idea liberista: la scuola non serve a migliorare il livello di una intera società, ma solo a consentire ai "meritevoli" di farsi strada e affermarsi nel mondo economico.

La parola chiave in questo caso è occupability, brutto termine inglese per indicare "uno che abbia possibilità di trovare un lavoro".

In quest'ottica si può pensare di accorciare le scuole superiori a 4 anni invece che 5, tralasciando di insegnare, o riducendone il peso, tutto ciò che non è immediatamente interessante ai fini dell'occupabilità.

E per aumentare l'occupability è sicuramente meglio che la scuola sia gestita "in collaborazione con il territorio".

È qui che entra in gioco il tema dell'autonomia regionale differenziata: secondo i suoi sostenitori ogni regione potrebbe trovare più conveniente organizzare l'istruzione in base alle richieste del proprio mercato del lavoro.

In questo modo nelle regioni più avanzate e industrializzate vedremmo un proliferare di investimenti in laboratori di robotica e di intelligenza artificiale. Nelle regioni più povere, dove ricchi turisti vanno in vacanza e ci sono poche industrie, forse avremmo il meglio degli istituti professionali per il turismo, ma, probabilmente, nessun istituto tecnico d'avanguardia.

Non che abbia qualcosa contro le scuole di robotica o gli istituti per il turismo, ma il problema è un altro: il problema è che, se vogliamo rilanciare l'Italia, servono entrambi i tipi di scuola in ogni parte del Paese. A meno che non accettiamo l'idea che i cittadini di alcune regioni del Paese abbiano il proprio destino già segnato dalla economia del territorio dove nascono.

E non è solo una questione di giustizia, è una questione di convenienza anche per le stesse regioni più ricche, quelle che pensano di avvantaggiarsi da una autonomia che consenta loro "di fare da sé".

Passare da una scuola nazionale, ad una scuola con una offerta dipendente dalle singole realtà locali, significa ridurre, per tutte le regioni d'Italia, il bacino potenziale di studenti ben preparati da cui attingere.

E magari ci ritroveremmo fra dieci anni, nella ricca Lombardia, a dire "mancano esperti di informatica", come già, in parte, accade adesso, nonostante ci sia un intero Paese che, potenzialmente li prepara.

Già questo basterebbe a dire che regionalizzare la scuola la impoverisce nei contenuti e impoverisce il Paese.

C'è però un secondo importante aspetto da sottolineare.

Se l'esigenza è solo quella di adattare al territorio la scuola, già oggi l'autonomia di cui ogni singolo istituto dispone, garantita da leggi nazionali, consente di fare tutto quello che serve: per collaborare con una azienda del territorio non occorre scomodare l'autonomia differenziata, in quanto già oggi ciascun singolo istituto può modificare la propria offerta formativa, fino, in certi casi, come nell'istruzione professionale, a quasi il 30% del monte ore.

Già oggi ogni singolo istituto può accettare donazioni da industrie e allestire laboratori.

E ciò senza che gli insegnanti diventino dipendenti regionali, senza che le leggi nazionali sulla scuola vengano sopraffatte da leggi regionali, che magari poi dovrebbero essere corrette dalla Corte Costituzionale, come è già successo migliaia di volte per le controversie fra Stato e Regioni sorte dopo la modifica costituzionale del 2001.

Siamo quindi davanti ad un chiaro esempio in cui l'autonomia regionale differenziata viene chiesta con la motivazione di "dare di più" ma in realtà non solo non darebbe alla scuola nulla di più, ma addirittura rischierebbe di togliere molto.

Dico questo non tanto per sottolineare l'inutilità della proposta di autonomia differenziata per la scuola, quanto per rispondere ad una domanda: se già oggi le scuole potrebbero adattarsi al territorio, perché i fautori della autonomia differenziata insistono per avere il totale controllo della scuola?

La scuola è stata, insieme al mondo del lavoro, la forza più grande per quelle spinte al cambiamento che hanno caratterizzato gli anni '70.

Nelle scuole si spiegava, e si insegnava con l'esempio, agli studenti, quali sono i valori di una società libera e autenticamente democratica. Ciò avveniva, come la storia ha dimostrato, non a scapito della preparazione dei nostri studenti ma semplicemente investendo in una scuola di qualità, che formava cittadini capaci di stare sul mercato del lavoro con efficacia ma anche con un occhio attento ai propri diritti.

È proprio quel tipo di scuola che può far paura a chi immagina un modello di società asservito ad una logica aziendale arretrata e perdente, che purtroppo domina fra le imprese italiane, secondo cui gli individui sono solo dei fattori produttivi: se costano poco e non protestano vanno bene, altrimenti si sostituiscono.

È un disegno voluto anche per i suoi risvolti a livello nazionale. E ci fa capire che legame c'è fra le spinte localiste e una idea di società in cui gli individui sono contrapposti gli uni agli altri e non si persegue più una idea di giustizia sociale.

È un modo per ridurre l'Italia ad un agglomerato di regioni a velocità variabile, governate da autocrati senza i contrappesi e le garanzie che la Costituzione ha previsto per il governo nazionale, con un debole stato centrale che suddivide briciole.

Altro che "autonomia delle scuole": in questo modello le scuole finirebbero addirittura per perdere l'autonomia di cui adesso godono, garantita da leggi nazionali. La frammentazione della scuola rappresenterebbe la frammentazione democratica del Paese, con buona pace dei diritti acquisiti in tutti i campi.

Una scuola unitaria, portatrice di valori culturali comuni, libera di autogestirsi democraticamente, potrebbe essere l'unico antidoto ad una politica identitaria localista, e, contemporaneamente, potrebbe ridare corpo, in futuro, a quella cultura della partecipazione democratica che abbiamo conosciuto in epoche ormai lontane.

E questo ci porta ad una sola conclusione: l'autonomia differenziata serve a dividere i cittadini, metterli gli uni contro gli altri, e poterli governare meglio. Con buona pace di tutte le conquiste degli anni '70 e dell'Italia intesa come nazione democratica.